La morte di Mussolini e Claretta Petacci
Il 28 aprile 1945 furono uccisi dai partigiani a Giulino di Mezzegra, in provincia di Como, di fronte al muro di questo cancello
di Mario Macchioni
Il 27 aprile 1945 il partigiano socialista e futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini fece un annuncio a Radio Milano Libera: «Lavoratori, il fascismo è caduto. […] Il capo di questa associazione a delinquere, Mussolini, mentre giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera svizzera, è stato arrestato. Egli dovrà essere consegnato ad un tribunale del popolo, perché lo giudichi per direttissima. E per tutte le vittime del fascismo e per il popolo italiano dal fascismo gettato in tanta rovina egli dovrà e sarà giustiziato. Questo noi vogliamo, nonostante che pensiamo che per quest’uomo il plotone di esecuzione sia troppo onore. Egli meriterebbe di essere ucciso come un cane tignoso». L’uccisione avvenne il giorno dopo, sabato 28 aprile: nel Comitato di Liberazione Nazionale, di cui Pertini era dirigente, tutti concordavano sul fatto che la Resistenza dovesse assumersi la responsabilità della condanna e della sua esecuzione.
Mussolini morì insieme alla sua amante, Claretta Petacci. Per capire perché Petacci rimase con Mussolini fino alla morte, è utile ricostruire brevemente la loro storia, iniziata 13 anni prima.
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Mussolini e Petacci si incontrarono per la prima volta incrociandosi in auto sulla Via del Mare tra Roma e Ostia, mentre lei era con la sua famiglia. Petacci si considerava da anni innamorata di Mussolini, pur senza conoscerlo: gli inviò la prima lettera quando aveva 14 anni, dopo l’attentato di Violet Gibson che lo ferì di striscio al volto, nel 1926. In quell’occasione Petacci si definì una «piccola fascista della prima ora» e dichiarò il suo amore per Mussolini. Una volta visto di persona quell’amore aumentò, spingendola a contattarlo con insistenza, mandandogli lettere e chiedendogli di farsi ricevere a Palazzo Venezia. Nonostante la notevole differenza di età – quando si incontrarono per la prima volta lei aveva 20 anni, lui 49 – i due iniziarono una relazione turbolenta che resistette anche al matrimonio di Petacci con l’ufficiale dell’Aeronautica Riccardo Federici, da cui si separò nel 1936. Mussolini invece rimase sposato con Rachele Guidi durante tutta la loro relazione, ed ebbe saltuariamente relazioni con altre donne.
Petacci era una grafomane: annotava in un diario ogni incontro con Mussolini, conservava ogni sua lettera e trascriveva ogni sua telefonata, nonostante lui le chiedesse esplicitamente di non farlo. Le sue memorie e le sue lettere raccontano non solo questioni amorose ma anche politiche, e fanno emergere la sua devozione alla causa fascista, spesso più convinta e intransigente di quella di Mussolini stesso, specialmente nel periodo tra il 1943 e il 1945. In quel periodo il fascismo esercitava il suo potere residuo in Italia settentrionale – il governo della nuova repubblica fascista aveva sede a Salò – e Mussolini oscillava tra disillusione e speranza di riscatto, mentre nel resto d’Italia la Resistenza combatteva per liberare il paese dall’occupazione nazista.
«Nelle province alpine e adriatiche», scrive Mussolini in una lettera del 3 febbraio 1944 indirizzata a Petacci, «il mio nome è assolutamente ignorato e il mio governo schernito».
Mussolini aveva un piano per resistere nel caso le cose si fossero messe davvero male per la repubblica fascista: consisteva in quello che veniva chiamato “Ridotto Alpino Repubblicano” (RAR), un ultimo baluardo militare in Valtellina, che era tra i territori amministrati dal governo di Salò ed era facilmente raggiungibile da Milano, dove Mussolini tenne il suo ultimo discorso pubblico. Al teatro Lirico, nel dicembre del 1944, fece un appello con i toni di sempre a tenere la cosiddetta linea del Po e resistere all’avanzata degli Alleati. Nel frattempo però Mussolini e i gerarchi mettevano a punto la ritirata in Valtellina.
Al momento dell’offensiva degli anglo-americani in primavera, però, il progetto del Ridotto Alpino non fu attuato per diversi motivi, principalmente a causa della disorganizzazione interna del partito. Il trasporto di vettovaglie e armamenti non fu avviato per tempo e inoltre il maresciallo Graziani, ministro della Guerra, era contrario all’operazione, che comunque non fu autorizzata dai tedeschi i quali stavano già portando avanti trattative con gli Alleati per la resa. Dal 19 aprile Mussolini si stabilì in prefettura a Milano insieme ai gerarchi che sarebbero poi stati uccisi insieme a lui, cercando di capire quali vie d’uscita gli restassero a disposizione: a marzo aveva fatto una proposta di resa agli Alleati tramite l’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, ma gli anglo-americani volevano una resa incondizionata. Contattò quindi le autorità svizzere per ottenere un passaggio al confine, ma gli fu negato. L’idea del Ridotto Alpino rimase in discussione fino al 25 aprile, ma poi fu chiaro che neanche quella via era percorribile. Quindi non gli rimaneva che la fuga.
Il 25 aprile, mentre le insurrezioni fuori città erano già in corso, Mussolini si incontrò un’ultima volta con Schuster, in un estremo tentativo di evitare la resa dei conti. Secondo quanto raccontato dallo stesso cardinale anni dopo, Mussolini gli disse di voler continuare a combattere dalle montagne con «tremila camicie nere» per poi arrendersi. «Non illudetevi, Duce, io so che le camicie nere non sono che trecento, e non tremila come vi si fa credere», gli disse Schuster. Mussolini gli rispose: «Non mi fo’ illusioni».
È difficile stabilire se Mussolini abbia mai veramente preso in considerazione l’idea di combattere ancora, ma in ogni caso nelle ore successive al colloquio con Schuster decise di tentare clandestinamente il passaggio al confine. Andò verso Como con le forze residue e con un gruppo di gerarchi. Da lì si unì a una colonna di mezzi tedeschi, travestito da soldato tedesco. Era il 27 aprile.
Nei dintorni di Dongo, sulla riva occidentale del Lago di Como, la colonna fu fermata dai partigiani della 52esima Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”. Fu data la possibilità al comando tedesco di passare, a condizione di fermare e ispezionare un veicolo pieno di gerarchi fascisti. I tedeschi accettarono, ma i fascisti si opposero all’ordine di cedere le armi: cominciò quindi una sparatoria che durò 20 minuti, alla fine della quale i fascisti si arresero e Mussolini venne riconosciuto, arrestato e portato in una caserma poco distante insieme a Claretta Petacci, che in precedenza lo aveva raggiunto a Milano e stava fuggendo con lui.
Durante la prigionia, al brigadiere incaricato di organizzare la sorveglianza venne l’idea di fargli scrivere un biglietto come testimonianza storica: è probabilmente l’ultimo scritto noto di Mussolini. Il brigadiere si chiamava Giorgio Buffelli e raccontò così l’accaduto:
Mussolini continua a passeggiare. Ho un’idea. Gli voglio far scrivere due righe di ricordo. Attendo che passeggiando mi giunga quasi vicino, prendo in mano la penna, spacco mezzo foglio di carta di protocollo e quando mi passa accanto gli dico: “Vi dispiace voler scrivere due righe?”. Si fa quasi burbero e poi risponde: “Che è questo, un verbale di interrogatorio?”. Lo rassicuro: “No, non ho ordini in proposito e me ne guarderei bene. Trattasi solo di una dichiarazione per far vedere che siamo noi della 52ª Brigata Garibaldina che vi abbiamo fermato”. “Che, te ne fai un vanto?”. Non so cosa rispondergli anche perché vedo che il fatto di scrivere gli secca moltissimo. “Sa, dispiacerebbe sentire dire, in un domani, che magari vi abbiamo fermato a Chiavenna … Merano … e dessero così alla storia cose non rispondenti al vero … se volete farlo …”. Si fa più docile e vedo che gli dispiace non accontentarmi. “Sta bene” dice “ma solo sotto forma di cimelio storico”. “Sia” rispondo. “Che debbo scrivere” chiede. “Scrivete così: (e scrive) La 52ª Brigata Garibaldina mi ha catturato oggi venerdì 27 aprile nella piazza di Dongo“. Poi aggiungo: “Ora dite il trattamento che vi abbiamo usato”. Ed egli aggiunge di sua iniziativa: Il trattamento durante e dopo la cattura è stato corretto. Indi lo firma e me lo porge. Prendo il foglietto, lo piego, ringrazio e me lo metto in tasca.
Quella notte Mussolini e Petacci vennero portati in una casa privata tra Azzano e Mezzegra, a circa 20 chilometri da Dongo, dove passarono la loro ultima notte. La dirigenza del Comitato di Liberazione Nazionale con sede a Milano fu compatta nel decidere di non consegnare Mussolini agli Alleati e fu dato ordine al partigiano Walter Audisio, conosciuto con il nome di battaglia “Valerio”, di eseguire la condanna a morte.
Sulle ultime ore di Mussolini è stato scritto e detto tantissimo. Molti dei libri e dei documentari, però, non hanno sufficiente rigore storico: si basano su testimonianze parziali, indirette o confuse, oppure utilizzano alcuni elementi della vicenda sottolineandone volutamente gli aspetti misteriosi, come la sparizione dei beni posseduti da Mussolini e dai gerarchi (il cosiddetto “oro di Dongo”) o la morte in circostanze poco chiare del partigiano “Capitano Neri”. In queste versioni – come quella di Giorgio Pisanò, ex fascista e tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano – viene messo in discussione l’esecutore materiale dell’uccisione e la dinamica dell’accaduto, facendo leva sul fatto che le testimonianze dei tre esecutori siano leggermente differenti in alcuni dettagli non sostanziali.
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Quello che è certo è che l’ordine arrivò dalla dirigenza della Resistenza e che fu eseguito a Giulino di Mezzegra da “Valerio” e da altri due partigiani, Aldo Lampredi e Michele Moretti, nel pomeriggio del 28 aprile. La condanna, eseguita senza plotone, non includeva Petacci: tuttavia secondo le testimonianze Petacci si aggrappò a Mussolini al momento degli spari e morì anche lei. I corpi dei due vennero trasportati a Milano in un camion insieme ad altri fascisti morti, per esporli nel punto esatto di piazzale Loreto dove circa otto mesi prima erano stati fucilati 15 partigiani.
Come hanno scritto Mimmo Franzinelli e Marcello Flores nella loro Storia della Resistenza, Mussolini, morendo, rimase involontariamente coerente con un motto ricorrente del fascismo: «Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi».