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  • Venerdì 7 luglio 2023

I profughi siriani in Turchia devono ricominciare da capo

Dopo il terremoto molti sono tornati nei campi temporanei, mentre i turchi alle prese con la crisi economica li tollerano molto meno

di Valerio Clari

Un paziente della clinica riabilitativa di Reyhanli, al confine con la Siria (European Union/Diego Cupolo)
Un paziente della clinica riabilitativa di Reyhanli, al confine con la Siria (European Union/Diego Cupolo)
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Hassan Elukda è un rifugiato siriano arrivato in Turchia nel 2013: da cinque anni viveva in un appartamento nella provincia meridionale di Kahramanmaras, con la moglie e sei dei suoi sette figli. Quattro erano arrivati con lui dalla zona di Idlib quando la guerra li aveva costretti a lasciare la Siria, tre sono nati in Turchia, una nel frattempo si è sposata. Elukda lavorava come manovale e come bracciante agricolo: riusciva a mandare i figli a scuola e a sostenere la famiglia, grazie ai soldi guadagnati e agli aiuti forniti dal programma ESSN, che con i fondi dell’Unione Europea garantisce a un milione e mezzo di rifugiati carte di credito prepagate ricaricate con piccole somme ogni mese.

Ma la vita che Elukda si era costruito in Turchia, come quella di buona parte dei quasi due milioni di siriani residenti in dieci province turche, è stata sconvolta dal terremoto del 6 febbraio. Oggi la sua famiglia vive nel campo di Vali Saim Cotur, in una tenda; lui non ha più una casa né un lavoro. Le poche prospettive lo spingerebbero a partire ancora: «Dovrei andare in Europa, ma non c’è un modo legale. E non posso lasciare qui la mia famiglia da sola».

Il paradosso è che Elukda è stato fortunato: la sua casa non è stata danneggiata dal terremoto. Ma dice: «Il nostro padrone di casa dopo il terremoto prima ci ha triplicato l’affitto, da 500 a 1.500 lire turche al mese (da 20 a 60 euro, ndr), poi anche se gli abbiamo dato quanto richiesto ci ha cacciato, visto che l’affitto era stato rinnovato senza un vero contratto».

Nell’area colpita dal terremoto di magnitudo 7.7 le case distrutte o da demolire per danni non recuperabili sono quasi 300mila: i prezzi delle abitazioni in affitto si sono moltiplicati di anche dieci-quindici volte, la richiesta è altissima, i proprietari spesso sfruttano il momento, oppure vogliono utilizzare gli appartamenti per qualche parente sfollato. Il risultato è che il caso di Elukda è piuttosto comune, una parte importante della comunità siriana presente nella zona è tornata a vivere nei campi e nelle tende. Oppure è dovuta partire di nuovo.

Hassan Elukda e parte della famiglia ospite della tendopoli (European Union/Diego Cupolo)

È una comunità molto numerosa: la Turchia ospita 3,6 milioni di profughi, la gran parte sono siriani. Sono arrivati a partire dal 2011, dopo l’inizio della guerra civile siriana. Circa 1,7 milioni erano residenti nelle province colpite dal catastrofico terremoto di febbraio, le più vicine al confine: sono più del 10 per cento dei residenti totali nell’area (13 milioni). Non tutti sono stati “fortunati” come la famiglia di Elukda: 4.300 degli oltre 50.000 morti in territorio turco per il terremoto sono siriani; molti di più hanno avuto la casa distrutta.

– Leggi anche: In Turchia due milioni di sfollati vivono ancora nelle tende

Per la comunità siriana in Turchia il terremoto è stato l’ultimo grave evento di una situazione che negli ultimi mesi era diventata più complicata, dopo anni di lenti ma costanti progressi. Prima del terremoto il 98 per cento dei rifugiati siriani non viveva più in un campo, ma in un’abitazione, ora quella percentuale è scesa radicalmente.

Dopo la pandemia, e poi maggiormente dopo l’inizio della guerra in Ucraina, la Turchia ha dovuto convivere con un’inflazione altissima, causata anche da politiche economiche perlomeno bizzarre: ora è intorno al 40 per cento su base annua, ma nel 2022 ha toccato anche l’80 per cento, mentre la lira turca ha perso e continua a perdere molto valore. Questo ha creato un gran numero di nuovi poveri e ha aumentato le tensioni con l’altra componente “debole” della società, quella dei rifugiati siriani.

La questione siriana è stata al centro della campagna elettorale, soprattutto prima del ballottaggio fra il presidente uscente Recep Tayyip Erdogan e il candidato delle opposizioni Kemal Kilicdaroglu: quest’ultimo, nel tentativo di conquistare una parte del voto nazionalista e di destra, aveva promesso di «rimandare a casa entro due anni» i siriani in caso di elezione. Nelle maggiori città controllate dall’opposizione, fra cui Istanbul e Ankara, sono comparsi cartelloni con slogan come «Fuori i siriani». Dopo il voto, sui social network la comunità siriana è stata indicata come decisiva per la vittoria di Erdogan: in realtà i siriani in possesso della cittadinanza turca e quindi in grado di votare sono al momento non più di 200mila.

La vittoria di Erdogan non ha allentato le tensioni, anche se garantisce il proseguimento delle politiche di accoglienza: il governo riceve molti aiuti internazionali diretti e indiretti per ospitare una comunità così numerosa, compresi i discussi fondi frutto dell’accordo con l’Unione Europea per bloccare i migranti prima del loro ingresso nei territori europei.

La frontiera fra Turchia e Siria a Reyhanli (European Union/Diego Cupolo)

Il 15 giugno, si è tenuta a Bruxelles la settima Conferenza europea sulla Siria, che ha definito lo stanziamento di aiuti destinati alla popolazione siriana (che quindi non passano per i governi siriano e turco) pari a 5,6 miliardi di euro per il 2023 e il 2024. L’Unione Europea è il principale donatore per quel che riguarda la Siria e i profughi siriani all’estero: dal 2011 ha garantito oltre 30 miliardi. Il progetto più consistente è quello che trasferisce piccole somme di denaro, 350 lire turche al mese (quasi 14 euro) direttamente ai profughi, come contributo per le spese di base. La cifra di ESSN è frutto di una trattativa con il governo turco: non deve essere superiore agli aiuti che il governo garantisce ai cittadini turchi in difficoltà, per evitare di creare tensioni sociali.

Ma esistono numerosi progetti umanitari più piccoli: molti sono proprio in Turchia, dove per le organizzazioni non governative internazionali è più facile operare rispetto alla Siria.

Le ong si appoggiano a strutture locali, spesso gestite proprio da siriani: è il caso della clinica di NSPPL (Centro nazionale siriano per arti protesici), con sede a Reyhanli, nella provincia di Hatay e a 100 metri dal confine con la Siria. Qui dal 2017 si producono protesi su misura da fornire agli amputati, per lo più siriani, quasi sempre vittime di incidenti di guerra: è l’unico centro che compie questo lavoro senza fini di lucro, grazie all’appoggio della ong Relief International. Dal 2017 ha gestito 28mila casi, non solo fornendo le protesi, ma anche la fisioterapia e l’assistenza psicologica. Ogni tecnico produce 5 protesi al mese (sono in sei), nel giro di tre settimane si procede all’adattamento all’arto e alla fisioterapia. Muna Hama, 23 anni, siriana, appartiene al team di rieducazione: «Sono a mia volta amputata da quando avevo tre anni: da ragazzina ho ricevuto assistenza nel centro, poi ho studiato fisioterapia per lavorare qui».

Nella clinica arrivano anche siriani residenti in Siria come Mohamed (nome di fantasia), appartenente all’esercito dei ribelli che si sono opposti al presidente siriano Bashar al Assad. È residente ad Azaz, in Siria, e ha perso entrambe le gambe sopra il ginocchio su una mina: «Ci vogliono cinque ore e molti documenti per arrivare qui, ma è la soluzione migliore: le mie protesi dovevano essere cambiate e posso farlo solo in questa clinica». Le frontiere fra Siria e Turchia sono chiuse dal 2018: speciali esigenze mediche permettono di ottenere un visto temporaneo, come nel caso di Mohamed.

Gli oltre tre milioni di siriani che invece sono entrati in Turchia prima della chiusura delle frontiere si sono dovuti registrare in una singola provincia: solo in questa hanno accesso agli aiuti e ai servizi, solo in questa possono cercare lavoro. Per spostarsi in un’altra provincia, anche temporaneamente per incontrare un parente, serve un permesso, non facile da ottenere. Se si viene fermati in una provincia diversa si rischiano conseguenze serie, che possono consistere anche nell’espulsione.

Mahal al Ahmad viene da Idlib, la sua famiglia è registrata a Adiyaman, dove oggi risiede in un “campo informale”, ossia un insieme di tende in un giardino pubblico: «Due dei miei figli un paio di anni fa sono andati a Istanbul per cercare lavoro: sono stati fermati e riportati in Siria: da allora sono a Idlib, li vedo solo via telefono. Ma non sono i soli, ho una famiglia divisa fra Siria, Libano e Turchia, ho nipoti che ho visto solo in fotografia».

Mahal al Ahmad, 50 anni, siriana, in un campo non ufficiale a Adiyaman (European Union/Diego Cupolo)

Dopo il terremoto il governo turco ha sospeso per tre mesi il divieto di movimento fra province (seppur con alcune limitazioni locali) e ha permesso per la prima volta ai siriani residenti nelle zone colpite dal terremoto di fare un ritorno temporaneo in Siria senza perdere il diritto agli aiuti e all’assistenza. Per molti è stata la prima occasione di un ricongiungimento familiare, ma sono sempre più frequenti gli inviti pubblici e della stampa vicina al governo a un ritorno definitivo di almeno parte dei rifugiati in Siria, soprattutto nelle zone sotto il controllo dei ribelli appoggiati dalla Turchia.

Vanno in questo senso anche le rigide politiche di priorità per i cittadini turchi nell’assegnazione prima delle tende e ora dei container per gli sfollati del terremoto: non sono abbastanza per tutti e in entrambi i casi, qualunque sia la situazione familiare ed economica, i rifugiati sono in fondo alla lista, con poche possibilità di abbandonare le tende nei prossimi mesi.

Mohammed Altinci ha studiato lingue, lavora con una ong, è in Turchia dal 2015 dove si è sposato e ha avuto una figlia: «Da quando sono arrivato ho visto un deterioramento continuo delle nostre condizioni, di come siamo visti, di quanto siamo tollerati. Io vengo da Aleppo, dove ancora vivono i miei genitori, che non ho più rivisto da quando sono partito: tornare lì non è certo un’opzione». La città di Aleppo è stata quasi completamente distrutta fra il 2012 e il 2016 durante la guerra civile, ora è tornata sotto il controllo del regime di Bashar al Assad.