Anche per i monaci la soglia di attenzione era un problema

Le loro pratiche ascetiche non erano una prova di imperturbabilità, ma un insieme di tecniche elaborate proprio per limitare le distrazioni

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(Rischgitz/Getty Images)
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La riduzione della capacità di mantenere l’attenzione per lunghi tratti di tempo è da anni uno dei temi più discussi nell’ampio dibattito sull’influenza dei social media sulle persone, in particolare quelle più giovani. Descritta perlopiù come un problema e associata non solo a Internet ma ad altre evoluzioni tecnologiche e fenomeni più o meno recenti, questa riduzione è spesso percepita come un aspetto tipico della contemporaneità. Ma la continua oscillazione tra la concentrazione e la distrazione, in un senso lato e meno aderente all’attualità, è una dinamica che riguarda l’esperienza umana da tempi antichissimi.

La vita e le abitudini dei monaci medievali, comunemente considerati un esempio estremo di concentrazione e privazione di ogni fonte di distrazione possibile, sono uno dei principali argomenti di ricerca della storica statunitense Jamie Kreiner, docente alla University of Georgia specializzata in Alto medioevo (il periodo che va dal V all’XI secolo). Nel libro The Wandering Mind: What Medieval Monks Tell Us About Distraction, uscito a febbraio 2023, Kreiner capovolge in parte l’interpretazione comune della vita monastica come modello di concentrazione assoluta. E analizza centinaia di agiografie, manoscritti e altre fonti risalenti a un periodo che va dal IV al X secolo, provenienti dalla Francia, dall’Irlanda, dall’Iran e da altri paesi del mondo, da cui si evince quanto la contemplazione e la preghiera fossero attività costantemente ostacolate dalle distrazioni.

Nonostante i monaci cristiani vivessero in solitudine o comunque in monasteri che scoraggiavano le conversazioni occasionali, la distrazione era una delle loro principali preoccupazioni. Non si ritenevano per niente abili a evitarla e cercavano piuttosto di individuarne le cause ed escogitare pratiche e sistemi utili a contrastarla. Il fatto che abitassero in un mondo profondamente diverso dal nostro, privo di smartphone e social network, e che nonostante questo temessero di non riuscire a concentrarsi, può secondo Kreiner servire a pensare alla distrazione in termini diversi e aiutare a comprendere come sia un fenomeno più antico di qualsiasi tecnologia, in parte legato al modo in cui siamo fatti.

Le riflessioni e gli approcci diffusi negli ambienti monastici dell’Alto medioevo mostrano inoltre un’attitudine comune a esprimere giudizi morali sulle capacità di concentrazione: attitudine per molti aspetti presente ancora oggi, in forme differenti e in contesti molto eterogenei. Nonostante la percepissero come un’esperienza universale, i monaci medievali non ritenevano la distrazione un fatto «moralmente neutrale» ma demoniaco. E contrastarla era per loro una questione di identità, un impegno necessario a permettere di destinare l’attenzione unicamente alle pratiche che avvicinavano a dio e non a quelle moralmente inferiori. Combattere la distrazione era, in definitiva, ciò che rendeva un monaco un monaco.

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Una delle prime analogie tra la concentrazione per i monaci cristiani della Tarda antichità romana e dell’Alto medioevo e la concentrazione in epoca moderna, secondo Kreiner, è il modo sorprendentemente simile di descriverla e lodarla attraverso aggettivi e metafore. Quando la giornata trascorsa era stata positiva in merito alle loro capacità di concentrarsi, i monaci definivano la loro mente «elastica», «accesa» e «chiara», per esempio. Era capace di «costruire edifici che sfioravano il cielo» e «nuotare come un pesce nelle profondità per evitare di farsi catturare», o come «un timone che guidava la nave attraverso la tempesta».

Molte persone dell’epoca, oltre che affascinate dalle leggende sugli asceti, erano stupite del contrasto tra la fantasia di quelle metafore e la straordinaria staticità del corpo dei monaci. Si raccontava che un certo monaco di nome Hor, scrive Kreiner, visse in una chiesa per 20 anni senza mai alzare lo sguardo verso il soffitto nemmeno una volta. E che una monaca chiamata Sara visse vicino a un fiume per 60 anni senza mai osservarlo. E che l’eremita Caluppa trascorse una vita di preghiera non interrotta neppure quando i serpenti, spesso, cadevano dal soffitto sulla sua testa o gli si arrampicavano fin sul collo.

Più o meno tutte le vite monastiche sono contraddistinte fin dall’inizio da un’ambizione comune a eliminare quante più fonti di distrazione possibili. Molti monaci si trasferivano nei deserti, nelle grotte naturali tra le scogliere, nelle rupi o in altri posti lontani dai centri abitati. Alcuni si isolavano riducendo contatti con familiari e amici, pur rimanendo nelle loro abitazioni. E altri davano via ogni loro bene, e con essi il pensiero di cosa farne: si disfacevano in generale di tutto ciò che avrebbe potuto generare pensieri in competizione per la loro attenzione.

I monaci che cedevano le loro proprietà, così come quelli che non ne avevano mai avute, potevano scegliere differenti forme di vita ascetica. A parte quelli che decidevano di isolarsi completamente, alcuni sceglievano di diventare mendicanti, elemosinando il cibo e ogni altra cosa di cui avessero bisogno. Poi c’erano gli stiliti: asceti che sceglievano di vivere in cima a una colonna o a un pilastro per lunghi periodi di tempo. Il più noto, l’asceta cristiano del IV secolo Simeone Stilita il Vecchio, trascorse 37 anni in cima a una colonna in un villaggio dell’odierna Siria, nutrendosi di quanto gli veniva portato dai giovani del villaggio e dai pellegrini che andavano a visitarlo. Si racconta che non scese nemmeno alla morte della madre Marta, ma chiese che la salma venisse posta alla base della colonna per permettergli di rivolgere a lei una preghiera.

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Simeone Stilita il Vecchio in un’icona della seconda metà del XVI secolo esposta al museo storico di Sanok, in Polonia (Przykuta/Wikimedia)

Sia i monaci che rimanevano a vivere nelle loro abitazioni che i girovaghi erano probabilmente più comuni rispetto al tipo che tendiamo a immaginare oggi quando parliamo di monaci, scrive Kreiner. Pensiamo di solito o agli eremiti, quelli che vivevano da soli e in luoghi remoti, o ai cenobiti, quelli che vivevano in comunità, per effetto della maggiore quantità di documenti e informazioni raccolte e tramandate nei monasteri su questi due tipi di vita ascetica.

I documenti mostrano anche le diverse regole che i monasteri seguivano per limitare le distrazioni. Alcuni scoraggiavano o proibivano qualsiasi visita, mentre altri accoglievano chiunque, soprattutto pellegrini e benefattori. Altri monasteri controllavano la corrispondenza e proibivano la consegna di pacchi. Le regole riflettevano in generale il tipo di predisposizione favorevole o meno verso coloro che erano al di fuori del monastero, ma in generale molti monaci temevano che avere rapporti con le persone all’esterno potesse portare a coinvolgimenti terreni e non spirituali. Persino i sacramenti erano a volte visti con sospetto: anche solo celebrare battesimi, per esempio, avrebbe potuto comportare obblighi nei confronti di chi veniva battezzato.

L’impegno dei monaci a evitare qualsiasi interazione umana era a volte talmente estremo da rendere famoso il loro procedere con lo sguardo rivolto verso il basso, ogni volta che uscivano dai monasteri. Ma nonostante ogni loro sforzo, persino i più solitari comprendevano presto e con una certa delusione che i contatti con il mondo esterno e le possibili fonti di distrazione erano in una certa misura inevitabili.

Nella prima metà dell’VIII secolo, racconta Kreiner, un monaco egiziano chiamato Frange viveva all’interno di una delle tombe faraoniche nel quartiere dell’odierna Luxor. Trascorreva il tempo a tessere, ricopiare e rilegare libri, e a scrivere lettere ai suoi amici e altri testi ritrovati poi su cocci di ceramica e papiri. I documenti mostrano che per quanto si sforzasse di rimanere isolato, Frange aveva molte relazioni sociali, una rete di persone su cui peraltro esercitava una notevole influenza su questioni morali.

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In molti altri casi i monaci riuscivano effettivamente a isolarsi quasi del tutto dal mondo esterno: cosa che però non implicava l’assenza di distrazioni. La loro frustrazione nel constatare che anche in condizioni di privazione radicale la loro mente era incline a cedere alla distrazione, osserva Kreiner, era probabilmente tanto più acuta quanto più avevano rinunciato a precedenti abitudini e beni materiali.

Per cercare di darsi una spiegazione i monaci cristiani attribuivano le distrazioni al fatto che gli esseri umani ospitino forze opposte e desideri in conflitto tra loro, che siano combattuti tra il fascino degli obiettivi a lungo termine e la gratificazione a breve termine. Spesso la responsabilità delle distrazioni era attribuita al demonio, inteso in un senso non metaforico: era il demonio, per esempio, a chiudere gli occhi dei monaci stanchi di leggere secondo l’asceta greco del IV secolo Evagrio Pontico. E in generale era il demonio, per i monaci, a insinuare in loro pensieri il cui unico scopo era di distrarli dai loro obiettivi.

Una parte dell’incapacità di concentrarsi era poi attribuita a condizioni metafisiche immutabili, determinate dalla natura irrimediabilmente frammentata e dinamica dell’universo in seguito al peccato di Adamo ed Eva nella tradizione biblica. Mettendo da parte la ragione metafisica della frammentarietà, scrive Kreiner, questo approccio rendeva in qualche modo più comprensibile per i monaci l’incolmabile distanza da dio e l’impossibilità della mente di rimanere concentrata su qualcosa per molto tempo. E in una qualche misura predisponeva sia all’esercizio continuo che all’accettazione dei propri limiti.

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Molte attività e abitudini ascetiche a volte ammirate come un segno di imperturbabilità e fermezza d’animo fuori dal comune, osserva Kreiner, erano piuttosto pratiche quotidiane messe a punto proprio per contrastare le forze che ostacolavano la concentrazione. Dal punto di vista dei monaci non erano la dimostrazione di un’assenza di distrazioni, al contrario: erano tattiche per evitarle.

La gran parte di loro seguiva programmi giornalieri fissi che li tenessero in attività e allo stesso tempo riducessero la monotonia. Stabilire orari per fare il bagno, dormire o mangiare doveva servire ad affinare la coordinazione e gli automatismi tra la mente e il corpo. Ed esistevano regole che stabilivano anche quando, dove e per quanto tempo fosse appropriato leggere: perché anche i libri erano una “tecnologia” esposta al rischio di distrazione, da regolare con la stessa attenzione destinata al controllo degli impulsi sessuali.

Nel trattato Sugli otto spiriti maligni (De octo spiritibus malitiae), un insieme di riflessioni del primo Cristianesimo da cui deriva la classificazione dei vizi capitali, Evagrio descrive un tipo di distrazione frequente in una situazione tipica dei monasteri in cui visse, a Gerusalemme e nel delta del Nilo. In una certa ora diurna, scrive Evagrio, un monaco «accidioso» non riesce a leggere perché è continuamente distratto da altro: sbadiglia, si appisola, si stropiccia gli occhi, va e viene dalla finestra, distoglie lo sguardo dal libro per fissare il muro, e infine si addormenta.

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Per Evagrio il libro non era un oggetto maligno in sé ma era il mezzo attraverso cui i demoni, freddi per natura, potevano cercare un contatto con i monaci per riscaldarsi, scrive Kreiner. E l’accidia – la perdita di interesse verso qualsiasi iniziativa – era uno dei possibili effetti di quel contatto, più probabile se le attività della giornata non erano scrupolosamente pianificate e non ci si atteneva alle prescrizioni. Anche per questa ragione molti ordini monastici prevedevano, oltre alla moderazione nell’alimentazione e all’astinenza sessuale, un impegno fisico quotidiano: che stessero cuocendo, coltivando o tessendo, i monaci e le monache trovavano in qualche modo più semplice concentrarsi se i loro corpi erano in movimento.

I monaci furono anche formidabili insegnanti di mnemonica, l’insieme di tecniche sviluppate per aiutare la memoria a ricordare grandi quantità di numeri, parole, liste e nozioni difficili da collegare tra loro. E la principale ragione di questa abilità è che erano incoraggiati a visualizzare costantemente ciò che elaboravano: per ordinare le idee in una qualche struttura logica e allo stesso tempo appagare la fantasia, «dando alla mente qualcosa da disegnare», scrive Kreiner. Un esempio estremo si trova nel De Archa Noe del teologo francese Ugo di San Vittore del XII secolo, un trattato in cui confluirono tecniche tramandate nei secoli precedenti e che è interamente sviluppato intorno alla descrizione di un’arca complicatissima da disegnare.

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Sebbene i monaci medievali non abbiano mai risolto il conflitto tra le aspirazioni e le distrazioni, conclude Kreiner, i loro tentativi e le loro discussioni su quali fossero gli approcci e le tecniche di autodisciplina più efficaci ci appaiono allo stesso tempo bizzarre ed estremamente familiari. Bizzarre perché l’epoca e gli stili di vita di quei monaci sono molto diversi dai nostri. E familiari perché le loro difficoltà, i loro fallimenti e le loro frustrazioni sono esperienze umane note oggi come allora, comprensibili anche se associate a pratiche e abitudini di cui possono sfuggire il senso e l’obiettivo.

«Non faccio altro che mangiare, dormire ed essere disattento», scriveva in una lettera indirizzata a suo fratello Giovanni di Dalyatha, un monaco della Chiesa d’Oriente vissuto nell’VIII secolo in un territorio della Mesopotamia settentrionale, oggi parte dell’Iraq. E il suo disprezzo per sé stesso, fa notare Kreiner, era parte di un’esperienza ciclica che lo rende molto umano e facile da immaginare ancora oggi: un’esperienza in cui propositi e frustrazioni, successi e insuccessi si alternavano di continuo a seconda dell’attenzione e della dedizione che riusciva a destinare alle sue attività.

È molto probabile che l’ossessione contemporanea per l’attenzione e soprattutto le sfumature morali presenti in molti discorsi che la riguardano derivino in una qualche misura dai discorsi elaborati per secoli dai monaci medievali, che sulla concentrazione basarono la loro intera esistenza. Ma al netto delle molte analogie, ha scritto il New Yorker in una lunga recensione del libro di Kreiner, una differenza profonda tra quell’epoca e la contemporaneità è che la maggior parte delle persone ha ereditato quei giudizi morali sulla capacità di concentrazione senza ereditare le certezze dei monaci su cosa sia degno di concentrazione.

Potrebbe essere questa, prosegue il New Yorker, la ragione per cui la vita di così tante persone è fatta di attività mai concluse nella lista di cose da fare, libri letti a metà sul comodino, serie tv interrotte e scrolling compulsivo sullo smartphone. Una possibile spiegazione del perché così tanti aspetti della vita moderna competono per la nostra attenzione è che non la meritano: «il problema, per quelli di noi che non vivono nei monasteri ma sperano di fare buon uso dei loro giorni, è capire cosa potrebbe meritarla».