La diplomazia con la cucina

La “gastrodiplomazia” è uno degli investimenti attraverso cui paesi come Corea del Sud e Thailandia hanno cercato negli anni di migliorare la loro reputazione internazionale

gastrodiplomazia
Il presidente statunitense Barack Obama durante un’intervista con lo chef Anthony Bourdain al ristorante Bún cha Huong Lien a Hanoi, in Vietnam, il 23 maggio 2016 (Archives.gov)

L’interesse per le tradizioni culinarie della Corea del Sud e di altri paesi asiatici è a volte considerato parte di un interesse più ampio, stimolato principalmente dal successo internazionale di film, serie tv e altri prodotti e fenomeni culturali recenti. Ma la popolarità della cucina coreana, thailandese, taiwanese e di altri paesi del mondo, non soltanto asiatici, è in molti casi il risultato di specifiche politiche a lungo termine e rapporti diplomatici definiti da tempo “gastrodiplomazia”. È l’insieme di investimenti economici e relazioni culturali che permettono anche a paesi piccoli di promuovere la propria identità nel mondo attraverso il cibo, e si concretizza in diverse attività: dall’apertura di catene di ristoranti al lavoro per ottenere il riconoscimento di particolari standard culinari da parte di gruppi ed enti internazionali.

La gastrodiplomazia è spesso intesa come una forma di soft power, la capacità di ottenere centralità e rilevanza culturale senza l’uso della forza. Ed è per questo motivo ritenuta un mezzo fondamentale per paesi di piccole e medie dimensioni che, a causa del loro limitato potere politico o economico, hanno meno opportunità di promuovere i propri valori nella comunità internazionale rispetto alle maggiori potenze mondiali. L’idea alla base della gastrodiplomazia, come sintetizzava il Guardian già nel 2010, è che «non ci sia un modo più efficace per conquistare il cuore e la mente delle persone se non attraverso la gola».

Non è un caso se nelle grandi città di molti paesi occidentali, inclusa l’Italia, il numero di ristoranti di cucina tipica di certi paesi (e non di altri) è cresciuto molto negli ultimi anni. In gastrodiplomazia investono da tempo paesi come Thailandia, Taiwan, Singapore, Malesia, Libano, Perù e altri. Ma la Corea del Sud è uno degli esempi più citati in assoluto: nel 2009, come ricordato dal sito The Hustle, il governo avviò una campagna da 40 milioni di dollari intitolata Korean Cuisine to the World, con l’obiettivo di migliorare la reputazione mondiale del paese attraverso il suo cibo e attirare turismo gastronomico.

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Utilizzata la prima volta nel 2002 dall’Economist, la parola gastrodiplomazia fa riferimento in un senso più ampio a una delle più antiche e importanti forme di condivisione: quella del cibo. Da sempre considerata un modo di appianare divergenze e migliorare i rapporti diplomatici tra culture diverse, in epoca recente la condivisione del cibo durante gli incontri internazionali è stata a volte anche un’occasione per rendere più familiari tradizioni culinarie di paesi distanti.

Richard Nixon, Chou En-lai

Il presidente statunitense Richard Nixon con il primo ministro cinese Zhou Enlai, il 28 febbraio 1972 (AP Photo/Bob Daugherty)

La storica visita del presidente statunitense Richard Nixon in Cina nel 1972 fu un evento molto seguito dai media, perché servì a ricostruire le relazioni tra i due paesi, all’epoca accomunati da un sentimento di ostilità verso l’Unione Sovietica. Circolarono diverse foto dei pranzi ufficiali a cui Nixon partecipò, cercando di utilizzare le bacchette per mangiare, un’abilità non così diffusa all’epoca nella popolazione occidentale. E un effetto involontario di quelle foto fu anche rendere popolari piatti tipici serviti in quell’occasione, come l’anatra alla pechinese e i ravioli al vapore, che fino a quel momento negli Stati Uniti erano conosciuti perlopiù nelle Chinatown di San Francisco, Washington DC e New York.

Ma con l’espressione gastrodiplomazia si indica generalmente un’iniziativa o un programma direttamente volto a migliorare la reputazione internazionale di un paese attraverso la promozione della sua tradizione culinaria nel mondo. Uno dei primi a sviluppare un progetto del genere fu la Thailandia nel 2002, con il programma Global Thai: l’obiettivo era di portare in un anno il numero di ristoranti thai nel mondo da 5 mila e 500 a 8 mila, e aumentare le esportazioni di prodotti alimentari.

L’iniziativa mirava probabilmente a controbilanciare anche la percezione negativa della Thailandia causata dalla reputazione del paese come meta per il turismo sessuale, come scrisse nel 2022 su Foreign Policy Fabio Parasecoli, docente alla New York University e autore di diversi libri sulla storia dell’alimentazione, tra cui Al dente. Storia del cibo in Italia e il più recente Gastronativism: Food, Identity, Politics. Il governo thailandese offrì quindi ai potenziali ristoratori finanziamenti e agevolazioni varie, tra cui passaporti speciali per gli chef thailandesi in Australia, per aprire tre diversi tipi di ristorante, dal fast food al locale più raffinato.

Thai Rock Sydney

L’ingresso di un ristorante della catena Thai Rock a Sydney, in Australia, il 29 giugno 2020 (Jenny Evans/Getty Images)

Fu istituita inoltre un’etichetta specifica, “Thai Select”, per certificare i ristoranti che impiegavano cuochi e personale thailandesi, includevano piatti thailandesi nei menu e utilizzavano ingredienti e stoviglie importati dalla Thailandia. Nel 2011 i ristoranti thai in tutto il mondo erano già oltre 10 mila, circa la metà negli Stati Uniti, e nel 2018 erano oltre 15 mila. La gastrodiplomazia thailandese ha inoltre contribuito a incrementare il numero annuale di turisti nel paese, che potrebbe arrivare a 30 milioni nel 2023, secondo il primo ministro Prayuth Chan-ocha.

Negli ultimi vent’anni anche Giappone, Malesia, Taiwan, Libano, Cambogia e Perù hanno portato avanti iniziative simili a quella della Thailandia, con l’obiettivo di migliorare la loro reputazione internazionale ed espandere le esportazioni di prodotti alimentari e strumenti necessari alla preparazione dei pasti resi popolari all’estero.

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Le iniziative di gastrodiplomazia sono state rese possibili prima di tutto dalla globalizzazione del cibo, che permette a ingredienti, prodotti e professionisti della cucina di circolare facilmente in tutto il mondo. E allo stesso tempo sono state in qualche misura favorite da un contesto internazionale in cui sia gli appassionati di cucina che i professionisti del settore, secondo Parasecoli, hanno mostrato una crescente attenzione – e in alcuni casi sviluppato un’ossessione – per «l’unicità, l’originalità e l’autenticità», in parte come reazione all’uniformità che molti associano proprio alla globalizzazione.

Le iniziative del Giappone negli ultimi due decenni, per esempio, hanno contribuito tra le altre cose a contrapporre a una “cucina giapponese” già nota e diffusa in tutto il mondo, largamente adattata al gusto internazionale, una cucina considerata più autentica. La cosiddetta washoku, la cucina tradizionale a base di riso, zuppa di miso e altri ingredienti consumati abitualmente sulle tavole giapponesi, è dal 2013 uno dei patrimoni culturali immateriali dell’umanità secondo l’UNESCO.

trump shinzo abe

Il presidente statunitense Donald Trump, tra la moglie Melania Trump, il primo ministro del Giappone Shinzo Abe e la moglie Akie Abe, afferra un piatto con una patata farcita al ristorante Inakaya a Roppongi, a Tokyo, il 26 maggio 2019 (Kiyoshi Ota/Getty Images)

La gastrodiplomazia della Corea del Sud è considerata un esempio ancora più significativo, sia per il successo delle iniziative che per la popolarità che ha procurato al paese in tempi relativamente brevi. Nella seconda metà degli anni Duemila, nonostante la Corea del Sud fosse sede di grandi gruppi internazionali come Hyundai e Samsung, «il brand del paese era cannibalizzato da quello giapponese», ha raccontato al sito The Hustle lo studioso di gastrodiplomazia Paul Rockower. L’allora presidente Lee Myung-bak decise quindi di migliorare la reputazione del paese nel mondo attraverso il cibo.

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La campagna Korean Cuisine to the World, che stanziò investimenti per un totale di 40 milioni di dollari, prevedeva che il numero complessivo di ristoranti coreani all’estero crescesse da 10 mila nel 2007 fino 40 mila entro il 2017, e che in quello stesso arco di tempo venissero aperti all’estero cento locali di alta ristorazione. Si pose inoltre l’obiettivo di incrementare le esportazioni di prodotti ittici e agricoli, passando da un volume complessivo di 4,4 miliardi di dollari nel 2008 a uno di 10 miliardi entro il 2012.

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Il successo della campagna si tradusse anche in una progressiva inclusione della tradizione culinaria coreana negli standard alimentari accettati dalle autorità internazionali di controllo del cibo. Tra il 2001 e il 2021 la Corea del Sud registrò gli standard di sei prodotti tipici coreani, tra cui la salsa gochujang, la salsa doenjang e il ginseng coreano, nel Codex Alimentarius, un insieme di linee guida e regole elaborate da una commissione istituita dalla FAO e dall’OMS.

Ma il singolo piatto tipico su cui la Corea del Sud riversò la maggior parte degli investimenti fu il kimchi, un popolare alimento a base di verdure fermentate, il cui standard fu registrato nel Codex nel 2001 e per cui nel 2009 il governo creò anche un istituto apposito, il World Institute of Kimchi, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo dell’industria del kimchi nel mondo. Nel 2013 anche il Kimjang, la pratica di creare e condividere il kimchi, fu inserito dall’UNESCO nella lista dei patrimoni immateriali dell’umanità.

Baekjeong BBQ

Un piatto coreano servito in un negozio della catena Baekjeong BBQ, a New York, il 16 ottobre 2022 (Jeff Schear/Getty Images for NYCWFF)

Anche altre iniziative diplomatiche meno istituzionalizzate contribuirono ad accrescere la popolarità della cucina coreana. Nel 2009 la moglie del presidente Lee Myung-bak, Kim Yoon-ok, partecipò a un evento organizzato per i veterani della Guerra di Corea a Great Neck, nello stato di New York. Durante l’evento aiutò a servire ai veterani alcuni piatti tipici tra cui il pajeon, una specie di frittella salata a base di scalogno e altri ingredienti a scelta, di solito frutti di mare.

Alla campagna Korean Cuisine to the World aderirono grandi società sudcoreane, come la CJ Foodville, uno dei principali produttori alimentari del paese, che ha sede a Seoul e si occupa di servizi di ristorazione in stile occidentale ma a base di cibo coreano. È l’azienda che controlla la catena internazionale Bibigo, i cui primi ristoranti furono aperti a Los Angeles, Pechino e Singapore nel 2010. Ma anche aziende e gruppi più piccoli hanno avuto un ruolo.

I Bibimbap Backpackers, un gruppo di giovani finanziati dal governo, viaggiarono in 15 paesi per 255 giorni nel 2011 per insegnare la cucina coreana. E il Kimchi Bus, un food truck gestito dal ristoratore Ryu Si-hyeong, ha viaggiato in 34 paesi di tutto il mondo, anche europei, coprendo una distanza di 80 mila chilometri. Grazie a tutte queste attività di promozione nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti, le esportazioni di kimchi della Corea del Sud hanno raggiunto nel 2021 un volume complessivo di 159,9 milioni di dollari.

Secondo Parasecoli è difficile valutare i risultati dei programmi di gastrodiplomazia in generale, perché quei risultati sono condizionati da molteplici fattori e processi sociopolitici, e la gastrodiplomazia può in alcuni casi rimanere un fenomeno d’élite. Non è detto, per esempio, che i programmi abbiano successo rispetto a tutti gli obiettivi prefissati. È possibile frequentare abitualmente ristoranti cinesi, chioschi di tacos messicani e negozi di kebab turchi, e non per questo sentire la necessità né il desiderio di saperne di più sulle culture da cui provengono quei cibi. Tradizioni culinarie meno conosciute come quella thailandese o coreana possono poi in alcune città ricevere meno attenzioni da parte del pubblico più ampio, in parte anche a causa della ridotta presenza di comunità provenienti da quei paesi.