La carbonara ce la invidiano tutti

«Il problema non è stabilire la data di nascita del Parmesan del Wisconsin, o di sapere se nella carbonara ci vada il guanciale o la pancetta. Il problema è capire in che modo questi temi, che al massimo potrebbero interessare una manciata di casari dalle parti di Parma e qualche ristoratore di Trastevere, siano diventati l’elemento identitario più forte nell’Italia del XXI secolo».

Un tifoso italiano con lo striscione «Basta tagliare gli spaghetti grazie» prima di Svizzera-Italia, incontro per le qualificazioni ai Mondiali di calcio 2022 in Qatar, St. Jakob-Park, Basilea, Svizzera, 5 settembre 2021 (LaPresse - Fabio Ferrari)
Un tifoso italiano con lo striscione «Basta tagliare gli spaghetti grazie» prima di Svizzera-Italia, incontro per le qualificazioni ai Mondiali di calcio 2022 in Qatar, St. Jakob-Park, Basilea, Svizzera, 5 settembre 2021 (LaPresse - Fabio Ferrari)
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Alla fine di due settimane surreali vorrei provare a trarre indicazioni generali dall’incredibile polemica che si è scatenata all’indomani di una mia banale intervista al Financial Times, nella quale ho parlato di storia della cucina italiana e di alcuni noti prodotti della nostra industria agroalimentare. Ma facciamo finta che in quella famigerata intervista io abbia detto davvero quello che quasi tutti i media italiani mi hanno attribuito. Facciamo finta che io sia convinto che il Parmigiano Reggiano sia nato nel Wisconsin, che la pizza sia stata inventata a New York, che la carbonara migliore si mangi a Chicago e che tutta la cucina italiana non esista, ma sia solo una trovata pubblicitaria. In quale modo le farneticazioni di un professore universitario poco lucido o in vena di scherzi potrebbero nuocere all’immagine della cucina migliore del mondo o a prodotti agroalimentari che tutti ci invidiano? Perché questa è l’accusa che mi è stata mossa: quella di essere un traditore della patria e parte di un complotto planetario volto a screditare la nostra cucina, proprio alla vigilia della sua candidatura come patrimonio immateriale dell’umanità presso l’Unesco e, in subordine, di essere al soldo del grande capitale che vuole impedire ai prodotti italiani di avere il successo che meritano sui mercati internazionali.

È evidente che questa reazione ha poco a che fare con l’esigenza di ristabilire la verità storica, che da me sarebbe stata irrimediabilmente compromessa, e ha molto a che fare con una sorta di paranoia collettiva. Amici e colleghi mi rimproverano di aver affermato l’inesistenza della cucina italiana, cosa che ovviamente non ho mai fatto, e soprattutto di sottovalutare l’impatto economico delle mie teorie su filiere produttive che valgono complessivamente 500 miliardi di euro. Ecco, per prima cosa, vorrei soffermarmi su questo dato: 500 miliardi di euro, su un Pil italiano che nel 2022 è stato di 1.900 miliardi, sono qualcosa di più del 26%. Mi piacerebbe che ci si concentrasse su questo fantasmagorico numero e ce lo si ripetesse mentalmente alcune volte: più di un quarto della ricchezza italiana dipenderebbe dalla produzione e dalla distribuzione di cibo. A proposito di radici e di identità, io sinceramente non saprei dire dove sia nata questa leggenda statistica, anche se qualche sospetto lo avrei. Sono molto più interessato a cercare di capire come un dato palesemente falso venga oggi ripreso e acriticamente divulgato anche da chi magari lancia sinceri e accorati appelli sulla necessità di fare ricerca seria sul cibo italiano e sulla sua storia partendo dai dati.

Fare ricerca seria su un tema significa prima di tutto dare la giusta consistenza al tema stesso. L’ipertrofica dimensione attribuita alla produzione agroalimentare italiana è il segnale di una distorsione rappresentativa, che per alcuni è solo un errore di valutazione e magari per altri potrebbe essere un auspicio, ma in ogni caso non è la realtà. L’Italia non è un’immensa azienda agricola che produce cibi meravigliosi per un gigantesco ristorante nel quale tutti gli abitanti della Terra vorrebbero poter pranzare. In realtà, sommando tutto il settore primario e l’intera produzione agroalimentare, operazione statisticamente discutibile, si arriva a un valore complessivo che si aggira intorno ai 200 miliardi. Peggio ancora se si analizzano i conti con l’estero. La bilancia commerciale italiana nel settore agroalimentare ha fatto segnare piccoli avanzi solo nel biennio 2020-21, a causa del rallentamento complessivo dovuto al Covid-19, per poi tornare in deficit nel 2022, come è sempre stata. Insomma, il mondo può fare a meno di noi, mentre noi non possiamo fare a meno del mondo.

Se poi andiamo a vedere la composizione del solo export agroalimentare, il cui valore si aggira intorno ai 50 miliardi (meno del 10% del totale delle esportazioni italiane), si scopre che la fetta più grossa è rappresentata da produzioni che l’italiano medio farebbe fatica a identificare con le proprie tradizioni locali, tipo una nota crema spalmabile alle nocciole (il cui primo ingrediente è lo zucchero e il secondo l’olio di palma), un condimento industriale a base di aceto, mosto e caramello, un vino spumante che si produce in quantità industriali dentro autoclavi in acciaio tra Veneto e Friuli, una famosissima marca di pasta con sede sulla via Emilia e così via… Per dire, la casa che produce la suddetta crema spalmabile esporta da sola circa 9 dei 50 miliardi del Made in Italy agroalimentare, mentre il Parmigiano Reggiano, che il mondo ci invidia, non arriva a 725 milioni.

Eccoli qua i dati. Contenti?

Allora, di fronte a questi dati, è evidente che il problema non è quello di stabilire la data di nascita del Parmesan del Wisconsin, o di sapere se nella carbonara ci vada il guanciale o la pancetta. Il problema è capire in che modo questi temi, che al massimo potrebbero interessare una manciata di casari dalle parti di Parma e qualche ristoratore di Trastevere, siano diventati l’elemento identitario più forte nell’Italia del XXI secolo. Di questo dovrebbe occuparsi uno scienziato sociale, mica di cosa cucinava la cuoca di Ancel Keys, il biologo americano che inventò la Razione K per i soldati americani e la cosiddetta “dieta mediterranea”.

L’antropologo e gastronomo Piero Camporesi attribuiva a Pellegrino Artusi e al suo celeberrimo manuale di cucina La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, di cui curò nel 1970 l’edizione critica, una funzione fondamentale nella costruzione dello spirito nazionale italiano. Aveva ragione, ma tra l’identità di cinquant’anni fa e la caricatura che se ne fa oggi è successo qualcosa che le reazioni alla mia intervista al Financial Times hanno mostrato in maniera plastica. È successo che l’identità si è impossessata delle radici e della storia e di conseguenza si è trasformata in un eterno presente senza passato e senza futuro. Come sia avvenuto tutto ciò non è facile da stabilire, ma ancor più difficile è capire perché, anche se un tentativo si può rischiare.

Alla fine degli anni Cinquanta, dunque mezzo secolo dopo Artusi, la neonata Televisione nazionale iniziò un’operazione culturale opposta e complementare a quella avviata dal manuale di Artusi. Il punto di partenza fu sicuramente il mitico Viaggio lungo il Po di Mario Soldati, il primo reportage enogastronomico della Rai, andato in onda tra il dicembre del 1957 e il marzo del 1958. Il punto di vista e lo scopo del grande scrittore torinese erano esattamente contrari a quelli di Artusi e dei suoi epigoni: non più la raccolta disordinata di ricette da riprodurre nel confortevole ambiente domestico e borghese, ma il racconto un po’ aggiustato delle usanze alimentari di una popolazione poverissima e lontanissima dall’incipiente industrializzazione che stava completamente cambiando il Paese.

Non si trattava di un’operazione dal basso, come quella dell’Artusi, ma di un modello culturale calato dall’alto. Il paradosso del Viaggio lungo il Po, infatti, fu raccontare una realtà alimentare adattata e volutamente rustica, fino a diventare caricaturale, a un pubblico il cui gusto si era formato proprio attraverso le ricette dell’Artusi e di Ada Boni, l’autrice dell’altro grande libro di cucina del Novecento italiano, Il talismano della felicità. Nel 1957 gli abbonati Rai erano 320 mila, un televisore costava 500 mila lire, che equivalevano a dodici mensilità di un reddito medio. Soldati stava cominciando a costruire una mistica delle origini completamente avulse dalla cucina che il suo pubblico praticava ogni giorno. All’inizio della prima puntata spiegò al pubblico come era nata quella trasmissione: «Mi è stata offerta la possibilità di andare in Cina, ma ho dovuto rinunciare perché avevo l’impegno di venire qui stasera a parlare con voi e a raccontarvi il viaggio che ho fatto». La valle del Po come il più esotico e più lontano dei paesi asiatici; gli italiani poveri come un orizzonte da esplorare per uno scrittore e regista borghese che avrebbe vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 1959.

E dopo Soldati sarebbe arrivato Luigi Veronelli con la sua esaltazione di una enogastronomia rurale immaginaria e la negazione ideologica di tutto ciò che appariva moderno, anche attraverso programmi televisivi di successo, che alternavano dotte dissertazioni a simpatici siparietti con Ave Ninchi. Da quel momento tutte le trasmissioni televisive sulla cucina non avrebbero fatto altro che rafforzare questa narrazione, mentre contemporaneamente la stessa televisione, attraverso Carosello, film e sceneggiati, imponeva nuovi modelli alimentari industriali e nuovi ingredienti che venivano progressivamente incorporati nella cucina degli italiani; il racconto e la realtà si sostenevano a vicenda. Nello stesso momento in cui si costruiva e si legittimava una cucina basata sui prodotti del conquistato benessere, diventava addirittura martellante il richiamo a radici antiche soprattutto rurali, che nulla avevano a che fare con la cucina italiana antica e moderna che fosse.

La grottesca sublimazione delle ricette originali, che originali non possono essere, e la ricerca di una purezza che non può esistere, sono solo le ultime manifestazioni parossistiche di un processo che ha visto la televisione come grande protagonista, sia del cambiamento reale sia dell’invenzione della tradizione. Offrendo a politici e produttori, ugualmente interessati anche se con finalità diverse, una base inaspettata per un racconto tanto emozionale quanto lontano dalla realtà e dalla sua storia.

Questo più o meno è il come. Resta da capire il perché. Concettualmente si dovrebbe cambiare disciplina e dalla storia passare alla filosofia, ma in questo caso credo che pur restando in ambito storico si potrebbero provare a capire anche i motivi profondi di questa sorta di religione laica, che qualcuno ha giustamente chiamato “gastronazionalismo”. E allora partiamo dai fatidici anni Settanta. Tutta la voglia di nuovo e di industria che aveva pervaso gli italiani in ogni ambito della vita e quindi anche a tavola nei vent’anni che vanno dal 1955 al 1975 quasi improvvisamente cedette il passo a dubbi e questioni assolutamente inattesi. Tra crisi petrolifere, disastri ambientali, austerity, terrorismo, scontri in piazza, nelle università e nelle fabbriche, il risveglio da questo sogno ininterrotto di crescita e benessere senza costi non poteva essere più brusco. In realtà, tutto l’Occidente industrializzato venne attraversato da sconquassi epocali che ne minavano le fondamenta economiche e culturali. Ma se nei paesi con più solide radici liberali e con un capitalismo più maturo questa crisi diventò l’opportunità per investire e trasformare le proprie strutture produttive, senza compromettere l’adesione a un’idea di progresso basata sull’innovazione e sulla ricerca, in Italia la crisi degli anni Settanta mise in discussione il ruolo stesso dell’industria come fattore di crescita non solo economica, ma anche sociale e culturale.

Il poeta di questo brusco risveglio è stato Pier Paolo Pasolini e le sue famose lucciole. Dopo l’immagine poetica della scomparsa delle lucciole, che allude ai cambiamenti ambientali e sociali avvenuti in Italia in pochissimo tempo, Pasolini passa all’analisi politica ed economica di tali cambiamenti: «I “valori” nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. […] A sostituirli sono i “valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima “unificazione” reale subita dal nostro paese […]. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione».

L’analisi pasoliniana costituì la base nobile di molte delle critiche al modello di sviluppo industriale, anche di quelle che prendono le mosse da posizioni culturali, politiche e ideologiche molto diverse. Prime fra tutte quelle del Club di Roma, l’associazione fondata da Aurelio Peccei nel 1968 per analizzare i problemi dell’umanità, le cui analisi nella lettura banalizzante fatta in Italia vennero ridotte a semplici proiezioni legate alla finitezza delle risorse. Del resto, la crisi petrolifera dei primi anni Settanta avrebbe portato quasi fatalmente a concentrare l’attenzione su questi aspetti. Ma per chi ha letto anche in minima parte gli scritti di Aurelio Peccei è evidente che comprenderne il significato profondo era assolutamente impossibile, considerazione che vale per quasi tutti gli ambientalisti italiani.

Proprio la crisi degli anni Settanta, che fu energetica, finanziaria, di domanda e tecnologica, provocò in Italia un profondo ripensamento sul ruolo dell’industria e sui limiti di quel modello di sviluppo. Tale ripensamento ebbe molte declinazioni; dalla critica radicale di Pasolini, che rimanda a un passato per definizione migliore, fino alla retorica sul “piccolo è bello” che avrebbe accompagnato il dibattito politico ed economico fino ai giorni nostri. Ma c’è stato anche quello che banalmente potremmo definire “riflusso post-sessantottino”, che ha risposto all’esplosione dell’individualismo anni Ottanta con movimenti come Arcigola e Slow Food, ovvero con un individualismo antiamericanista e difensore delle tradizioni, quindi nostalgico e conservatore, ma buono, proprio in piena coerenza con le idee di Pasolini.

Lo sbocco di questo coacervo ideologico sarà quella che Luca Ricolfi chiama “la società signorile di massa”, che ovviamente si finanzia a debito, ma questo non interessa a nessuno, perché altrimenti si parlerebbe del settore agroalimentare con un po’ più di attenzione alla realtà dei numeri senza ridursi all’agiografia della “cacio e pepe” o all’esaltazione di prodotti tipici con il giro d’affari di un cinema d’essai.

Si continua a scambiare la causa con l’effetto: l’Italia non è ricca perché vi si produce la caciotta di Pienza, ma l’esatto contrario: si può produrre la caciotta di Pienza perché l’Italia è un paese ricco. Continuare a raccontarsi dell’importanza di un settore enogastronomico tutto concentrato non sull’innovazione, ma al contrario sulla conservazione e sull’invenzione narrativa a scopo turistico è in fondo l’ennesima scorciatoia che ci porta a un vicolo cieco. Cercare le cause profonde della crisi che da almeno trent’anni blocca il paese e, soprattutto, cercare le soluzioni in una logica complessiva, è evidentemente un esercizio troppo difficile che costringerebbe, in ultima analisi, a rivedere radicalmente posizioni politiche e convinzioni economiche oggi correnti sia a destra sia a sinistra. E quindi, anche se l’immagine di un’Italia ridotta al rango di parco divertimenti o di immenso villaggio turistico è oggettivamente poco allettante, questo è esattamente il modello che si sta perseguendo.

– Leggi anche: Cosa si intende per cucina italiana?

Alberto Grandi
Alberto Grandi

Nato a Mantova nel 1967, è laureato in scienze politiche all'Università di Bologna, ha fatto il dottorato di ricerca in storia economica e sociale all'Università L. Bocconi di Milano, insegna storia dell'alimentazione all'Università di Parma. Si è occupato soprattutto di funzionamento dei mercati urbani nel Medioevo e in età moderna, di storia dei distretti industriali e di storia dell'alimentazione. È autore di circa cinquanta saggi e articoli scientifici in Italia e all'estero.

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