Perché diciamo che ci manca il tempo

«Guardando una famigliola di scimpanzé che pigramente si dondolavano nell’umidità tropicale mi è presa una tristezza che ho faticato a spiegarmi. Non era solo quella cattività allentata, a turbarmi; e non era la sorte di quegli sconosciuti scimpanzé. Era l’idea che si potessero annoiare»

Un cucciolo di opossum dalla coda corta allo zoo di San Paolo, Brasile, 19 settembre 2015. 
(Xinhua/Rahel Patrasso)
Un cucciolo di opossum dalla coda corta allo zoo di San Paolo, Brasile, 19 settembre 2015. (Xinhua/Rahel Patrasso)
Caricamento player

Gli animali che abitano lo zoo di San Paolo, in Brasile, dove recentemente sono capitata per errore mentre cercavo di raggiungere l’orto botanico (sulla cartina confinante, in realtà lontanissimo), secondo i cartelli esposti all’ingresso del parco non vivono in cattività: in effetti non ci sono gabbie, solo recinti, anche piuttosto approssimativi. Sono liberi, ma in uno spazio limitato; ai loro bisogni provvede il personale dello zoo. Non devono cacciare né sfuggire predatori, periodicamente sono sottoposti a visite mediche. Nemmeno un briciolo della loro energia da dedicare alla sopravvivenza, alla legge antica della specie che ai nostri occhi appare crudele, e che infatti, con tipica protervia umana, abbiamo tentato di smorzare.

Guardando una famigliola di scimpanzé che pigramente si dondolavano fra i rami, nell’umidità tropicale che gonfiava il vento di pioggia mi è presa una gran tristezza. Non era solo per via di quella cattività allentata, ma forse irreversibile; non per la sorte di quegli sconosciuti scimpanzé, la loro placida vita appena intravista. Era il pensiero che forse gli sarebbe toccato fare ginnastica per non ingrassare; era l’idea che si potessero annoiare, quei nostri placidi lontani parenti, con tutto quel tempo libero dalle necessità della vita.

So bene di non poter rivendicare un’immagine accurata del tedio dei primati in uno zoo brasiliano. Forse assomigliano all’oca di Guido Gozzano, che non teme la mole minacciosa della cuoca in procinto di spennarla per il pranzo di Natale perché la prospettiva della morte le è sconosciuta quanto quella della noia. Magari gli scimpanzé non si annoieranno, ma una cosa che so per certa è che noi invece ci annoiamo, eccome. E la noia sarà pure un’esperienza metafisica, come sosteneva Heidegger: ma la nobiltà dei passaggi cognitivi a cui dà accesso non la rende meno angosciosa, soprattutto quando si tratta della noia sfibrata di questa fase storica in cui si è sclerotizzato il consumismo. Finalmente mi è sembrato di capire: in quelle scimmie che fissavano sguardi liquidi nell’aria pesante, nella loro inerzia, vedevo me, vedevo noi.

Noi che ripetiamo di non avere tempo, e poi invece facciamo mille cose: cosa intendiamo, allora, con le parole “non ho tempo”? È una bugia, un autoinganno? Noi che agogniamo al tempo libero, ma poi non sappiamo che farcene. Noi che abbiamo vite sedentarie e facile accesso al cibo: così ci tocca correre su un tappeto che slitta, come i fondali alle spalle di auto guidate da attori con denti scintillanti nei vecchi film, per scoraggiare la pinguedine. Sprechiamo tre ore su una piattaforma di streaming a vagliare troppe proposte che si somigliano, per essere sicuri di non scegliere male, e quando finalmente troviamo un titolo non abbiamo più voglia di vedere nessun film, perché fra sei ore suona la sveglia. Noi, che volentieri ci vediamo una serie TV sorbendoci un episodio dopo l’altro in una sequenza che divora la notte, ma un film di tre ore lo snobbiamo perché troppo lungo: non abbiamo tempo.

Noi, con le nostre abitudini rosicchiate dall’offerta di opzioni in fondo equivalenti, che sminuzzano il tempo nell’impellenza di minime decisioni, nella tirannia della scelta, titolo di un bel libro della filosofa Renata Salecl (pubblicato da Laterza nella traduzione di Francesco Orsi) che analizza proprio l’illusione frustrata di onnipotenza nelle mille opzioni con cui ci martella il marketing. Noi che quindi soffriamo di FOMO, fear of missing out, la paura di essere tagliati fuori, cioè di perdere i treni (reali e metaforici) che ci porterebbero verso obiettivi da non mancare, pena il fallimento, almeno secondo quel che ci viene ripetuto ossessivamente; e la FOMO è dunque solo il risultato più logico di questo bombardamento di occasioni “imperdibili”, che invece sono perdibilissime perché, semplicemente, non sono occasioni ma offerte che eccedono la domanda. E va a finire che ci ritroviamo a lamentarci che non abbiamo tempo.

Noi alla lontana discendiamo da scimpanzé simili a quelli che se ne stavano in panciolle allo zoo, attraverso una catena di tappe intermedie durante le quali l’esperienza della vita, e del tempo, era tanto dissimile da quel che viviamo oggi da apparire quasi imparagonabile. Con l’incisività che uno humour scatenato sa conferire, Roy Lewis nel suo delizioso romanzo Il più grande uomo scimmia del Pleistocene ci mostra un’umanità primitiva impegnata nell’operazione di nutrirsi – non di cacciare o raccogliere i frutti della terra, ma proprio, materialmente, di nutrirsi di cibi per i quali ancora non era stata inventata la cottura – per la parte più consistente del proprio tempo di veglia.

Lontano lontano, nella nostra memoria genetica di donne e uomini impegnati a sgranocchiare patatine e lasciar briciole sul divano, con la stanchezza di una giornata trascorsa amministrando il tempo in minuscole porzioni che non bastano a rispondere a troppe aspettative, resiste forse una traccia di quel ruminare. L’esistenza, d’altra parte, è un’esperienza intessuta di tempo, e dell’uso che del tempo possiamo fare. I nostri antenati passavano, sì, gran parte della vita a masticare o a procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti; eppure le prime testimonianze di attività artistica – graffiti e pitture, l’impronta colorata di una mano – risalgono proprio a quell’età in cui a malapena il tempo bastava per sopravvivere.

Dobbiamo leggere, nell’urgenza di imprimere su pareti di caverne tracce che si sono rivelate vertiginosamente longeve, una sfida alla finitezza del tempo umano? Forse sì; anche se le rappresentazioni più arcaiche del tempo mettono in luce la circolarità sempre ripetuta del ciclo delle stagioni, e ne intuiscono la forma di spirale, che troverà la sua apoteosi molti secoli dopo, nelle concezioni dialettiche della storia. Ma le prime clessidre che permisero di misurarlo funzionavano ad acqua, e lo scorrere dei fiumi, fin dall’epoca lontanissima in cui si pensava per miti, rappresenta la fuga del tempo in una direzione, come acqua che scroscia e rende impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume, secondo il celebre e misterioso detto di Eraclito.

Oggi, persino nelle parole di Eraclito sentiamo un invito a non perdere l’occasione; il solito ritornello con cui già abbiamo frainteso il carpe diem epicureo (che, all’opposto, ricorderebbe quanto sia importante fidarsi del presente, senza farsi ricattare da timori e speranze proiettati sul futuro). Fraintendimenti che nascono dalla nostra abitudine a concepire il tempo come un flusso di possibilità che non possiamo trascurare, che non possiamo perderci. Perché? Ma per raggiungere la realizzazione. Perché siamo bombardati di messaggi che ci inducono a comparare condizioni in realtà identiche in modo da esser sicuri di approfittare della migliore offerta, frammentando in una marea di occasioni insignificanti l’illusione di un benessere che ci tiranneggia.

Oggi, si dice, ripetere di “non avere tempo” significa mostrarsi impegnati, richiesti, dunque idonei a un’idea di successo che indebitamente si sovrappone a una doverosa felicità fotogenica. Qualcuno ci vede una forma di esibizionismo che inquina il rapporto con gli altri di competizione e invidie, come in un gioco a somma zero in cui per la vittoria di uno un altro deve perdere; oppure una vanteria poco fine, l’ostentazione di un privilegio – a ben guardare, piuttosto relativo: avere successo, felicità e vantaggi vari, per poi non trovare il tempo di goderseli, è come vivere da malati per morire sani, secondo un altro adagio che non risale a Eraclito ma a una spiccia forma di saggezza popolare che ci riporta coi piedi per terra.

La sensazione di “non avere tempo” appartiene a una retorica del successo che, se la subiamo per conformismo, forzandoci a calzarla come fanno le sorellastre di Cenerentola con una scarpetta troppo piccola, ci può avvelenare le gioie provvisorie che appartengono a una felicità più compiuta, aperta e fantasiosa, che nella partecipazione non perde nulla, anzi, si arricchisce. Però, è innegabile, questa sensazione si insinua nelle nostre vite con una tenacia perniciosa.

Pensateci: quante volte al giorno pronunciate le parole “non ho tempo”? Quante volte, nel giro di una settimana, rinunciate a fare una telefonata e poi spezzettate i minuti in messaggi vocali su whatsapp, in dialoghi che magari ascolterete accelerati perché non c’è tempo, e alla fine il tempo della telefonata passa lo stesso, ma sminuzzato, dunque più frenetico? Quante volte rinunciamo a prendere un libro e ci intratteniamo con il telefono, scorrendo le immagini di un feed per poi accorgerci che è passata mezz’ora? Me ne sono resa conto quando ho impostato nel telefono una clessidra virtuale, un sistema di misurazione del tempo perso. L’emorragia di minuti mi ha atterrita: perché, per chi, perdiamo tutte queste ore?

Vindica te tibi, dice Seneca nella prima lettera a Lucilio, il quale è un ragazzino, sta crescendo e si sente tiranneggiare da pretese e attese altrui, ben prima che fossero inventati gli smartphone – ricordandoci, dunque, che la responsabilità del nostro tempo non è di whatsapp o di instagram, ma interamente nostra. Vindica te tibi, “riscattati”: Seneca usa il verbo latino che indica la liberazione di uno schiavo.

Già, ma come ci possiamo riscattare? Io, se devo essere sincera, non ci sono ancora riuscita, infatti continuo a ripetere di non avere tempo. Ma sto affrontando la questione con l’aiuto di due filosofi, molto lontani l’uno dall’altro ma ugualmente agguerriti.

Uno è Pascal Chabot, che insegna all’Institut des Hautes Études des Communications Sociales di Bruxelles e ha da poco pubblicato un libro sottile e arguto, Avere tempo (tradotto in italiano per Treccani da Sandra Bertolini), che mostra fin dalle prime pagine una verità all’apparenza lapalissiana ma spesso sfuggente, assediata com’è dal rumore di fondo con cui riempiamo le nostre ore: non è vero che non abbiamo tempo. Se siamo vivi, significa che ne abbiamo; semplicemente, abbiamo la percezione di non averne, che è una cosa diversa e ci obbliga a fare i conti con il modo in cui il tempo lo pensiamo.

Chabot riconduce l’ansia tipica della nostra epoca iperconnessa e soggetta alle leggi del consumismo a una dimensione che lui chiama Ipertempo, e che si sposa con la vacanza (altra parola che indica un carattere peculiare del tempo vuoto, che qualche volta può ospitare anche l’angoscia: ecco perché riempiamo pure le vacanze di doveri, di cose da fare e da dimostrare, di Ipertempo, appunto) di un’idea di Progresso che pare aver lasciato spazio solo all’ombra della Scadenza come regolatrice delle nostre giornate, ma anche della nostra prospettiva storica. Insomma: stiamo vivendo un momento complesso, e l’idea che abbiamo del tempo ne è lo specchio. Però possiamo riprendere un’antica idea cara ai greci, un’idea non quantitativa ma qualitativa: quella del kairòs, il momento opportuno per l’agire, il tempo che corrisponde all’atto del vivere. Che, qualche volta, è proprio il momento della crisi che si trasforma in svolta.

L’altro filosofo è soprattutto un poeta: Paul Valéry, che ci ha lasciato con i suoi Quaderni di riflessioni una testimonianza commovente, esaltante, di come funzioni un laboratorio intimo dello spirito. Valéry, fra molte altre cose, ha scritto un poemetto che si intitola Il cimitero marino, dedicato al cimitero di Sète, in Occitania, sua città natale. E nei suoi versi trasfigura in canto un’ispirazione che gli arriva dritta dall’antichità: dalla citazione di Pindaro che usa in esergo (Alla vita immortale, anima cara,/non ambire, ma vuota la misura/di quello che è fattibile), al pensiero di Zenone di Elea, e alla sua impresa di mostrare l’incommensurabile immutabilità del tempo. Ma Valéry sa bene quanto ogni istante, ogni afflato, ci riporti alla misura del fattibile, al solo tempo che abbiamo: il presente, la vita.

E allora, tanto vale vivere; e vivere nel tempo, mentre il vento si leva e noi Corriamo all’onda per balzarne vivi.

Ilaria Gaspari
Ilaria Gaspari

È nata a Milano. Il suo ultimo libro è Vita segreta delle emozioni (Einaudi 2021). Vive a Roma, collabora con diverse testate e con Rai Radio 3, e tiene corsi di scrittura.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su