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  • Lunedì 6 marzo 2023

È passato un mese dal gravissimo terremoto in Turchia e Siria

Milioni di persone hanno ancora bisogno di soccorsi, soprattutto in Siria, dove la guerra civile sta complicando l'arrivo degli aiuti

Una persona su un motorino in mezzo alle macerie di Samandag, nel sud della Turchia, il 22 febbraio 2023 (AP Photo/Emrah Gurel)
Una persona su un motorino in mezzo alle macerie di Samandag, nel sud della Turchia, il 22 febbraio 2023 (AP Photo/Emrah Gurel)
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Un mese fa, il 6 febbraio, un gravissimo terremoto ha colpito la Siria e la Turchia e provocato la morte di almeno 51mila persone: l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha definito «il peggior disastro naturale» dell’ultimo secolo in tutta l’area europea. I soccorsi sono andati avanti senza sosta per giorni, ostacolati fin da subito da una serie di condizioni, tra cui il freddo e, in Siria, la guerra civile. In alcune aree del nord-ovest della Siria, quelle controllate dai ribelli, la situazione non è cambiata: buona parte degli aiuti internazionali non è ancora arrivata a destinazione e milioni di persone si trovano in condizioni estremamente precarie.

Il terremoto in Turchia e Siria, di magnitudo 7.8, è avvenuto nella notte tra domenica 5 e lunedì 6 febbraio tra il sud della Turchia e il nord della Siria. Ha colpito aree densamente popolate, e le immagini e i video circolati online fin dalle prime ore hanno mostrato danni devastanti di palazzi che crollavano nel momento delle scosse. Ad oggi si stima che tra Turchia e Siria siano crollati circa 214mila edifici: milioni di persone sono rimaste senza casa e il numero di dispersi è ancora imprecisato.

Edifici crollati in Turchia (Clodagh Kilcoyne/Pool Photo via AP)

I soccorsi hanno coinvolto decine di migliaia di operatori, e sono stati ostacolati fin da subito da una serie di circostanze. Anzitutto il freddo, che ha rallentato le operazioni, dato che molti operatori hanno lavorato a mani nude per scavare tra le macerie (sia in Siria che in Turchia è inverno, come in Italia, e proprio nei giorni del terremoto c’erano temperature significativamente inferiori alla media, con le minime intorno a 1-2 °C).

La stima attuale dei morti è di almeno 51mila persone.

La situazione è stata – ed è ancora – particolarmente complicata in Siria, dove da 12 anni è in corso una guerra civile che ha devastato il paese. Proprio a causa della guerra, da una parte il governo del presidente siriano Bashar al Assad è da anni sotto sanzioni, decise per mettergli pressione e spingerlo a una risoluzione pacifica del conflitto; dall’altra il nord-ovest della Siria controllato dai ribelli è diventato difficilmente raggiungibile: i percorsi usati negli ultimi anni per aggirare i controlli del governo centrale passavano dal sud della Turchia, cioè proprio dal punto devastato dal terremoto.

Nel nord-ovest della Siria, già prima del terremoto, vivevano inoltre milioni di persone sfollate da altre parti della Siria dopo essere per lo più sfuggite ai bombardamenti compiuti dal regime di Assad. In quelle aree i soccorsi erano stati inizialmente gestiti dai Caschi bianchi, un’organizzazione di volontari di difesa civile noti per i soccorsi prestati alla popolazione durante la guerra, che fin da subito hanno lamentato l’insufficienza dei propri mezzi a fronte dell’enormità dei danni causati dal terremoto.

Ma fino a diversi giorni dopo il terremoto l’unico punto di accesso al territorio per portare aiuti umanitari era il valico di frontiera di Bab al Hawa, tra Siria e Turchia. Quel valico era però considerato insufficiente per portare aiuti alle popolazioni siriane locali, anche perché le strade che dal sud della Turchia conducevano a Bab al Hawa erano state fortemente danneggiate dal terremoto e per i camion delle Nazioni Unite non era semplice percorrerle. Il 14 febbraio, quindi, il governo siriano ha accettato di far aprire due nuovi valichi, a Bab al Salam e a Al Rai, per agevolare l’arrivo di nuovi aiuti.

C’erano stati anche problemi e incertezze perché il regime di Assad pretendeva dalla comunità internazionale che tutti gli aiuti arrivassero a Damasco, e sosteneva che si sarebbe poi occupato di distribuirli alle zone controllate dai ribelli. Ma i ribelli non si fidavano e temevano che, come è già successo in passato, il regime avrebbe utilizzato gli aiuti come arma di ricatto, o per affamare la popolazione nelle zone controllate da loro.

Questi ostacoli politici sono in parte stati superati dopo che il regime di Assad ha offerto qualche maggiore garanzia, ma gli aiuti continuano a faticare ad arrivare.

A un mese dal terremoto sono arrivati alcuni aiuti, ritenuti pochi e insufficienti, e di altri non ci sono notizie, anche perché in generale è difficile verificare cosa succede nelle aree del paese esterne al controllo del governo siriano. Secondo il sito ReliefWeb, gestito dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA), meno della metà degli aiuti internazionali necessari per la Siria sono stati forniti dagli altri stati. Anche alcuni osservatori internazionali dicono che in alcune aree del nord-ovest gli aiuti internazionali non sono ancora mai arrivati: per esempio a Idlib, uno dei principali centri controllati dai ribelli.

Il Norwegian Refugee Council, una ONG umanitaria norvegese attiva sul campo in questi giorni, ha raccontato che la situazione in alcuni centri del nord-ovest – oltre a Idlib anche Aleppo, Lattakia e Ham – è devastante: tantissime persone sono ancora sistemate in rifugi improvvisati e sovraffollati, al freddo e con grossi rischi per la propria salute. Ci sono lunghissime code per usare i bagni, insufficienti per il numero di persone presenti nei rifugi, e in alcune stanze vivono fino a oltre 40 persone.

Tende allestite a Idlib, in Siria (AP Photo/Ghaith Alsayed)

Sui motivi per cui gli aiuti non sono arrivati ci sono versioni contrastanti, e anche in quel caso è difficile farsi un’idea precisa: alcuni enti di soccorso attivi sul territorio sostengono che il governo di Assad imponga restrizioni al transito degli aiuti per usarli come arma contro i ribelli; altri dicono invece che sono i ribelli ad aver bloccato le consegne di aiuti provenienti dalle parti del paese controllate dal regime.

– Leggi anche: La distruzione di Aleppo, di nuovo

La situazione è complicata anche in Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdogan è stato criticato fin da subito per la lentezza con cui i soccorsi sono arrivati sul campo. Lui ha sostenuto che fosse impossibile essere preparati per un disastro naturale di tale portata, attribuendo poi la lentezza dei soccorsi al freddo, che aveva ghiacciato e riempito di neve le strade.

Ad oggi le operazioni di soccorso sono terminate, ma i dati forniti dal governo sulle conseguenze del terremoto sono devastanti: il terremoto ha colpito circa 14 milioni di persone, più o meno un sesto della popolazione totale del paese. Oltre 3 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni: oltre un milione sono state sistemate in rifugi allestiti in tende e container, gli altri in dormitori e strutture di altro tipo.

In Turchia, inoltre, sono state avviate indagini contro circa un migliaio di persone per accuse legate alla costruzione degli edifici distrutti dal terremoto. Tra loro ci sono imprenditori edili e proprietari di immobili, accusati di aver contribuito alla costruzione di edifici che non rispettavano le norme antisismiche. In almeno 235 casi le indagini hanno già portato ad arresti.

Nel frattempo il governo turco – che a giugno dovrà affrontare le elezioni – ha già attuato una dura repressione nei confronti di una serie di giornalisti e canali televisivi che nel corso di quest’ultimo mese hanno criticato il governo. Sono accusati di aver diffuso disinformazione: nei loro confronti sono state emesse multe e almeno un giornalista è stato arrestato.