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  • Mercoledì 15 febbraio 2023

Sono arrivati i primi aiuti anche nel nord-ovest della Siria

Sono stati portati dall'ONU, ma sono ancora troppo pochi per la popolazione colpita dal terremoto di dieci giorni fa

Sfollati in un campo allestito nella città di Harem, nel nord-ovest della Siria (AP Photo/Ghaith Alsayed)
Sfollati in un campo allestito nella città di Harem, nel nord-ovest della Siria (AP Photo/Ghaith Alsayed)

Martedì pomeriggio un convoglio di aiuti umanitari gestito dalle Nazioni Unite è arrivato nel nord-ovest della Siria attraverso il nuovo valico di frontiera aperto a Bab al Salam, nel nord del paese, al confine con la Turchia. Il convoglio era composto da undici camion che hanno portato aiuti di vario tipo alla popolazione locale, duramente colpita dal devastante terremoto avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 febbraio tra Turchia e Siria.

È una notizia importante per i siriani che abitano nel nord-ovest, una zona ampiamente devastata da dodici anni di guerra civile, ma è comunque un’iniziativa tardiva e gli aiuti arrivati finora sono troppo pochi per la popolazione locale. Nella zona, dove milioni di persone già vivevano in condizioni difficilissime, sfollate da altre parti della Siria dopo essere per lo più sfuggite ai bombardamenti compiuti dal regime di Bashar al Assad, il terremoto ha complicato la situazione: secondo l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ci sarebbero più di 5,3 milioni di siriani rimasti senza casa e che hanno estremo bisogno di aiuto.

– Leggi anche: Come aiutare i terremotati in Siria e Turchia, da qui

Il terremoto ha causato più di 40mila morti in Turchia e Siria, di cui circa 3.500 in quest’ultima. Ma mentre in Turchia gli aiuti umanitari sono arrivati piuttosto rapidamente, in Siria hanno tardato per giorni: i territori controllati dal regime infatti sono sottoposti a varie forme di embargo a causa della guerra, mentre quelli controllati dai ribelli sono difficilmente raggiungibili.

Il nord-ovest è controllato dai ribelli che si oppongono al regime di Assad, e fino a martedì l’unico punto di accesso al territorio per portare aiuti umanitari era il valico di frontiera di Bab al Hawa, tra Siria e Turchia. Ma quel solo valico era considerato largamente insufficiente per portare aiuti alle popolazioni siriane locali, anche perché le strade che dal sud della Turchia conducono a Bab al Hawa sono state fortemente danneggiate dal terremoto e per i camion delle Nazioni Unite non è semplice percorrerle. Martedì quindi il governo siriano ha accettato di far aprire due nuovi valichi, a Bab al Salam e a Al Rai.

I due nuovi valichi dovrebbero agevolare l’arrivo di nuovi aiuti, ma nel frattempo le condizioni dei siriani che abitano il nord-ovest del paese sono drammatiche. Il Financial Times ha visitato una città della zona, dove il governo turco sostiene e sovvenziona i ribelli, e ha trovato persone accampate dove meglio potevano, tra le macerie degli edifici crollati o sotto gli ulivi presenti nella zona, spesso ancora con la polvere incrostata su pelle e vestiti.

Gli abitanti della zona hanno aspettato invano per più di una settimana che arrivassero aiuti, e nel mentre se la sono dovuti cavare da soli. Ali al-Eid, che abita nella città di Jinderes, controllata dai ribelli, ha raccontato al Financial Times che nei primi giorni dopo il terremoto lui e la sua famiglia hanno dormito al freddo sotto le macerie della moschea cittadina. Poi è riuscito ad assicurarsi una tenda, che ha però dovuto pagare l’equivalente di circa 140 euro a un uomo del luogo, accusato di stare approfittando della situazione per accumulare generi di prima necessità e rivenderli a chi ne ha bisogno.

Alcune persone del luogo temono che non arriverà mai davvero tutto ciò di cui hanno bisogno. Il timore è anche che il regime siriano possa usare gli aiuti umanitari come già in passato per ricattare le popolazioni che abitano nelle città controllate dai ribelli, per spingerle ad arrendersi o a fare concessioni nella guerra. «Cosa c’è da aspettarsi dopo 12 anni senza uno stato? Siamo stati lasciati qui a marcire accanto ai corpi dei morti», ha commentato al Financial Times Dima Aboush, un’abitante di Jinderes.