Perché è così difficile avere vaccini contro il cancro

E a che punto è la ricerca per svilupparli, tra importanti progressi, imprevisti e ostacoli molto difficili da superare

di Emanuele Menietti

 (AP Photo/Nam Y. Huh, File)
(AP Photo/Nam Y. Huh, File)
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Alla fine del 2022 ha avuto grande rilievo l’annuncio di un vaccino sperimentale contro il cancro definito molto promettente da Moderna e MSD (Merck Sharp & Dohme), le due aziende farmaceutiche che lo hanno sviluppato. Secondo i loro test clinici, su un numero ridotto di pazienti e i cui risultati devono essere ancora rivisti per essere pubblicati integralmente, il trattamento riduce sensibilmente il rischio di recidiva o morte per il melanoma in stadio avanzato, un tumore maligno che interessa la pelle e che può diffondersi nel resto dell’organismo. La notizia è stata ripresa dai mezzi di comunicazione con toni fortemente ottimistici, con il rischio di generare aspettative molto alte e false speranze per un vaccino in realtà ai primissimi stadi, estremamente costoso e che riguarda per ora un solo tipo di tumore.

Al di là dei sensazionalismi, il risultato ottenuto da Moderna e MSD è comunque importante e segna un nuovo progresso nello sviluppo di nuovi trattamenti contro i tumori. Offre inoltre una buona occasione per mettere in ordine le idee su che cosa sia davvero un vaccino contro il cancro e su perché sia ancora lontanissima, e forse impraticabile, la produzione di ciò che vorrebbero in molti: un vaccino universale contro tutti i tumori.

Guardie e ladri
Volenti o nolenti, negli ultimi tre anni di pandemia ci sono diventati familiari termini come sistema immunitario, anticorpi, antigeni e mutazioni. Abbiamo potuto constatare come nuovi vaccini, sviluppati e testati in appena un anno, abbiano drasticamente ridotto i rischi di sviluppare le forme gravi di una malattia che prima del loro avvento aveva già causato milioni di morti in tutto il mondo. Era l’ennesima conferma dell’importanza dei vaccini, che nell’ultimo secolo hanno permesso di evitare centinaia di milioni di morti, causate da alcune delle malattie più diffuse come il morbillo e l’influenza, e di eradicare il vaiolo, una malattia che per secoli aveva funestato l’esistenza di intere popolazioni.

La scoperta dei primi vaccini, a cominciare proprio da quello del vaiolo, non fu banale e permise di capire che si potevano istruire le difese del nostro organismo a contrastare un determinato agente esterno (un patogeno, come un virus o un batterio) senza doversi ammalare, con tutti i rischi che comporta una malattia.

In generale, quando il nostro corpo viene esposto a un patogeno, il sistema immunitario capisce che si tratta di qualcosa di esterno e non prodotto dal nostro organismo, basandosi sulla presenza di particolari antigeni, proteine che riconosce come anomale perché diverse da quelle che si trovano normalmente tra le cellule quando si è in salute. Questi antigeni possono derivare direttamente dai patogeni, oppure possono essere il frutto di modifiche che questi ultimi inducono nelle cellule, determinando la produzione di proteine anomale.

Il sistema immunitario identifica la minaccia e attiva un’ampia varietà di cellule immunitarie: alcune conducono immediatamente un attacco, ad ampio spettro e poco mirato, mentre altre si preparano per attaccare in modo più specializzato. Il luogo dove queste cellule studiano i loro nemici sono i linfonodi, che possiamo considerare come la sala lettura di una biblioteca. Attendono di ricevere le informazioni dalle cellule che presentano l’antigene (APC), i bibliotecari nella nostra analogia. Le APC raccolgono sul sito dell’infezione tracce molecolari e antigeni e li trasportano nei linfonodi, dove diventano i libri su cui studiano i linfociti B e i linfociti T: i primi sono cellule che producono anticorpi, i secondi sono invece le cellule che si occupano di attaccare l’infezione.

I linfociti B e T imparano a riconoscere in modo specifico la nuova minaccia, sulla base delle informazioni che hanno ricevuto dalle APC, e iniziano a moltiplicarsi producendo nuove cellule immunitarie con le medesime conoscenze. Queste migreranno infine dai linfonodi ai punti in cui è presente l’infezione nell’organismo, effettuando un attacco più mirato e specifico rispetto a quello iniziale più generalizzato.

Il processo richiede qualche giorno, ed è per questo che il periodo di guarigione quando ci ammaliamo dura un po’ di tempo. In alcune circostanze, inoltre, la risposta immunitaria non è comunque adeguata e l’infezione prosegue, creando circoli viziosi in cui il nostro sistema immunitario prosegue con la risposta generalizzata attaccando anche i tessuti sani e causando quindi altri problemi di salute. Era ciò che accadeva all’inizio della pandemia, per esempio, quando molte persone sviluppavano forme gravi di COVID-19 dovute proprio all’incontrollata reazione dell’organismo.

Se tutto fila liscio, quando il patogeno è stato infine eliminato dall’organismo la risposta immunitaria inizia a scemare. La maggior parte dei linfociti B e T muore, ma rimane comunque un piccolo manipolo altamente specializzato, che può intervenire nel caso in cui in futuro si ripresenti nuovamente quella minaccia: si è sviluppata una memoria immunitaria. Il processo di studio in quel caso non sarà più necessario, perché ci saranno già cellule pronte ad avviare la produzione di un nuovo esercito con le giuste conoscenze. Ogni nuova infezione con lo stesso patogeno contribuirà a rinfrescare la memoria immunitaria, che per molti patogeni tende a ridursi col passare del tempo.

Vaccini e tumori
Con i vaccini si può ottenere un risultato simile in termini di memoria immunitaria, ma senza doversi ammalare e con tutti i rischi che ne conseguono. Viene introdotta una versione innocua della minaccia, ma sufficiente per indurre la reazione del sistema immunitario. A seconda delle circostanze e delle necessità, i vaccini possono sfruttare meccanismi diversi per raggiungere questo obiettivo. Alcuni contengono una forma attenuata del patogeno, altri utilizzano invece gli antigeni, cioè alcune parti – come determinate proteine o le informazioni genetiche che servono per produrle – e che sono tipiche di quel determinato patogeno in modo che il sistema immunitario impari a riconoscerlo.

Quando pensiamo ai vaccini pensiamo soprattutto alla loro capacità di prevenire le malattie, o di farcele avere in forma molto attenuata e con pochi rischi, ma in realtà alcuni tipi di vaccino possono essere utilizzati come un trattamento. In questo caso si parla di vaccini terapeutici, la cui funzione è quella di aiutare il sistema immunitario a rispondere in modo più mirato ed efficace a una determinata minaccia. I “vaccini contro il cancro” di cui si parla da qualche tempo rientrano per la maggior parte in questa categoria: non servono a impedire di avere la malattia, ma a trattarla utilizzando al meglio i sistemi di difesa che ha già il nostro organismo.

Il cancro è causato da particolari mutazioni nel DNA che si trova nel nucleo di una cellula, che possono essere dovute a svariate cause (spesso esterne e in combinazione a come si è fatti). Le mutazioni portano la cellula a modificare parte delle proprie funzioni e a moltiplicarsi fuori controllo. Questo processo fa sì che si producano molecole e proteine diverse dal solito, tali da rendere le cellule tumorali distinguibili da quelle sane, almeno entro certi limiti. Le differenze vengono talvolta colte dal sistema immunitario, che non ha sempre strumenti adeguati per intervenire e distruggere tutte le cellule tumorali.

I motivi di questa scarsa efficienza non sono ancora completamente chiari, ma vari studi ipotizzano che siano legati al fatto che le cellule tumorali assomigliano comunque a quelle sane, di conseguenza sono più difficili da riconoscere rispetto a patogeni esterni. Le cellule tumorali sfruttano inoltre alcuni sistemi per passare inosservate e difendersi meglio da eventuali attacchi del sistema immunitario.

(Wikimedia)

Le nostre difese rimangono comunque una risorsa con grandi potenzialità per tenere sotto controllo i tumori, e per questo negli ultimi anni università, centri di ricerca e aziende farmaceutiche hanno dedicato grandi risorse allo studio di sistemi per sfruttarle. Nel caso dei vaccini contro il cancro, l’obiettivo è di insegnare al sistema immunitario a riconoscere le caratteristiche del tumore che interessa un determinato paziente, in modo che poi le cellule immunitarie se ne occupino. La creazione di una memoria immunitaria rende inoltre meno probabili (almeno in teoria) i casi di recidiva, in cui il tumore si ripresenta dopo qualche tempo.

Alcuni vaccini contro il cancro, come il nuovo vaccino annunciato da Moderna, devono essere quindi altamente personalizzati, perché ogni paziente sviluppa tumori con specifiche caratteristiche legate alle mutazioni nel DNA delle sue cellule. Lo sviluppo passa dall’identificazione degli antigeni che sono tipici delle cellule tumorali di un paziente e che non sono presenti nelle sue cellule non interessate dal tumore. Gli antigeni faranno poi parte del vaccino, in modo da farsi notare dal sistema immunitario. Fare questa selezione non è però semplice, occorre trovare antigeni che non siano comuni o troppo simili a quelli delle cellule sane, altrimenti il sistema immunitario attaccherebbe anche le cellule non interessate dal tumore.

La giusta combinazione
Al momento si stanno sperimentando varie strategie per fare la selezione. Una prevede di utilizzare gli antigeni tumore-associati, che solitamente si producono quando le mutazioni portano le cellule a comportarsi in modo anomalo sviluppando proteine che non dovrebbero creare o che non dovrebbero produrre in così grandi quantità. Il sistema immunitario può notare questa stranezza, ma la risposta è solitamente debole perché in fin dei conti quegli antigeni sono stati prodotti dallo stesso organismo (sono “propri”). Un vaccino basato sugli antigeni tumore-associati può essere meno specifico rispetto ad altre soluzioni, ed essere quindi preparato prima per avviare rapidamente una terapia. È però necessario che il paziente interessato abbia quantità importanti degli antigeni scelti, altrimenti non ci sarebbe un chiaro obiettivo per il sistema immunitario.

Un secondo approccio consiste nel comprendere nel vaccino tutti gli antigeni di un tumore, partendo da un campione del tumore prelevato dal paziente, per esempio se viene operato per rimuovere quanti più tessuti danneggiati possibili. Nel vaccino vengono utilizzate direttamente le cellule tumorali, dopo essere state rese innocue, in modo che il sistema immunitario sviluppi una risposta contro i vari antigeni legati a quel tipo di cancro imparando a identificarli nell’organismo. In alcune sperimentazioni il sistema ha dato esiti incoraggianti, ma il suo impiego è delicato perché potrebbe indurre il sistema immunitario ad attaccare anche tessuti sani, nel caso in cui alcuni antigeni fossero comuni tra cellule sane e malate.

Un’altra via, se percorribile, prevede invece di calibrare il vaccino sui neoantigeni, cioè su proteine che sono completamente nuove per l’organismo in cui si è sviluppato il tumore. Queste proteine sulle superfici delle cellule tumorali rendono molto più riconoscibili i tessuti malati da quelli sani, diventando quindi un chiaro obiettivo per il sistema immunitario e riducendo il rischio di attacchi verso cellule sane. Il problema è che i neoantigeni sono strettamente tipici per ogni paziente, di conseguenza il vaccino deve essere altamente personalizzato, come hanno spiegato i ricercatori di Moderna che hanno utilizzato una versione di questa tecnica per sviluppare il loro vaccino, partendo dal materiale genetico.

Il processo prevede di prelevare un campione di cellule tumorali dal paziente, analizzarne il DNA e confrontarlo con quello di cellule sane sempre prelevate dal paziente. In questo modo vengono identificate le differenze, cioè le mutazioni, e si utilizzano poi modelli al computer per determinare se alcune di quelle mutazioni portino alla produzione di neoantigeni e di che tipo. Un passaggio successivo prevede di valutare quali neoantigeni possano essere riconosciuti più facilmente dal sistema immunitario di quello specifico paziente, portando infine alla produzione del vaccino che implica numerose altre sfide per renderlo mirato.

È un processo lungo, complicato e attualmente estremamente costoso, ma che sta portando anche a importanti progressi che un giorno potrebbero rendere più sostenibile questo approccio. Molti gruppi di ricerca ritengono che la via dei neoantigeni sia la più promettente ed è quella su cui si stanno concentrando i maggiori investimenti, come mostra anche il caso di Moderna.

Somministrazione
Il vaccino deve avere caratteristiche tali da attirare l’attenzione del sistema immunitario e in particolare quella delle cellule che presentano l’antigene, i bibliotecari nel nostro esempio di prima, che portano le informazioni ai linfociti T e B nei linfonodi in modo che possano studiare. Una delle tecniche più utilizzate prevede di impiegare oltre agli antigeni un adiuvante, cioè una sostanza che potenzia la reazione immunitaria (gli adiuvanti vengono impiegati da tempo in numerosi vaccini, come quelli antinfluenzali).

La somministrazione del vaccino può essere diretta o mediata, attraverso l’impiego di virus indeboliti all’interno dei quali viene inserito il materiale genetico che porta le cellule a produrre gli antigeni necessari. I virus sono piuttosto abili a iniettare il proprio materiale genetico nelle cellule, inducendole a produrre nuove copie, ed è un processo che non passa inosservato al sistema immunitario che si attiva per correre ai ripari. Negli anni sono state sviluppate altre tecniche e sistemi per assicurarsi che il vaccino induca una reazione immunitaria adeguata. Una di queste prevede l’impiego di nanoparticelle di lipidi (sostanzialmente grassi) nelle quali vengono inseriti gli antigeni, in modo che rimangano più a lungo nell’organismo.

Insieme al vaccino terapeutico contro il tumore possono essere impiegati altri farmaci, nell’ambito di trattamenti più ampi per provare a eliminare le cellule tumorali. Per questo per esempio Moderna ha collaborato con MSD, che da qualche anno ha sviluppato il Keytruda, un farmaco che aiuta il sistema immunitario ad attaccare alcuni tipi di tumore, rendendo visibili le cellule malate che spesso riescono a nascondersi alle difese del nostro organismo. Le due aziende farmaceutiche hanno annunciato che nei test clinici svolti finora è stata riscontrata una riduzione del 44 per cento del rischio di recidiva del melanoma o decesso del paziente. I dati resi disponibili sono per ora parziali e si attendono le pubblicazioni scientifiche in merito, che offriranno maggiori elementi sul trattamento.

Progressi e successi
È bene ricordare che le ricerche in corso e le sperimentazioni stanno portando sì a risultati importanti, ma siamo ancora molto distanti dallo sviluppo di vaccini terapeutici in grado di cambiare radicalmente il modo in cui vengono trattati i tumori. Le terapie tradizionali sono nel frattempo migliorate e hanno subìto varie evoluzioni, tali da ridurre comunque in modo significativo i decessi dovuti ai tumori, o di prolungare per lo meno le aspettative di vita per chi riceve una diagnosi di tumore. La necessità di avere vaccini terapeutici altamente specializzati e il grande dispendio di energie e di risorse per realizzarli spiegano perché a oggi non esista un vaccino universale contro il cancro. Molti sono scettici sulla possibilità che sia mai prodotto, mentre si dicono ottimisti sulle prospettive offerte dalle cure personalizzate che con il tempo potrebbero diventare meno costose e più efficaci.

Oggi esistono comunque alcuni vaccini che di fatto prevengono già il rischio di sviluppare alcune forme di tumore, che derivano dalle conseguenze di una infezione virale. Il vaccino contro l’HPV (Human Papilloma Virus) riduce fortemente il rischio di sviluppare tumori, in particolare al collo dell’utero, specialmente se le infezioni non vengono trattate. Il vaccino contro il virus dell’epatite B ha ridotto sensibilmente la quantità di carcinomi al fegato.