Il trambusto politico attorno alla partita dei Mondiali tra Iran e Stati Uniti
Si gioca questa sera ed è molto attesa non solo per l'importanza del risultato sportivo: c'entrano più di quarant'anni di storia
Martedì sera la partita che chiuderà la nona giornata dei Mondiali di calcio sarà Iran-Stati Uniti. È una gara decisiva, dato che le due nazionali non avranno altre partite a disposizione per qualificarsi agli ottavi di finale: gli Stati Uniti possono solo vincere mentre l’Iran può anche pareggiare, ma solo se nell’altra partita del loro girone il Galles non batte l’Inghilterra.
La partita è piuttosto attesa per ragioni che vanno ben oltre lo sport: Iran e Stati Uniti sono paesi ostili tra loro da decenni, e la loro relazione ha segnato alcuni dei passaggi di politica internazionale più importanti della seconda metà del Novecento.
Che ci sia una certa ostilità tra i due paesi lo si era visto anche nei giorni prima della partita, quando la federazione americana di calcio, in un’immagine diffusa sui social network, aveva raffigurato la bandiera dell’Iran senza il simbolo centrale che rappresenta l’emblema della Repubblica islamica (è una versione stilizzata della parola Allah), cioè del regime teocratico che governa il paese dal 1979. L’eliminazione dell’emblema era probabilmente una provocazione a sostegno delle proteste anti regime che sono in corso da mesi in Iran, ma è stata presa come un affronto dai media di stato iraniani, che hanno chiesto l’eliminazione degli Stati Uniti dai Mondiali.
By posting a distorted image of the flag of the Islamic Republic of #Iran on its official account, the #US football team breached the @FIFAcom charter, for which a 10-game suspension is the appropriate penalty.
Team #USA should be kicked out of the #WorldCup2022 pic.twitter.com/c8I4i4z3Tv— Tasnim News Agency (@Tasnimnews_EN) November 27, 2022
Dalla relazione tra Stati Uniti e Iran sono dipesi, per decenni, gli equilibri politici del Medio Oriente e non solo: gli Stati Uniti sono la prima potenza politica ed economica mondiale, mentre l’Iran, pur essendo un paese molto più povero e meno influente, è comunque una potenza regionale di un certo peso, e uno dei più grandi produttori al mondo di petrolio e gas.
Prima di martedì, le nazionali di Iran e Stati Uniti si sono incontrate soltanto due volte: nel 1998 ai Mondiali in Francia e nel 2000 in un’amichevole. La partita più tesa e notevole fu certamente la prima, quella del 1998. La prima partita tra le due nazionali di paesi ostili da decenni fu una delle cose più commentate e discusse di quei giorni.
Si giocò inoltre tra enormi misure di sicurezza: l’allenatore della nazionale americana del tempo, Steve Samson, ha raccontato a CNN che erano sotto protezione non soltanto i giocatori e gli altri componenti della squadra, ma anche le loro famiglie, perché si temevano attentati, rapimenti e ritorsioni. In realtà tutto filò liscio e anche durante la partita i momenti di tensione furono limitati. Ci fu perfino uno scambio di fiori. Finì 2 a 1 per l’Iran, ma nessuna delle due squadre superò il girone.
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Una delle questioni più notevoli è che fino alla Rivoluzione islamica del 1979, quella che portò al potere l’attuale regime, i rapporti tra Iran e Stati Uniti erano ottimi.
Tra il 1941 e il 1979, lo scià Mohammad Reza Pahlavi, il sovrano dell’Iran fino alla Rivoluzione, fu un alleato piuttosto stretto dell’Occidente, e un solerte fornitore di idrocarburi soprattutto alle aziende petrolifere americane e britanniche. Ci furono ovviamente alti e bassi nel rapporto: in particolare, tra il 1951 e il 1953 fu primo ministro, in un clima di crescente democratizzazione, Mohammad Mosaddeq, un leader indipendente che cercò di allontanare l’Iran dall’orbita americana e soprattutto di nazionalizzare le risorse naturali del paese. Il suo governo fu rovesciato da un colpo di stato che fu con ogni probabilità finanziato dai britannici (e in minor misura dagli americani) e il potere fu restituito allo scià.
Da quel momento, e fino al 1979, l’Iran fu il principale alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente.
Dal 1963 al 1979 in Iran ci fu la cosiddetta “rivoluzione bianca”: un programma molto ampio di riforme attuate dallo scià e suggerite dall’amministrazione statunitense di John F. Kennedy, per “anticipare” in qualche modo le spinte di cambiamento che avrebbero potuto far guadagnare consensi all’opposizione comunista. La modernizzazione fu però troppo veloce e fu presto accusata di essere una “occidentalizzazione”, soprattutto dai religiosi. Le aspettative degli iraniani aumentarono senza però che di pari passo crescessero l’economia del paese e la lotta contro la corruzione del regime e della monarchia.
Il sostegno fornito dagli Stati Uniti allo scià divenne più problematico man mano che il governo iraniano diventava più autoritario, corrotto e brutale. A partire dalla metà degli anni Settanta, poi, una grave crisi economica provocò proteste estese e partecipate.
Queste proteste furono estremamente partecipate e trasversali: c’erano studenti e lavoratori, religiosi sciiti e militanti di sinistra. Ben presto, tuttavia, tra i principali leader delle proteste emerse l’ayatollah Ruhollah Khomeini (“ayatollah” significa letteralmente “segno di Dio”, è un titolo di grado elevato che viene concesso agli esponenti più importanti del clero sciita, cioè l’orientamento dell’Islam maggioritario in Iran). Khomeini si trovava in esilio a Parigi, dopo essere stato per diversi anni in Iraq: nonostante non fosse uno dei religiosi iraniani più autorevoli dal punto di vista dottrinario, fu l’esponente del clero sciita che combatté la battaglia politica più dura e decisa contro lo scià.
Le proteste si trasformarono in una rivoluzione popolare e lo scià, che peraltro era malato terminale, lasciò l’Iran nel gennaio del 1979. Poche settimane dopo, Khomeini tornò nel paese.
Inizialmente, l’amministrazione americana di Jimmy Carter sperò di poter mantenere quanto meno relazioni normali con quello che era stato il suo principale alleato nella regione. La retorica di Khomeini era profondamente antiamericana: l’ayatollah definiva gli Stati Uniti come “il grande satana”, e uno degli slogan rivoluzionari, che poi sarebbe diventato celebre, era: “Morte all’America!”. Nonostante questo, almeno nei primi tempi il nuovo regime rivoluzionario che sostituì quello dello scià fu estremamente variegato: comprendeva comunisti, liberali e vari altri esponenti della popolazione civile, oltre al clero sciita che sosteneva Khomeini.
La situazione però precipitò qualche mese dopo la Rivoluzione con la cosiddetta “crisi degli ostaggi”, quando diverse centinaia di studenti attaccarono l’ambasciata statunitense e presero in ostaggio 53 dei suoi dipendenti. La loro liberazione avvenne 444 giorni dopo e fu una crisi politica gravissima per l’amministrazione Carter, che non ottenne la rielezione. Fu anche la fine dei rapporti amichevoli tra Iran e Stati Uniti.
Nel frattempo, nei primi anni della Rivoluzione, Khomeini era riuscito a eliminare tutti i componenti comunisti o moderati del governo rivoluzionario, e a trasformare l’Iran in una Repubblica islamica e in una teocrazia. Khomeini divenne Guida suprema del paese, cioè la principale figura politica e religiosa, con carica a vita.
Da quel momento in avanti le relazioni tra Iran e Stati Uniti rimasero più o meno apertamente ostili, anche se ci furono ovviamente degli alti e dei bassi. Con l’amministrazione di Ronald Reagan (1981–1989) la relazione finì nelle contraddizioni della Guerra fredda: l’America armò l’Iraq nel corso della guerra tra Iran e Iraq che durò per tutti gli anni Ottanta, ma al tempo stesso vendette armi all’Iran per finanziare gruppi anti comunisti in Nicaragua (fu il celebre scandalo Iran-Contra).
Sempre negli anni Ottanta l’Iran avviò una politica di sostegno a varie organizzazioni sciite (come per esempio Hezbollah in Libano) che mirava a espandere la propria influenza all’estero, ma che dall’Occidente fu spesso definita come sostegno al terrorismo. George W. Bush, nel 2002, inserì l’Iran tra i paesi nemici dell’America che componevano il cosiddetto “asse del male”, assieme a Iraq e Corea del Nord.
Altre questioni di dissidio tra Iran e Stati Uniti furono anzitutto le sanzioni economiche che prima l’amministrazione statunitense e poi altri governi occidentali alleati imposero contro l’Iran. Le prime sanzioni arrivarono immediatamente nel 1979, ma furono via via aumentate nel corso dei decenni: prima che la Russia invadesse l’Ucraina, l’Iran era il paese più sanzionato al mondo.
L’ultima principale questione di rilievo è da sempre il programma nucleare iraniano: era stato avviato negli anni Cinquanta proprio con l’aiuto degli Stati Uniti, ma divenne una potenziale minaccia dopo la Rivoluzione islamica del 1979. L’Iran sostiene di voler ottenere la tecnologia nucleare per scopi pacifici, cioè per costruire centrali e produrre energia elettrica, ma gli Stati Uniti e i suoi alleati temono da sempre che il vero obiettivo del regime sia la costruzione di armi nucleari.
Per decenni Iran e Stati Uniti hanno trattato e litigato sulla questione del nucleare. Arrivarono a un accordo nel 2015, quando l’Iran firmò, con gli Stati Uniti e un gruppo di paesi occidentali, un accordo che prevedeva limiti alla capacità iraniana di arricchire l’uranio in cambio di una consistente riduzione delle sanzioni occidentali. L’accordo fu ritenuto storico, ma un paio d’anni più tardi fu cancellato unilateralmente dal presidente Donald Trump. I negoziati sono ripresi dopo l’elezione di Joe Biden, ma c’è molto pessimismo sulla loro riuscita.
Attualmente, il governo iraniano formato dopo le elezioni dell’anno scorso è composto da ultraconservatori molto scettici nei confronti di ogni forma di dialogo con gli Stati Uniti. Di recente, anzi, il regime ha accusato gli Stati Uniti di aver organizzato e incitato le proteste dei manifestanti per la democrazia, senza prove.