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  • Lunedì 10 ottobre 2022

Le difficoltà dei giornalisti con la riforma Cartabia

Prevede che le informazioni sulle indagini siano diffuse con molta cautela dalle procure, e qualcuno ritiene che questo limiti il diritto di cronaca

Un giornalista davanti alla cancelleria del tribunale di Catania (ANSA/ORIETTA SCARDINO)
Un giornalista davanti alla cancelleria del tribunale di Catania (ANSA/ORIETTA SCARDINO)
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Da mesi ci sono giornalisti e cronisti giudiziari italiani che si lamentano dell’applicazione di alcune norme contenute nella riforma della giustizia promossa dalla ministra Marta Cartabia che regolano i rapporti tra organi di informazione e procure della Repubblica. Le norme sono state inserite nella riforma per recepire una direttiva europea che, già da cinque anni, chiedeva il rafforzamento dell’istituto della presunzione di innocenza per gli indagati nei procedimenti penali: ovvero di attenuare le conseguenze e le sofferenze materiali e psicologiche per chi sia semplicemente sottoposto a indagine, e per cui le regole del diritto prevedono che sia da considerarsi innocente fino a un’eventuale condanna definitiva. Ma secondo i giornalisti queste norme di garanzia limitano il diritto di cronaca, danno troppo potere discrezionale alle procure e possono avere controindicazioni anche rispetto ai principi a cui sono ispirate.

La riforma ha affidato infatti ai capi delle procure della Repubblica le decisioni su quali notizie possano essere rese note alla stampa e quali no, e in che forma, affidandosi alla loro discrezionalità. Inoltre, l’applicazione delle nuove disposizioni non è attualmente organica: alcune procure si attengono scrupolosamente alle norme, altre le ignorano o le aggirano. Tutto nel contesto di una consuetudine che finora aveva fatto arrivare ai mezzi di informazione molte notizie teoricamente coperte dal segreto dell’indagine (con limitazioni assai minori rispetto ad alcuni altri paesi europei), con sensibili conseguenze sulle vite degli indagati e anche sullo svolgimento delle indagini stesse.

La direttiva dell’Unione europea sul “rafforzamento della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali” è datata 9 marzo 2016. Stabilisce al punto 16 che «la presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole». Insomma, l’abitudine da parte dei media e delle stesse procure a presentare chi è oggetto di indagine come già probabile colpevole ha bisogno di essere attenuata, proprio perché contraddice la presunzione di innocenza.

Al punto 18 la direttiva poi spiega quali spazi debba avere la diffusione di informazioni sulle indagini e sugli indagati:

L’obbligo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non dovrebbe impedire alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’indi­viduazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico. Il ricorso a tali ragioni dovrebbe essere limitato a situazioni in cui ciò sia ragionevole e proporzionato.

I giuristi incaricati da Cartabia di scrivere la riforma hanno recepito la raccomandazione dell’Unione europea includendo nei testi alcune norme per tentare di regolare la trasmissione ai media di notizie sui procedimenti penali in corso. Il rapporto talvolta opaco tra procure e stampa in Italia è noto e raccontato, ed è estesamente considerato un problema. Esiste infatti un sistema di connivenza e di interessi reciproci che ha portato alcune procure a diffondere regolarmente informazioni ai giornalisti riguardo alle inchieste in corso. Ai procuratori rapporti di questo tipo con la stampa convengono perché danno notorietà e attenzioni, e aiutano a creare un contesto favorevole alle loro accuse; ai giornalisti invece interessa avere per primi le notizie da pubblicare e ottenere le attenzioni dei lettori.

Questo meccanismo ha però portato a sistematiche storture e abusi: è comune che sui giornali siano pubblicate intercettazioni il cui contenuto sarebbe dovuto rimanere segreto, o che vengano diffuse con toni poco dubitativi tesi d’accusa che poi magari verranno smentite a conclusione dei processi. In passato è addirittura accaduto che l’emissione di avvisi di garanzia fosse segnalata sui giornali prima ancora che venissero consegnati ai diretti interessati. Fu celebre il caso dell’invito a comparire a Silvio Berlusconi, nell’ambito dell’inchiesta Telepiù, annunciato dal Corriere della Sera prima che venisse consegnato all’allora presidente del Consiglio, nel novembre del 1994. 

Secondo i giornalisti – ma lo sostengono anche alcuni magistrati – le norme previste dalla riforma Cartabia non impediscono però davvero che casi come quelli citati possano ripetersi. E allo stesso tempo però rendono più complicato il lavoro del giornalista e lasciano al procuratore capo la scelta su che cosa sia rilevante far sapere all’opinione pubblica e che cosa invece no, valutazione che dovrebbe – secondo i critici – spettare proprio ai giornali e alla loro responsabilità etica.

La riforma Cartabia stabilisce alcune norme di buon senso che dovrebbero essere in teoria già seguite, tipo che «è fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza definitiva». Ma arriva a chiedere che le informazioni sui procedimenti giudiziari siano fornite «esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenza stampa».

Prevede poi che «la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico». Nel comma 3-bis dell’art. 3 del DLgs 188/2001 viene specificato che è il magistrato a capo della procura ad autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire informazioni sugli atti di indagine.

In sostanza, sulla carta la riforma prevede come unica modalità di comunicazione tra procure e giornali i comunicati stampa e le conferenze stampa, e solo se il capo della procura ritiene che quelle notizie siano di interesse pubblico e vadano quindi divulgate. C’è anche un comma, il 3 ter, che vieta alle procure di chiamare le operazioni con “denominazioni lesive della presunzione d’innocenza”. È probabile che, per esempio, non ci saranno più nomi di inchieste come “Mani pulite” o “Angeli e demoni”, usati spesso dalle procure per trasmettere già un’idea di colpevolezza degli indagati o di nobiltà delle indagini.

– Leggi anche: Nomi di processi che forse non sentiremo più

Un esempio concreto dell’effetto della legge è un comunicato di questo tipo: «I finanzieri del comando provinciale di Napoli, nell’ambito di indagini delegate dalla Procura della Repubblica, hanno eseguito nella mattinata odierna un’ordinanza di applicazione di misure cautelari nei confronti di tre soggetti, gravemente indiziati del reato…». Il nome degli interessati non viene fornito, né vengono specificati i luoghi dove gli arresti sono stati effettuati o altre informazioni che possano ricondurre all’individuazione degli arrestati. Quello che succede è che il giornalista che vuole dare la notizia, e soprattutto a cui il direttore del giornale chiede di trovare i nomi, prova ad avere informazioni dal procuratore capo, che però adesso non dovrebbe fornirle. Può succedere però che un agente di polizia giudiziaria o un’altra persona coinvolta nelle indagini dia questo tipo di indicazione, fornendo alcuni indizi per risalire alle identità delle persone coinvolte.

È evidente che questa parte della riforma ha un compito molto difficile: conciliare il diritto di cronaca e la libertà di stampa con il diritto delle persone sottoposte a provvedimenti giudiziari di vedere protetta la propria reputazione finché non saranno eventualmente accertate come colpevoli o finché un eventuale processo non renda pubbliche le accuse. Non è solo una discussione teorica: cambiare abitudini radicate da molto nei giornali e nelle procure è complicato, e il rischio è che le nuove norme siano semplicemente aggirate ed eluse perché le redazioni non ritengono auspicabile adottare un approccio diverso, e più garantista, alla cronaca giudiziaria.

In questo senso è molto forte la pressione del mercato: le notizie su arrestati e indagini esercitano una forte attrattiva su certi bacini di lettori, e per un giornale rinunciarvi può voler dire perderli a favore di chi, nella concorrenza, dovesse decidere di continuare a ottenere e fornire in qualche modo quel tipo di informazioni.

Francesco Floris, giornalista dell’agenzia LaPresse, sostiene che «bisognerebbe trovare un equilibrio tra il giusto garantismo e la possibilità di fornire notizie ai lettori. Senza contare che il capo di una procura, con queste norme, si trova a svolgere un lavoro che non gli appartiene e a dover rispondere, nel corso magari di un’operazione importante, a continue telefonate di giornalisti mentre si sta occupando di cose delicate». Mario Portanova, giornalista del Fatto Quotidiano, sul sito Avviso Pubblico ha invece fatto un altro esempio, implicando che anche il solo essere indagate o arrestate possa rendere delle persone preoccupanti per la comunità:

«In Lombardia sono state arrestate cinque persone che facevano parte di un sistema di mazzette sulle protesi dentarie che andava avanti indisturbato dagli anni Novanta “perpetrato da un’azienda leader nel settore dell’odontotecnica con la compiacenza di medici operanti presso molteplici aziende ospedaliere pubbliche lombarde”. Già ma chi sono gli arrestati? Qual è l’azienda leader del settore? Quali sono i molteplici ospedali lombardi coinvolti? Un cittadino, un sindaco, un consigliere regionale non hanno un interesse forte e pubblico nel venire a sapere i nomi di persone indagate per simili reati ed eventualmente verificare i loro contatti con la pubblica amministrazione?»

Non sono solo i giornalisti ad aver giudicato negativamente queste norme contenute nella riforma Cartabia. A febbraio, a Milano, il procuratore facente funzione Riccardo Targetti aveva detto: «Non penso debbano essere i magistrati a dover valutare cosa sia d’interesse pubblico, è un compito dei giornalisti. Come magistrato la giudico una legge piuttosto difficile da applicare. Come cittadino la giudico male, non mi è piaciuta per niente. Mi sembra che questa legge introduca il concetto di velina di regime». Secondo Targetti, inoltre, ora la verifica delle notizie diventa ancora più complicata, «e la verifica è fondamentale, senza di quella l’informazione è monca».

Portanova è d’accordo e ricorda che «non è il mestiere del procuratore capo decidere che cosa è di rilevanza pubblica. In base a che cosa lo decide? Il nome di un capomafia non è già di per sé di rilevanza pubblica? Oppure di un dirigente corrotto di un’azienda pubblica?». Ma la ratio della legge nasce proprio dall’idea che un dirigente corrotto di un’azienda si possa ritenere tale solo a processo concluso: è la presunzione di innocenza.

Anche il magistrato Nino Di Matteo, che da anni si occupa di mafia con posizioni spesso discusse, non ha accolto favorevolmente le nuove norme. Secondo Di Matteo le direttive introducono «una sostanziale impossibilità per l’autorità pubblica, non soltanto per i magistrati, di informare su quanto non è più coperto dal segreto. Possono informare soltanto le parti private, possono informare i parenti, com’è avvenuto per Riina e Provenzano, su quello che secondo loro è emerso dalle indagini. Non lo potrà fare più il procuratore della Repubblica, il questore o l’ufficiale dei carabinieri».   

I magistrati che non si attengono alle norme e forniscono informazioni ai giornalisti rischiano adesso un’azione disciplinare prevista da uno specifico illecito nell’esercizio delle funzioni, che contempla sanzioni simboliche che possono essere un “ammonimento” o una “censura”, ma anche più gravi come perdita di anzianità o sospensione delle funzioni.

Chi è favorevole alle nuove norme sostiene che così si potrà mettere fine al cosiddetto “mercato nero” delle notizie, cioè a quelle informazioni che venivano e vengono passate sottobanco ai giornalisti dalle procure. In realtà, dicono molti giornalisti, spesso non sono i magistrati a fornire alla stampa le notizie, ma più frequentemente gli avvocati o membri delle forze dell’ordine: e non è detto che il “mercato nero” non diventi semplicemente più nero e sottobanco ancora. Secondo i critici della riforma, un giornalista non si potrà mai accontentare delle informazioni contenute in un comunicato o fornite durante una conferenza stampa e sarà perciò incentivato a cercare di scoprire in maniera ancora più aggressiva ciò che non gli è stato comunicato in via ufficiale.

All’entrata in vigore della legge, il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, aveva detto: «Norme così rigorose potranno limitare il diritto degli operatori dell’informazione all’accesso di notizie e, persino, per una non voluta eterogenesi dei fini, incentivare la ricerca di esse attraverso canali diversi, non ufficiali o persino non legittimi».