L’importanza del prossimo congresso del PD

Nel peggiore momento della sua storia deve decidere da chi farsi guidare, se stare più al centro o a sinistra, se cambiare tutto o addirittura sciogliersi

di Luca Misculin

(Mauro Scrobogna/LaPresse)
(Mauro Scrobogna/LaPresse)
Caricamento player

Un aneddoto che si sente spesso tra appassionati di politica racconta che Palmiro Togliatti, storico segretario del Partito Comunista italiano, raccomandò ai dirigenti del suo partito di non nominare mai un emiliano alla guida del partito dopo una burrascosa vicenda di dissidenti interni che finì con una piccola scissione. Oggi la guida del pronipote del PCI, cioè il Partito Democratico, sembra una questione fra due candidati emiliani: il presidente della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e la sua vice, Elly Schlein (che lo è di adozione). E al contrario di quello che accadde ai tempi di Togliatti, quando il PCI resistette senza problemi a quei piccoli sommovimenti, la tenuta del partito è considerata più che mai a rischio.

La scelta di chi sostituirà il segretario uscente Enrico Letta non sarà soltanto una questione di nomi, come avvenuto spesso in un partito che dalla sua nascita ha cambiato 11 segretari in 15 anni. Dopo l’ennesima sconfitta elettorale il 25 settembre tutte le fazioni del partito stanno chiedendo che il congresso per scegliere il nuovo segretario o segretaria abbia un’ambizione molto più profonda. Alcuni parlano di «rifondazione», altri di «riflessione», in molti più semplicemente sostengono che il Partito Democratico deve capire chi sia e cosa voglia diventare.

Sempre se il PD abbia ancora senso di esistere: giovedì una delle sue fondatrici, Rosy Bindi, ha sostenuto per esempio che abbia ormai esaurito la sua funzione storica e dovrebbe avere «il coraggio di sciogliersi».

Finora il PD è stato un partito nato da una fusione mai davvero amalgamata fra l’ala sinistra della Democrazia Cristiana e quella moderata del Partito Comunista, passato da almeno quattro scissioni, che esprime centinaia di sindaci in tutta Italia ma ha perso ogni elezioni politica a cui ha partecipato, federato al Partito Socialista Europeo ma che nei nove anni in cui è stato al governo, dal 2013 a oggi, ha applicato programmi assai poco socialisti.

Lo strumento che il PD ha scelto per provare a risolvere questa crisi è quello del congresso: un lungo e cervellotico percorso burocratico-amministrativo appena indetto da Letta e composto da decine di tappe, durante le quali migliaia di dirigenti e militanti si confronteranno nei prossimi mesi. L’esito non sarà scontato. «Se il PD si spacca di nuovo, finisce di esistere», spiega un membro della direzione nazionale del partito che vuole rimanere anonimo per esprimersi più liberamente, come del resto hanno preferito fare i diversi eletti e dirigenti con cui ha parlato il Post dopo il voto.

Superficialmente, tenere un congresso potrebbe sembrare una scorciatoia per dare un segnale di unità, fare parlare di sé sui giornali e regalare attenzioni e curiosità al nuovo segretario, chiunque sarà. Il congresso sarà invece un processo molto doloroso. Il PD è l’unico grande partito rimasto in Italia: ha centinaia di organi locali fra segreterie comunali, provinciali e regionali, oltre ad almeno tre organi nazionali rilevanti – assemblea, direzione, segreteria – e migliaia di iscritti che devono eleggerle. Il rituale del congresso, in cui si ridiscutono equilibri e rapporti di forza, si traduce in discussioni animate nelle sezioni, raccolte di firme per un certo candidato o candidata nei gazebo sotto la pioggia, rapporti personali che si guastano fra avversari politici. Una montagna di seccature, insomma, che arrivano alla fine di una campagna elettorale culminata con una sconfitta.

Il rigido e formale percorso previsto dallo statuto sarà affiancato poi da una serie di scontri politici e trattative informali fra le fazioni del partito, che nel PD si chiamano correnti. Esistono in tutti i grandi partiti, soprattutto ad alti livelli. I militanti si raccolgono attorno a un capo e in cambio della loro fedeltà politica e di sforzi concreti – volantinare, presenziare a convegni a volte noiosissimi – vengono ricompensati con cariche all’interno del partito o nelle istituzioni.

È un circolo virtuoso o vizioso, a seconda della prospettiva da cui lo si guarda. Serve a dare una forma più strutturata alle attività e al radicamento del partito, ma può ingessare cambiamenti di prospettive, priorità e leadership a favore dell’autoconservazione di chi siede in cima al sistema di potere. Non è un caso che in uno dei momenti più delicati della sua storia, dopo la caduta del governo guidato da Giuseppe Conte con il M5S, il PD sia entrato nel governo Draghi con i leader delle tre correnti più potenti: Dario Franceschini, Lorenzo Guerini e Andrea Orlando.

Lorenzo Guerini, a sinistra, parla con Andrea Orlando (Valerio Portelli/LaPresse)

Insomma: il sistema delle correnti permette di mobilitare decine di migliaia di persone e impedisce al PD di subire sconfitte epocali, ma lo rende anche piuttosto impermeabile ai cambiamenti e incapace di assumere posizioni o leadership innovative.

È un limbo che si riflette anche nella sua condizione attuale. Se anziché il 19 per cento dei voti il PD avesse preso il 7,4 per cento ottenuto dal Partito Socialista francese alle ultime elezioni a cui ha partecipato da solo, una rifondazione sarebbe stata più agevole: non ci sarebbe stato più nulla da salvare. Il risultato di domenica consente invece a molti dirigenti di guardare il bicchiere mezzo pieno e di rimandare discussioni più articolate a un secondo momento.

Molti temono inoltre che il congresso non avrà l’ampio respiro che qualcuno auspica pubblicamente, per via di una modifica allo statuto voluta nel 2019 dall’allora segretario Nicola Zingaretti. Per semplificare il processo di selezione del segretario nazionale Zingaretti restrinse la fase finale del congresso, quella che prevede le primarie aperte anche ai non iscritti per scegliere il segretario o la segretaria nazionale, a due soli candidati anziché ai tre previsti fino ad allora.

Il ruolo del terzo candidato era storicamente riservato al cosiddetto «cavallo imbizzarrito», racconta una parlamentare uscente del partito. Persone fuori dai soliti giri e che potevano sparigliare e arricchire il dibattito – e gli organi nazionali, dopo avere perso onorevolmente – con prospettive diverse. Hanno incarnato questo ruolo, fra gli altri, Ignazio Marino alle primarie del 2009, Pippo Civati nel 2013, Roberto Giachetti nel 2019.

Oggi che il partito a detta di molti avrebbe bisogno di dibattiti articolati, offre agli iscritti e ai simpatizzanti una scelta binaria fra il candidato A e il candidato B (in teoria gli iscritti nella prima fase delle primarie possono scegliere fra più candidati: ma la prospettiva di avere due finalisti polarizza l’intero processo). Per alcuni questa inevitabile divisione in due grosse fazioni farà solo male al partito.

«Questa dinamica produrrà un’accelerazione dello scontro, e si sovrappone al fatto che esistono due ex alleati del partito, cioè il Movimento 5 Stelle e i centristi di Azione e Italia Viva, che stanno provando entrambi a dividere il PD», spiega un importante dirigente. Il rischio percepito è che il PD si divida fra due grandi correnti di pensiero, rappresentate da altrettanti candidati: quella che spingerà per avvicinarsi al Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, quindi teoricamente più a sinistra, e chi vorrà guardare al centro di Carlo Calenda e dell’ex segretario Matteo Renzi.

Sui giornali di questi giorni sono comparse delle interviste che sanno di posizionamento in vista di questo dibattito. Due giorni dopo la sconfitta il responsabile Enti locali del PD, Francesco Boccia, ha dato un’intervista al Corriere della Sera in cui chiede esplicitamente che il PD costruisca «un progetto condiviso» col Movimento 5 Stelle.

«Se il congresso sposerà con forza una di queste idee, provocherà la rottura con la mozione che avrà perso», aggiunge il dirigente del partito.

Se l’ala sinistra dovesse perdere, per esempio, l’influente ex europarlamentare Goffredo Bettini, considerato una specie di eminenza grigia del partito, una persona che ha molto potere ma rimane in secondo piano, spingerebbe per staccare un pezzo di partito e fonderlo col M5S di Conte. Bettini lo stima molto, e da consigliere di Zingaretti fu l’architetto politico del suo secondo governo. È un’ipotesi di cui ha parlato per primo il Foglio qualche tempo fa e che oggi viene considerata molto concreta, se le cose dovessero andare in un certo modo.

Il rischio di una ennesima scissione viene vissuto con preoccupazione da tutti: ma da alcuni viene ritenuto un male minore e tutto sommato necessario. «Se succede, amen», dice una parlamentare appena rieletta in una circoscrizione difficile. Secondo questa tesi, un’ulteriore scissione potrebbe ridurre le tensioni nel partito e rendere più semplice trovare una linea politica netta. «Se non hai una chiara visione del mondo e di dove vuoi portare l’Italia rimani un partito che esiste soltanto per consentire ai dirigenti di fare i ministri», spiega la parlamentare.

Altri non si augurano che il PD faccia questa fine ed evocano proprio la recente sparizione del Partito Socialista francese, rimasto schiacciato fra il partito centrista del presidente Emmanuel Macron e la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, con cui si è sostanzialmente fuso. Lo scontro si riflette anche sui tempi del congresso: chi non farebbe drammi per una nuova scissione vorrebbe tenerlo subito, prima delle regionali in Lombardia e Lazio previste per la primavera del 2023. Chi invece teme uno sbriciolamento del partito si chiede che differenza faccia prendersi qualche mese in più. 

È un po’ surreale che si discuta di alleanze in un partito che ha davanti a sé diversi anni all’opposizione, se non tutta la legislatura, e che quindi dovrebbe prima di tutto attrezzarsi per trovare una postura politica nei confronti del nuovo governo. Ma il PD da anni nasconde la polvere sotto il tappeto e rimanda riflessioni articolate sulla propria identità, sopperendo all’assenza di un messaggio forte e convincente – che quindi punti a convincere gli elettori – con le alleanze.

Prima Zingaretti e poi Letta avevano puntato tutto su un’alleanza strutturale col M5S, fra mille difficoltà soprattutto a livello locale. Nel momento in cui Letta decise di interromperla, quando il M5S fece di fatto cadere il governo Draghi, il PD si è trovato in estrema difficoltà. E dopo essere stato mollato anche da un nuovo alleato, Azione di Carlo Calenda, ha condotto una campagna elettorale con scarsissimo entusiasmo, consapevole che andava incontro a una sconfitta annunciata.

Enrico Letta arriva al comizio finale della campagna elettorale del PD, venerdì 23 settembre (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Ora che la sconfitta ha imposto un importante ripensamento, non ci sono moltissime idee attorno a cui svilupparlo, a parte discutere di alleanze. Nell’estate del 2021 il partito aveva faticosamente avviato le agorà democratiche, un progetto di discussione pubblica del programma elettorale che in teoria avrebbe dovuto avvicinare persone nuove al PD e condurre a quelle che Letta chiamava le «primarie del programma». La caduta del governo ha interrotto bruscamente il progetto. Sul sito ufficiale delle agorà uno scarno comunicato spiega che «la ricchezza delle proposte delle agorà ci permette di avere molto materiale per costruire la spina dorsale dei nostri impegni per l’Italia del 2027».

Nessuno, concretamente, ha esposto un’idea precisa di come ripensare il PD. Alcuni parlano di aperture verso movimenti nati nella società civile, come i giovani ambientalisti dei Fridays For Futureo una maggiore permeabilità con sindacati, piccole realtà locali, i circoli ARCI, le ong che si occupano di diritti e accoglienza. È la strada che per esempio hanno seguito diversi partiti progressisti in Europa.

In un periodo in cui in tutto il mondo la sinistra soffre uno svantaggio competitivo nei confronti dei conservatori – è difficile parlare di apertura al diverso e attenzione ai più deboli quando la destra propone un po’ ovunque messaggi di chiusura e ritorno a un passato idealizzato – in Spagna e Germania i partiti istituzionali di centrosinistra hanno prosciugato la sinistra radicale sposando convintamente cause che in precedenza non le appartenevano del tutto o che avevano abbandonato e lasciato ad altri, come la protezione dell’ambiente, l’introduzione di un salario minimo, la lotta alle disuguaglianze sociali ed economiche. Temi emersi con forza durante la pandemia da coronavirus e l’aggravamento del cambiamento climatico, e a cui questi partiti hanno saputo dare una risposta.

Con le segreterie di Zingaretti e Letta il PD si è spostato più a sinistra rispetto a Matteo Renzi, ma senza troppa convinzione e con una credibilità incerta. Letta, per esempio, ha iniziato la sua carriera nella Democrazia Cristiana, così come i capicorrente Dario Franceschini e Lorenzo Guerini. Nessuno di loro ha storicamente sensibilità social-democratiche, cosa che rende per molti meno credibili i loro discorsi sulla lotta alle disuguaglianze. L’impronta centrista data da Renzi, l’unico segretario con cui il PD superò le aspettative stravincendo le elezioni europee del 2014, sopravvive ancora in molte componenti del partito, così come l’insistenza sulla «responsabilità» che ha portato il PD negli ultimi dieci anni a governare per quattro volte assieme a propri avversari politici, senza peraltro mai aver vinto le elezioni.

Essendo rimasto al governo dal 2013 al 2022 con una parentesi di un anno tra il 2018 e il 2019, il PD ha rimandato molti ripensamenti e aggiornamenti che lo avrebbero aiutato ad adattarsi meglio a un contesto sociale ed economico europeo che è molto cambiato nell’ultimo decennio. Da questo punto di vista, la prospettiva di un lungo periodo all’opposizione dà fiducia a chi pensa che possa essere un’occasione per prendersi del tempo per riflettere su come dovrebbe essere il più grande partito progressista italiano nel 2022.

Le tempistiche sono a loro volta importanti: se anche si riuscisse ad avviare un nuovo ciclo che riesca a riportare entusiasmo negli elettori, il rischio è di ottenere buoni risultati alle prossime importanti elezioni – le europee del 2024 – ma di non riuscire a mantenerlo fino alle prossime politiche, che in teoria non ci saranno prima del 2027. Un po’ come successo a Renzi, o dall’altra parte a Matteo Salvini nella Lega.

Non esiste una unica soluzione, ovviamente: ognuna va calata nel suo contesto. Nel Regno Unito per esempio i laburisti guidati da Keir Starmer da qualche mese sono stabilmente intorno al 40 per cento dei consensi nei sondaggi dopo essersi spostati al centro e aver rivalutato l’esperienza da primo ministro di Tony Blair, fra 1997 e 2007.

In Italia però in assenza di una visione chiara del punto di arrivo è difficile anche solo capire con chi parlare. C’è anche la percezione diffusa che nel variegato mondo progressista non ci sia nessuno che possa accompagnare questa transizione. Nel 2007 la fondazione del PD fu sovrintesa da Romano Prodi, che allora era presidente del Consiglio e uno fra i politici ed economisti più brillanti del paese. Oggi Prodi ha 83 anni, il suo contributo alle sorti del PD si limita a qualche sporadica intervista, e in giro non si vede nessuno con uno spessore anche solo paragonabile.

Anche per questo, forse, il discorso sul congresso si è rapidamente indirizzato nella ricerca di un nuovo segretario o segretaria che possa gestire e indirizzare questa fase delicatissima, nonostante tutti a parole ripetano che per salvare il PD non bisognerà limitarsi a cambiare l’ennesimo leader.

Il candidato più forte, ad oggi, è Stefano Bonaccini. Si dice sia pronto a candidarsi da almeno due anni, cioè da quando vinse le elezioni regionali in Emilia-Romagna nonostante una Lega in grandissima ascesa. Ha 55 anni, è di Modena, fa politica da sempre e sempre dalla stessa parte: prima nel Partito Comunista Italiano, poi nelle sue varie incarnazioni fino ad arrivare al PD. Ha buoni rapporti dentro e fuori dal partito, ed è rimasto molto amico di Matteo Renzi, di cui fu coordinatore della campagna elettorale per le primarie del PD del 2013. Viene apprezzato soprattutto dagli amministratori locali, che però nel PD contano fino a un certo punto.

Stefano Bonaccini (ANSA/FABIO FRUSTACI)

Il principale ostacolo di Bonaccini infatti è la sua scarsissima confidenza con le dinamiche nazionali, qualcuno direbbe romane, del partito. Non è mai stato deputato, senatore o europarlamentare. Oggi non appartiene a nessuna corrente particolare, e di conseguenza da solo sposta un numero tutto sommato contenuto di iscritti (e quindi di voti, in vista della prima fase delle primarie). Con i capicorrente non ha un grande rapporto: li ha criticati spesso sui giornali e ancora giovedì in una lunga intervista a Otto e mezzo in cui si è fermato un passo prima dal candidarsi a segretario. Nessuno di loro sembra volerlo sostenere, tranne forse un pezzo di Base Riformista, la corrente degli ex renziani guidata da Lorenzo Guerini.

Bonaccini inoltre da settimane spiega che prima di pensare alle alleanze il PD dovrebbe ricostruire una linea politica autonoma, e solo in un secondo momento – dopo avere riguadagnato qualche consenso, quindi da una posizione di forza – capire a chi rivolgersi. Sono dichiarazioni molto lontane da quelle che fanno gli attuali capicorrente, ancora molto legati a un centrosinistra che tenga insieme molti partiti e partitini come ai tempi dell’Ulivo, la coalizione che andava dagli ex democristiani alla sinistra radicale che fra gli anni Novanta e Duemila affrontò il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi.

In tempi normali Bonaccini non sarebbe un candidato imbattibile, per via della notorietà tutto sommato contenuta e dei suoi scarsi appoggi fra capicorrenti e parlamentari. Un membro della direzione nazionale fa notare inoltre che Bonaccini è notoriamente favorevole a cedere una maggiore autonomia alle regioni più ricche, come la sua Emilia-Romagna. Una storica campagna della Lega per garantire maggiori entrate e poteri alle regioni che amministra al Nord. «Come fai a presentarti al Sud con questa proposta politica?», si chiede un membro della direzione nazionale.

Al momento però nessuno dei capicorrente ha trovato un candidato o una candidata da opporgli. In una prima fase si era parlato del vicesegretario Peppe Provenzano, che ha un discreto consenso nel partito al Sud e il teorico sostegno della corrente più a sinistra, guidata da Andrea Orlando. Ma una persona che lo conosce bene spiega che Provenzano potrebbe valutare di candidarsi, ma «non farà mai il candidato di una corrente o di una competizione che diventi una conta di tessere con accordi di signorotti locali». Insomma: Provenzano non sarebbe disponibile a rendere conto ai capicorrente.

Il nome di cui più si parla negli ultimi giorni è quello di Elly Schlein, ex parlamentare europea e attuale vicepresidente dell’Emilia-Romagna, scelta proprio da Bonaccini. Ha 37 anni, è nata a Lugano, in Svizzera, ma ha studiato a Bologna. Suo nonno materno era Agostino Viviani, partigiano e poi rispettato senatore del Partito Socialista.

Nel 2011 Schlein si laureò in giurisprudenza con una tesi sui detenuti stranieri nelle carceri italiane. Dopo una breve carriera come giornalista di cinema, nel 2013 diventò il volto più riconoscibile di OccupyPD, un movimento formato soprattutto da giovani attivisti del partito che si opponevano all’eventualità di un governo di «larghe intese» con il centrodestra. Schlein si fece notare a tal punto che riuscì a entrare nella direzione nazionale del partito, nella quota riservata alle persone vicine a Pippo Civati, e poi a candidarsi alle Europee: nel maggio del 2014 ottenne 53mila preferenze, una montagna di voti per una 29enne semisconosciuta. Un anno dopo lasciò il partito per aderire a Possibile di Pippo Civati, ma poi si sfilò anche da lì. Al termine del suo mandato da europarlamentare si è candidata con una lista di sinistra alle regionali in Emilia-Romagna dentro al centrosinistra, raccogliendo un risultato discreto (il 3,7 per cento dei voti). Dopo le elezioni, fu scelta un po’ a sorpresa da Bonaccini – che era diventato presidente – come sua vice.

Schlein ha un profilo diversissimo da tutti gli attuali dirigenti e volti noti del partito, che qualche giorno fa lo scrittore Francesco Piccolo ha definito malignamente «persone grigie e timorose, caute e pronte a spendersi soprattutto per una rivalità». Ha una retorica appassionata, tesi di sinistra ma non eccessivamente radicali, una solida storia di critica all’establishment del partito affiancata da esperienze da amministratrice ed europarlamentare. Due anni fa ha fatto coming out in un’intervista televisiva da Daria Bignardi.

Il suo problema principale è simile a quello di Bonaccini: non appartiene a nessuna corrente in particolare – i suoi rapporti con Orlando, per esempio, non sono buoni – e a livello nazionale negli iscritti al partito rischia di attrarre grandi simpatie ma pochi voti.

Elly Schlein (ANSA/FABIO FRUSTACI)

I capicorrente non la vedono di buon occhio, e anzi temono la sua popolarità «esterna» al partito, che si è costruita soprattutto sui social network e sui giornali. Due giorni dopo le elezioni, in un’intervista al Fatto Quotidiano Goffredo Bettini ha auspicato che il nuovo leader del PD sia «una persona di sostanza più che di immagine, formata sul campo e non inventata dai media». Dentro al partito questa sua uscita è stata interpretata come un attacco implicito a Schlein. Così come un recente tweet di Anna Ascani, sottosegretaria uscente allo Sviluppo economico e leader di una piccola corrente, Energia Democratica, secondo cui l’imminente congresso dovrebbe essere «davvero rifondativo»: «se pensiamo di cavarcela cercando uno/una che abbia l’X Factor non abbiamo capito molto».

Dalla sua parte però Schlein avrebbe il sostegno convinto del segretario uscente, Enrico Letta, che le ha dato grandissimo spazio nella campagna elettorale appena conclusa. Per esempio assegnandole il penultimo intervento, immediatamente prima del suo, al comizio finale della campagna elettorale a Roma. Nel discorso con cui ha annunciato che non sarà più segretario Letta ha detto di volere affidare il partito alle «nuove generazioni». Moltissimi l’hanno interpretata come una investitura proprio per Schlein.

Venerdì Letta in una lettera aperta agli iscritti ha annunciato che prima del congresso il partito manterrà aperte le iscrizioni «perché chi vuole partecipare a questa missione costituente, che parte dall’esperienza della lista “Italia Democratica e Progressista”, possa iscriversi ed essere protagonista in tutto e per tutto». Italia Democratica e Progressista è il nome che Letta ha scelto per la coalizione di centrosinistra del 2022 perché la parola “progressista” era presente nei nomi dei due movimenti che sono stati assorbiti nelle liste del PD: Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista, cioè quello di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza; e Coraggiosa Ecologista Progressista, il nome della lista con cui nel 2020 Schlein si presentò alle elezioni regionali in Emilia-Romagna. L’invito a iscriversi, quindi, sarebbe soprattutto rivolto a Schlein, che da quando uscì dal PD non ha più rinnovato la tessera.

Dentro al partito è molto evidente l’impressione che Letta stia apparecchiando un passaggio di consegne per Schlein, usando il capitale politico che gli rimane in quanto segretario uscente. Al momento non è chiaro se sarà sufficiente. Per Schlein valgono le stesse valutazioni fatte per Provenzano: difficilmente si presterebbe per fare la candidata di facciata dei capicorrente contro Bonaccini. Al contempo molti citano una sua proverbiale ritrosia e prudenza a non prendere mai decisioni particolarmente rischiose per la sua carriera politica. «Elly si candida solo se capisce che vince e che non sarà troppo impigliata da dinamiche interne», spiega un alto dirigente del PD che la conosce da molti anni.

Nessuno all’interno del partito pensa che da qui al 2023 possano emergere altre candidature forti. Mercoledì si è proposta l’ex ministra ai Trasporti Paola De Micheli. Nella sua vita politica è stata bersaniana durante la segreteria di Pier Luigi Bersani, renziana con Renzi, zingarettiana con Zingaretti. Oggi è considerata vicina a Letta. È stimata trasversalmente ma non ha un vero seguito. Non ha speranze di diventare segretaria, ma candidandosi per prima spera di raccogliere qualche consenso da offrire in un secondo momento a uno dei candidati più solidi, per ottenere qualcosa in cambio (un posto in segreteria? Un incarico da capogruppo in una commissione parlamentare?). Vale lo stesso discorso per candidature di cui si vocifera come quella del sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, o del sindaco di Firenze Dario Nardella.

È comunque ancora molto presto per capire che direzione prenderà il congresso. Prima che gli iscritti votino per i candidati segretari passeranno almeno due mesi: un lasso di tempo piuttosto lungo per la politica italiana, durante il quale possono cambiare moltissime cose. Nel frattempo ci si può limitare a cogliere piccoli segnali. Per esempio negli interventi dei membri alla direzione nazionale indetta da Letta per giovedì 6 ottobre.

Se la direzione darà mandato di avviare subito il congresso, significa che la macchina del partito sarà avviata a breve e che i potenziali avversari di Bonaccini avranno pochissimo tempo per candidarsi. «Se invece diversi interventi chiederanno una fase di ascolto e di riflessione, i tempi si allungheranno», spiega un membro della direzione, e quindi potrebbero profilarsi scenari più imprevedibili.