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  • Martedì 27 settembre 2022

Le “cucine fantasma” si aggirano per l’Europa

Con la pandemia si sono diffusi i ristoranti che lavorano solo sulle consegne a domicilio, e in alcuni paesi stanno creando problemi

Le cucine fantasma, dove si preparano piatti in vendita sulle piattaforme online (AP Photo/Teresa Crawford)
Le cucine fantasma, dove si preparano piatti in vendita sulle piattaforme online (AP Photo/Teresa Crawford)
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Uno degli effetti economici a lungo termine della pandemia è stata la grande crescita del settore del cosiddetto food delivery, la consegna a domicilio di cibo ordinato tramite un sito o un’app: crescita solo parzialmente rallentata dalla fine delle restrizioni. Gli importanti aumenti della richiesta e l’espansione del mercato non solo hanno spinto la gran parte dei ristoranti esistenti a dotarsi di strumenti per la consegna a domicilio, ma hanno anche comportato la nascita del fenomeno dei ristoranti “virtuali” che non hanno tavoli o sale, ma solo cucine in cui si preparano cibi destinati alla consegna a domicilio. Vengono definite dark kitchen o cucine fantasma (ghost kitchen): i due termini hanno in realtà significati leggermente diversi, ma tendono a sovrapporsi.

In alcuni paesi europei, come Regno Unito, Francia e Spagna, il fenomeno ha assunto dimensioni particolarmente importanti, causando dibatti e polemiche sulla natura giuridica di tali esercizi commerciali e lamentele da parte dei residenti che vivono nelle zone in cui è più alta la concentrazione di queste cucine, a volte di grandi dimensioni, da cui si riforniscono i rider che poi consegnano i piatti ai clienti finali.

Ne sono nate richieste di limitarle, di controllarle maggiormente o di permetterne l’installazione solo in zone industriali e non particolarmente abitate. Richieste a cui i gestori del nuovo mercato ovviamente si oppongono e che vedono risposte diverse non solo da differenti governi nazionali, ma anche da specifiche amministrazioni locali.

In Italia i “ristoranti virtuali” sono inquadrati come “Ristorazione senza somministrazione con preparazione di cibi da asporto” ed equiparati a rosticcerie, pizzerie al taglio e tutti gli esercizi che non abbiano posti a sedere. Non fa differenza che siano aperti anche a un pubblico fisico (che può ordinare in loco) o siano riservati al commercio online, come accade più spesso.

E se le dark kitchen e le cucine fantasma in Francia e Spagna (ma non solo) hanno portato ad un ampio dibattito e alla creazione di comitati di cittadini, in Italia non si segnalano al momento grandi questioni “politiche”, con l’eccezione di quelle pregresse legate all’utilizzo di lavoratori sottopagati o inquadrati in categorie non consone, come peraltro però succede anche in ristoranti, bar e locali classici. Esistono però difficoltà legate alla sostenibilità economica e, almeno in alcuni casi, questioni legate alla qualità e rintracciabilità dei marchi online.

I ristoranti virtuali sono nati intorno al 2017, e hanno assunto dimensioni importanti prima nei paesi anglosassoni, poi anche in Italia. Per dark kitchen si intendono cucine parallele di ristoranti già esistenti, che aprono linee dedicate all’asporto e alla consegna a domicilio; per ghost kitchen o cucine fantasma luoghi in cui vengono cucinati piatti di catene esistenti solo sul mercato del delivery. A queste due tipologie si aggiungono le cloud kitchen, spazi creati da società di servizi per ospitare diversi ristoranti virtuali: il ristoratore può affittare locali, strumenti e servizi online e offline.

– Leggi anche: I ristoranti fatti di sole cucine

La questione delle dark kitchen (e più in generale dei dark store, i magazzini da cui prelevano i beni gli operatori di spese a domicilio in pochi minuti) nelle ultime settimane è stata al centro di uno scontro istituzionale in Francia, quando il vice-sindaco di Parigi Emmanuel Grégoire ha chiesto conto al governo di un progetto di legge che definirebbe cucine e depositi per commercio online come luoghi di “vendita al dettaglio” e non “vendita all’ingrosso”, come invece le considerano a Parigi.

La misura di fatto vanificherebbe le battaglie che alcune amministrazioni comunali su pressione dei cittadini stanno portando avanti per limitare lo sviluppo di questo genere di esercizi commerciali. A Parigi e in altre città francesi le avevano collocate nella categoria dei “magazzini”, con conseguenti limitazioni giuridiche.

Alcune delle principali città europee temono che i ristoranti virtuali finiscano per riproporre i problemi nati con il successo delle piattaforme per affitti brevi, tipo Airbnb: impoverimento delle reti commerciali dei quartieri, un peggioramento della vita per i residenti storici, profitti concentrati per poche società con sedi all’estero.

L’amministrazione parigina in questi mesi aveva attuato una politica molto più rigida che in passato, chiudendo alcune delle cucine e dei negozi virtuali nei quartieri più centrali, dove non è permessa la “vendita all’ingrosso”, e multandone altri. Barcellona ha sospeso le licenze per le cucine fantasma già dal marzo 2021, dopo alcune mobilitazioni di comitati locali. Un anno dopo il municipio ha deciso di limitare anche il numero di bar e ristoranti tradizionali, di fatto bloccando la concessione di ogni nuova licenza: la città catalana ha un problema di sovrabbondanza di questo genere di esercizi commerciali in rapporto agli altri settori.

La stessa dinamica, riguardo ai ristoranti virtuali, si sta riproponendo a Madrid: gruppi di residenti che vivono nelle vicinanze di grandi cucine fantasma creano comitati per denunciare i problemi derivanti da queste attività: fumo costante, persistenti cattivi odori, aumento del traffico di auto e moto per le consegne, “bivacco” dei rider in attesa.

Un nuovo piano municipale, in via di approvazione, definisce che le cucine non possano avere dimensioni superiori ai 350 metri quadrati, che non possano avere più di 8 piani cottura e che le strutture debbano essere collocate in zone industriali, mai contigue ad abitazioni, in vie larghe almeno 25 metri e a distanza di almeno 400 metri da imprese simili. Amsterdam concede licenze solo in zone industriali, mentre a Segovia rider e imprese di delivery denunciano un trattamento vessatorio da parte della polizia municipale.

In questo contesto in Italia, in confronto, i problemi di convivenza sembrano per il momento più limitati.

Il mercato della consegna di cibo a domicilio in Italia nel 2021 valeva 1,2 miliardi di euro, con 500 milioni relativi solo al commercio attraverso piattaforme. Nel 2022 i risultati dovrebbero essere in lievissima diminuzione, con risalita prevista nel 2023: rispetto al panorama mondiale è più alta la quota del mercato riservato alle consegne effettuate direttamente dai ristoranti, mentre le ordinazioni vengono ancora gestite in larga misura offline, cioè al telefono o direttamente.

Le dark kitchen sono regolate diversamente nelle grandi città europee (AP Photo/Mindaugas Kulbis)

Il comparto della ristorazione virtuale è però attivo e in crescita, con Milano in testa (da sola valeva il 35 per cento del giro d’affari italiano del delivery nel 2020), ma non più caso isolato. Roma, Palermo, Napoli, Bologna sono centri attivi di questo tipo di mercato. Glovo, società spagnola che in Italia è fra le quattro compagnie dalla quota di mercato più ampia (Just Eat è la principale, Deliveroo e Uber Eats hanno quote simili) ha scelto Torino per l’apertura del suo primo Food Corner, una cloud kitchen che può ospitare fino a 15 diversi ristoranti virtuali (oggi sono cinque).

I maggiori centri e anche qualche città di provincia ospitano oggi sedi di dark e ghost kitchen, anche se una mappatura non può essere organica perché, come detto, per la Camera di Commercio rientrano nella categoria più ampia della “Ristorazione senza somministrazione con preparazione di cibi da asporto”. Una stima condivisa dagli esperti è che i ristoratori virtuali operanti in modo più o meno stabile in Italia non siano più di 200, anche se le aperture e chiusure sono state molte di più.

Andrea Roberto Bifulco, co-fondatore di Ktchn Lab, una delle prime società a creare e gestire ristoranti virtuali, dice che «nel caso delle prime aperture venivamo accolti dal vicinato come qualcosa di divertente, oggi forse c’è qualche diffidenza e preoccupazione in più, ma i problemi si evitano con alcune accortezze in fase di pianificazione».

Una delle differenze principali rispetto all’estero è una regolamentazione più stretta e più definita già presente in origine, seppur con molte variazioni da città a città. Bifulco spiega: «All’estero spesso si parte da una de-regolamentazione totale: a New York ho visto un parcheggio completamente trasformato in sede per cucine fantasma, con impatto immaginabile nei dintorni a livello di fumi, odori e traffico». La crescita delle aziende del settore in Italia è stata poi più graduale, permettendo correzioni in corsa e traendo insegnamenti dai problemi e dalle vertenze scoppiate all’estero.

Il contesto italiano, fatto di regole locali molto stringenti, burocrazia da espletare e profittabilità più bassa rispetto ad alcuni mercati esteri, ha evitato una crescita veloce del fenomeno, limitando quindi anche i contenziosi e favorendo la nascita soprattutto di piccole e medie imprese. All’estero, sia grazie agli interventi di grosse catene, sia per una maggiore facilità a reperire fondi e finanziamenti, le aziende e le startup assumevano dimensioni maggiori in tempi più ristretti.

Dal punto di vista di chi vorrebbe aprirne, in Italia c’è una maggiore difficoltà a rendere economicamente redditizie le startup nel settore: non solo per il regime fiscale sul lavoro (chi ha la doppia esperienza fra Italia e Spagna parla di una differenza stimabile nel 25 per cento) e per la maggiore difficoltà a ottenere finanziamenti, ma anche per le commissioni più alte sulle piattaforme. Ogni ristorante virtuale che voglia comparire sulle maggiori piattaforme (condizione indispensabile per questo genere di attività) deve garantire una commissione vicina al 30 per cento dei ricavi. In altre nazioni europee, dove le grandi compagnie sono nate e dove i mercati sono talvolta più ampi, possono essere minori.

Questa quota, che si aggiunge alle spese tradizionali, rende la sostenibilità economica complessa. Michele Ardoni, amministratore delegato di Dynamic Food Brands, società che progetta, sviluppa e gestisce ristoranti virtuali per il food delivery, dice: «Considerato uno scontrino emesso da, poniamo, dieci euro, il 30 per cento è rappresentato dal costo delle materie prime, altrettanto dal costo del lavoro, qualcosa di più dalle commissioni per le piattaforme. Siamo già oltre al 90 per cento, e mancano un necessario investimento in marketing, almeno il 5 per cento, e le spese fisse come affitto e utenze. Fare profitti per un brand solo virtuale è difficile». Diverso è il discorso nel caso delle dark kitchen, in cui le spese fisse e del costo del lavoro vengono divise con quelle del ristorante reale.

La presenza di brand virtuali che lavorino solo online è invece utile per le piattaforme, che così evitano i problemi di relazioni con gli esercizi fisici, che devono necessariamente far convivere le esigenze delle consegne con quelle della ristorazione classica. Le ghost kitchen possono nascere proprio su spinta delle piattaforme, che basandosi sui dati raccolti (un fattore centrale anche in questo settore) possono individuare uno spazio potenzialmente redditizio, ad esempio, per una cucina che prepari poke in un particolare quartiere in cui la richiesta risulta alta.

Altre volte i marchi virtuali, spiega sempre Ardoni, nascono come cucine parallele di ristoranti avviati, che però preferiscono non esporsi direttamente nel campo del delivery, dove il mantenimento degli standard di qualità non è sempre controllabile (anche solo per i problemi che possono comportare i tempi di consegna). Rinunciano così a comparire con il loro nome e a mettere a rischio la loro reputazione: «Così magari nel ristorante fisico fanno pizze, mentre online hamburger: ammortizzano i costi delle cucine e della forza lavoro, senza mettere in gioco il loro “core business”».

Queste strategie implicano in alcuni casi problemi sulla qualità, secondo Ardoni: «Con i brand virtuali, che possono nascere e chiudere e poi riaprire con altro nome in tempi ridotti, ci sono meno sicurezze sulla qualità delle materie prime e dei processi». Viene a mancare, insomma, la certificazione implicita che può garantire la crescita di un ristorante fisico, che in caso di mancato rispetto di alti standard il cliente punirebbe lasciando i suoi tavoli largamente vuoti.

Una delle condizioni più importanti da rispettare per i ristoranti virtuali è inoltre un’alta efficienza: molte delle lamentele dei residenti delle zone in cui operano le dark kitchen sono spesso legate alla presenza contemporanea e prolungata di rider in attesa, che finiscono con l’occupare i marciapiedi. Bisogna ridurre al massimo i tempi di attesa o prevedere zone specifiche per le persone che aspettano di ritirare i pasti da consegnare.

Un rider in attesa all’esterno di una pizzeria a Milano (AP Photo/Luca Bruno)

Nel caso del Food Corner inaugurato da Glovo nel quartiere Pozzo Strada di Torino, non centrale ma nemmeno eccessivamente periferico, è stato ad esempio previsto uno spazio per l’attesa dei rider interno alla struttura. L’azienda ha cloud kitchen simili in Spagna, Romania, Georgia e Ucraina, ma a Madrid a inizio luglio ha dovuto chiudere una sua struttura in seguito a proteste e alla scoperta di condizioni di lavoro non regolari. Nei progetti il sito di Torino dovrebbe essere il primo di molti simili in Italia. Per renderlo meno “dark” e “fantasma” è prevista la possibilità di ordine e asporto sul posto per i clienti finali. Le ampie dimensioni, 870 metri quadrati di superficie totale, ovviano a un possibile problema di cloud kitchen più piccole, quello della contaminazione fra vari tipi di alimenti.

Tutte queste cucine, come ogni locale pubblico tradizionale, devono rispettare le normative vigenti definite per le attività che si occupano di manipolazione degli alimenti in rapporto a pulizia, sicurezza e spazi. Dovrà essere presentata una SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) sanitaria,  l’attestazione che certifichi il possesso dei requisiti e che contenga le informazioni riguardanti lo stabilimento, la sua produzione, e i materiali e i prodotti utilizzati a contatto con gli alimenti. Il personale dovrà essere in possesso di un attestato Haccp (“analisi dei rischi e punti critici di controllo”), che si ottiene al termine di un corso focalizzato sul rispetto del norme igieniche. I gestori delle cucine fantasma parlano di controlli delle ASL (aziende sanitarie locali) che possono essere frequenti, soprattutto nelle fasi iniziali.

Anche in Italia le dark e ghost kitchen sono state oggetto di denunce sindacali riguardo alle condizioni di lavoro: orari superiori a quelli ufficialmente dichiarati, retribuzioni basse, precariato e ricorso al lavoro nero. Sono violazioni delle leggi e dei contratti che secondo i critici sarebbero favorite dall’inaccessibilità dei locali in cui si lavora e dai contatti inesistenti o ridotti al minimo con il pubblico. Le stesse denunce riguardano spesso anche ristoranti e locali tradizionali, le cui cucine possono essere altrettanto “nascoste” al pubblico.