Il ritiro dei ghiacci ci può insegnare delle cose sul nostro passato

Il cambiamento climatico favorisce l'archeologia dei ghiacciai, iniziata con lo straordinario ritrovamento di Ötzi, più di trent'anni fa

Il ritrovamento di uno sci di 1.300 anni da parte degli archeologi Espen Finstad, a sinistra, e Julian Post-Melbye, nell'ice patch di Digervarden, in Norvegia, nel 2018 (Andreas Christoffer Nilsson, secretsoftheice.com)
Il ritrovamento di uno sci di 1.300 anni da parte degli archeologi Espen Finstad, a sinistra, e Julian Post-Melbye, nell'ice patch di Digervarden, in Norvegia, nel 2018 (Andreas Christoffer Nilsson, secretsoftheice.com)
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C’è un campo di studi per cui il progressivo ritiro dei ghiacciai e scioglimento dei ghiacci di alta montagna ha un lato positivo, cioè permette di fare nuove scoperte: è la cosiddetta archeologia dei ghiacciai, dedicata ai resti di civiltà del passato conservati da ghiacci e nevi. È un ambito di ricerca abbastanza nuovo che si è sviluppato dopo il 1991, quando avvenne lo straordinario ritrovamento del corpo mummificato di un uomo vissuto più di 5.300 anni fa nel ghiacciaio della Val Senales, al confine tra Italia e Austria: quello poi diventato noto come Ötzi.

«Svegliò gli archeologi», ha spiegato Andreas Putzer, archeologo e curatore del Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, dove la mummia è conservata: «Prima si era convinti che in epoca preistorica l’uomo non sfruttasse le zone alpine ad altitudini come quella a cui fu ritrovato, circa 3.200 metri». Ma più in generale la scoperta di Ötzi, importantissima per la gran quantità di informazioni che ci ha fornito sull’Età del Rame e non solo, ha suggerito a molti altri studiosi che si potessero fare altri importanti ritrovamenti in ambienti fino a quel momento poco considerati dall’archeologia.

Anzitutto con l’espressione “archeologia dei ghiacciai” non si intende il ritrovamento di reperti antichi dentro o sotto i ghiacciai, perché qualunque cosa ci finisca viene inevitabilmente stritolata e distrutta col passare del tempo: i ghiacciai sono infatti fiumi di ghiaccio e si muovono incessantemente, anche se lentamente. I ritrovamenti avvengono invece in quelli che in inglese sono chiamati “ice patches”, banchi di ghiaccio e neve perenni (alcuni si sono formati anche con nevicate di 10mila anni fa) che invece sono stabili: di solito si trovano in zone pianeggianti isolate o all’ombra della cima di una montagna, e possono essere spessi qualche decina di metri.

Il caso di Ötzi potrebbe sembrare un’eccezione, dato che la mummia venne trovata nel ghiacciaio del Similaun: in realtà si deve la sua conservazione alla particolarità del punto esatto in cui venne trovato, una specie di canale roccioso in cui il ghiaccio era stabile.

Gli scavi nel sito del ritrovamento di Ötzi nel 1992 (Museo Archeologico dell’Alto Adige)

Gli oggetti persi nella neve sopra un ice patch non solo vengono mantenuti nel ghiaccio senza essere distrutti da movimenti glaciali, ma sono conservati nel punto esatto in cui furono smarriti, cosa che fornisce ulteriori informazioni agli archeologi che li trovano. Ad esempio possono dirci come veniva frequentata una certa area in passato.

«Solitamente i nostri antenati non si fermavano sui ghiacciai», ha raccontato Putzer, chiarendo uno dei vari aspetti per cui Ötzi è effettivamente eccezionale, «e di solito i ritrovamenti avvengono in zone protette, dove è possibile fermarsi e anche oggi ci si può fermare per riposare, mangiare o godersi il panorama. Luoghi di sosta insomma».

In regioni meno impervie delle Alpi gli ice patch in cui avvengono i ritrovamenti sono spesso antichi terreni di caccia. È così nelle montagne dell’Oppland, nel sud della Norvegia, dove negli ultimi anni sono state trovate tantissime armi usate per la caccia alle renne e varie altre cose: ad esempio una scarpa di cuoio del 1.300 a.C., una tunica di lana risalente al 300 o 400 d.C., uno sci del 700 d.C. In un unico sito, a Langfonne, nelle montagne Jotunheimen, sono state trovate 68 frecce.

Una freccia di 1300 anni emersa dal ghiaccio a Langfonne (Programma di archeologia dei ghiacciai del Consiglio della contea di Innlandet)

La scarpa fu il primo reperto importante: venne trovata nel 2006 da un falegname di Lom (paesino con poco più di duemila abitanti) durante un’escursione vicino al ghiacciaio di Lendbreen. Gli archeologi che la analizzarono si chiesero se potessero esserci altre cose nascoste sotto il ghiaccio e, dato che l’estate del 2006 fu particolarmente calda nell’Oppland, se potessero essere a rischio di deperimento.

I manufatti e i resti umani e animali conservati dal ghiaccio infatti si possono deteriorare velocemente una volta esposti all’aria e alla luce; vale in particolare per i tessuti e gli oggetti di pelle, che infatti in musei come quello di Bolzano sono mantenuti in teche refrigerate.

Da allora, per via del rischio di perdere resti importanti, ogni anno tra la fine di agosto e quella di settembre, quando è più facile avventurarsi sulle montagne norvegesi, gruppi di studiosi fanno ricerche sugli ice patch della regione. Nel tempo sono stati trovati migliaia di oggetti, più che in tutte le altre zone del mondo dove si può fare archeologia dei ghiacciai.

Nel 2020 l’archeologo norvegese Lars Pilø, curatore del sito Secrets of the Ice, aveva raccontato al Guardian che i ritrovamenti migliori per lui sono quelli per cui è più facile provare un senso di connessione con le persone del passato: ad esempio nel 2011 gli capitò di trovare una freccia molto piccola, diversa dalle altre, che si scoprì essere una freccia giocattolo.

Lo stesso anno trovò un utensile di legno di ginepro di circa 10 centimetri, risalente al 1080: pensò fosse un ago e lo fece esporre come tale in una mostra. Una visitatrice però si avvicinò a lui per dirgli che non era così: da bambina, nella fattoria del padre, usava un oggetto identico come morso per i vitelli e le giovani capre, quando si voleva evitare che prendessero il latte dalle madri. Anche ai tempi della sua infanzia si usava il ginepro per questo genere di strumento.

Il ritrovamento della tunica di lana è stato particolarmente rilevante perché sono pochi gli abiti di quell’epoca che si sono conservati fino a oggi. Una delle ipotesi sul perché venne abbandonato nella neve è che fosse indossato da una persona che morì di ipotermia: nella fase finale di questa condizione si prova un senso di calore molto intenso e l’istinto a spogliarsi.

L’archeologia dei ghiacciai si pratica anche in altre parti del mondo: nello Yukon, in Canada, e nella catena montuosa dell’Altai in Mongolia, dove negli ultimi due decenni le temperature estive sono aumentate di 1,5 °C, più della media globale, e hanno cominciato a fondere masse di ghiaccio che non lo avevano mai fatto prima a memoria umana.

Nick Jarman, uno degli archeologi che lavorano in Mongolia, ha definito i propri studi «archeologia di salvataggio», parlando con il Guardian: «Stiamo mettendo in salvo degli oggetti che, se non siamo pronti a recuperare e raccogliere, spariranno in un anno o due». Il suo collega William Taylor ha sottolineato che è «una svolta interessante» il fatto che «il cambiamento climatico ci stia fornendo delle informazioni importanti sulla relazione tra le persone e il clima nel lontano passato». Nelle zone dove i ghiacci stanno sparendo più velocemente, come le Alpi, le ricerche sono particolarmente urgenti.

Tuttavia sulle nostre montagne gli studi archeologici non vengono fatti in modo sistematico. Al contrario, ci si deve affidare soprattutto alle segnalazioni di escursionisti e alpinisti, a cui periodicamente viene ricordato di rivolgersi alle soprintendenze dei beni culturali nel caso in cui vengano avvistati possibili oggetti antichi nel ghiaccio.

«Gli archeologi di solito arrivano per secondi», ha detto Putzer, precisando che la ragione per cui l’archeologia dei ghiacciai sulle montagne italiane ha alcuni limiti non è la mancanza di fondi per le ricerche («anche se mancano sempre»), ma che «l’arco alpino è così grande che ha più senso concentrarsi nelle zone dove sono già stati segnalati dei reperti». Per questo la collaborazione con gli alpinisti e gli escursionisti è importante.

Oltre allo stesso Ötzi, che fu trovato da due coniugi tedeschi originari di Norimberga, molti oggetti antichi sono stati trovati sulle Alpi da persone comuni. Alcuni peraltro erano stati portati via da chi li aveva rinvenuti, che non aveva pensato che potessero avere un valore archeologico.

È successo ad esempio con una racchetta da neve (o ciaspola) di circa 5.800 anni fa. Venne trovata nell’agosto del 2003 da Simone Bartolini, cartografo dell’Istituto geografico militare di Firenze, sul ghiacciaio di Bocchetta Gelata nel comune di Senales. Bartolini non pensò di avere a che fare con un oggetto tanto antico e la portò a Firenze; solo nel 2015, dopo aver visitato una mostra sull’archeologia dei ghiacciai a Bolzano, si rese conto del possibile valore della ciaspola e la consegnò al Museo.

Ha una storia simile anche una statuetta di legno risalente al II o al I secolo a.C., caratterizzata dall’espressione imbronciata della figura che rappresenta. Venne trovata nell’agosto del 1999 da Mauro Ferrini, un operaio torinese, nelle vicinanze del Col Collon, al confine tra la Valle d’Aosta e il Canton Vallese, in Svizzera. Solo nel 2017, e grazie all’intervento dell’ex compagna di Ferrini, che ricordava la statuetta e aveva notato la somiglianza con un altro reperto simile del cui ritrovamento avevano parlato i giornali, l’oggetto è stato analizzato dagli archeologi, che l’hanno datato.

Nel 2014 il Museo di Bolzano ha diffuso delle linee guida su come comportarsi in caso di ritrovamenti:

In caso di grossi oggetti: Lasci per favore il reperto lì dove l’ha trovato, segnalandone la posizione o segnandola su una cartina.

Con oggetti più piccoli:
– Se sussiste un immediato pericolo per l’oggetto (a causa del maltempo, del calpestamento, ecc.), lo sistemi con cautela e lo porti con sé. Segni con chiarezza il luogo di ritrovamento, perché lo si possa ritrovare facilmente.
– Se non sussiste un’immediata minaccia per l’oggetto, lo lasci sul posto segnalandone la posizione o segnandola su una cartina.

Fotografi nel miglior modo possibile l’oggetto e il luogo di ritrovamento o ne esegua uno schizzo.

Attenzione in caso di relitti bellici: non vanno toccati per alcun motivo, c’è il pericolo di ferirsi.

I reperti archeologici dovrebbero essere recuperati da inesperti solo in caso di necessità. Infatti, la posizione originaria del reperto spesso ha un’importanza scientifica eccezionale. Inoltre c’è il rischio che un recupero frettoloso e improvvisato danneggi il reperto.

A chi segnalare il ritrovamento: I reperti sono beni pubblici e perciò bisogna comunicare il loro ritrovamento contattando l’Ufficio provinciale Beni archeologici, il Comune o i Carabinieri.

Avendo con sé uno smartphone si può inoltre segnare con precisione la posizione del ritrovamento grazie al GPS, per facilitare il successivo lavoro degli archeologi. Anche in Italia il periodo in cui si svolgono le ricerche sul campo è compreso tra la fine di agosto e settembre: è il momento in cui i ghiacci raggiungono il massimo grado di fusione – anche Ötzi fu trovato a settembre – e si possono analizzare meglio.