Negli Stati Uniti e in Europa non c’è la stessa inflazione

Ed è il motivo per cui le due banche centrali, quella americana e quella europea, stanno adottando strategie diverse

di Mariasole Lisciandro

La direttrice della BCE, Christine Lagarde, e il direttore della FED, Jerome Powell (AP Photo/Jose Luis Magana)
La direttrice della BCE, Christine Lagarde, e il direttore della FED, Jerome Powell (AP Photo/Jose Luis Magana)
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Negli ultimi mesi, e in tutto il mondo, i prezzi sono aumentati in maniera significativa, a causa prima della pandemia e poi della guerra in Ucraina. Lo si vede dall’aumento dell’inflazione, il parametro che misura le variazioni dei prezzi di un insieme di prodotti e servizi rappresentativo del costo medio della vita. Sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea si stanno registrando tassi di inflazione che non si vedevano da moltissimi anni e che stanno indebolendo il potere di acquisto delle famiglie. Le rispettive banche centrali, la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea, stanno intervenendo, ma in modo molto diverso perché i motivi dell’aumento dei prezzi non sono gli stessi in America e in Europa.

A luglio, l’inflazione nell’area dei paesi che adottano l’euro (la cosiddetta “Eurozona”) ha registrato un +8,9% su base annua, il tasso più alto da quando esiste l’euro (e un nuovo record dopo quello di giugno del +8,6%). In pratica vuol dire che se un bene lo scorso luglio costava 100 euro, oggi ne costa 108,9. Questo valore è una media: ci sono paesi che hanno superato il 20%, come l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, altri hanno registrato un dato sopra il 10%, come la Grecia, la Spagna e il Belgio, e altri sono rimasti sotto questa soglia, come l’Italia (+7,9%, in lieve rallentamento dal +8 del mese precedente), la Germania (+8,5%) e la Francia (+6,8%).

Anche negli Stati Uniti l’inflazione è cresciuta molto: è arrivata al +9,1% a giugno, mai così alta da 40 anni.

Cos’è l’inflazione e quali sono le cause
Come detto, l’inflazione rappresenta un aumento generalizzato del livello dei prezzi. Viene misurata periodicamente dagli istituti di statistica, che monitorano i prezzi dei beni e dei servizi più acquistati dal consumatore medio e che sono rappresentativi del costo della vita. Si parla del cosiddetto “paniere di riferimento”, che periodicamente viene aggiornato dagli istituti di statistica per tenere conto dei cambiamenti culturali nei consumi.

In Italia l’ISTAT lo aggiorna ogni anno: per esempio nel 2022 sono entrati beni che prima della pandemia conoscevamo poco o non conoscevamo affatto, come i tamponi fai da te e il poke d’asporto (un piatto a base di riso e pesce crudo tipico delle Hawaii, che significa “tagliato a pezzi” e che è diventato molto consumato nelle pause pranzo di chi lavora nelle grandi città).

Quando è su livelli moderati, l’inflazione è una componente sana delle tradizionali dinamiche di mercato.

L’aumento dei prezzi è normalmente associato a un’economia che va bene: senza complicare troppo le cose, si può dire che un’economia che cresce è quella in cui le aziende producono a un ritmo che impiega tanti lavoratori. C’è quindi poca disoccupazione e i salari sono in costante aumento proprio perché non ci sono molti lavoratori disoccupati e disposti a lavorare a fronte di una retribuzione bassa.

Con salari in crescita, cresce anche il costo per produrre beni e servizi; aumentano quindi i prezzi a cui le aziende vendono beni e servizi al consumatore finale, che allo stesso tempo guadagna uno stipendio sempre più alto. È un circolo virtuoso, che resta tale fino a che l’economia si “surriscalda” e i consumatori iniziano a domandare più beni e servizi di quanto le aziende siano in grado di produrre.

A questo punto si osserva quasi sempre un’inflazione oltre la media; ed è un problema, perché durante le fasi inflattive non tutti i prezzi e i salari aumentano allo stesso modo. Per esempio, in molti paesi i pensionati ricevono un assegno non legato all’aumento dei prezzi e quando l’inflazione è alta perdono potere d’acquisto. Allo stesso modo, la maggior parte degli stipendi non si adegua automaticamente e istantaneamente all’aumentare del costo della vita. Inoltre, le variazioni eccessive dei prezzi creano un clima di maggior incertezza generale, rendendo più difficile anche per le imprese prendere decisioni sul futuro.

Per evitare o limitare questo tipo di distorsioni, le banche centrali adottano delle politiche cercando di normalizzare l’economia e rallentare l’aumento dell’inflazione.

Lo strumento tradizionalmente usato è l’aumento dei tassi di interesse di riferimento. I tassi di interesse sono banalmente il prezzo del denaro: per prendere a prestito 100 euro da una banca, questa chiederà il pagamento di un tasso di interesse, quindi di un prezzo. I tassi di interesse di riferimento sono stabiliti dalle banche centrali. Se questi aumentano, prendere soldi a prestito diventerà meno conveniente: con tassi di interesse più alti si faranno meno mutui per comprare case, quindi se ne costruiranno di meno e ci saranno meno lavori di ristrutturazione, ci sarà meno bisogno di operai e alcuni di loro perderanno il lavoro. Quelli che perderanno il lavoro inizieranno a consumare meno, ed ecco che l’economia inizierà a rallentare verso un nuovo punto di equilibrio.

Questa è una normale dinamica dell’inflazione da domanda, che origina da sempre maggiori consumi, ma i prezzi possono aumentare anche per altre cause.

Se per svariati motivi produrre beni e servizi costa di più, si parla di inflazione dal lato dell’offerta. Per esempio, la pandemia aveva già reso più caro per le aziende reperire le materie prime necessarie alla produzione (si pensi al caso dei microchip e della carta).

La guerra in Ucraina ha poi peggiorato la situazione, soprattutto facendo aumentare enormemente il costo dell’energia e del gas. Infatti la Russia, che è il secondo produttore di gas naturale al mondo, ha costantemente ridotto le sue esportazioni di gas in risposta alle sanzioni inflitte dall’Occidente. La riduzione ha colpito soprattutto l’Europa, che importava il 40% del suo gas dalla Russia; al contrario, gli Stati Uniti sono più indipendenti a livello energetico e non ne hanno risentito troppo.

L’inflazione che osserviamo in questi mesi è un misto: c’è sicuramente una componente legata a un’economia che corre, dopo l’enorme rallentamento imposto dalle restrizioni dovute alla pandemia da coronavirus, ma c’è anche un’inflazione dal lato dell’offerta, dovuta soprattutto all’aumento dei prezzi dell’energia.

Per capire quanto pesano le due cause, e soprattutto per capire quanto sia diventato ormai strutturale l’aumento dei prezzi, si monitora la cosiddetta “inflazione di fondo”: si ottiene togliendo dall’inflazione complessiva la componente più volatile dei prezzi, ossia quella legata all’energia e ai beni alimentari, due mercati molto suscettibili a movimenti improvvisi.

L’inflazione di fondo nell’area dell’euro è pari al 5%, contro un dato complessivo dell’8,9%; negli Stati Uniti l’inflazione di fondo è pari al 7,2%, a fronte di un dato complessivo del 9,1%.

Significa che l’aumento del costo dell’energia e dei beni alimentari spiega quasi la metà dell’inflazione europea, mentre solo un quinto di quella statunitense. Se ne deduce che nell’area dell’euro ci troviamo di fronte a un’inflazione perlopiù da offerta, mentre negli Stati Uniti si tratta ormai di una classica inflazione da domanda ben radicata nell’economia.

Cosa stanno facendo le banche centrali
Questa differenza è fondamentale per capire come le banche centrali decidono di agire di fronte all’inflazione.

Un’inflazione da offerta non si può combattere alzando i tassi di interesse, perché non c’è bisogno di rallentare l’economia; lo si fa cercando di “sterilizzare” la componente che più sta facendo aumentare i prezzi. C’è infatti il rischio che un rialzo prematuro e veloce dei tassi provochi una frenata economica eccessivamente brusca o profonda, fino ad arrivare alla recessione. È un rischio che si fa più concreto nel caso in cui l’inflazione sia passeggera, o comunque non così sistemica.

Ecco perché la Federal Reserve americana (FED) e la Banca centrale europea (BCE) hanno deciso di attuare politiche differenti.

La FED ha iniziato da mesi ad alzare i propri tassi d’interesse e lo sta facendo in maniera molto più rapida e aggressiva del previsto; il Prodotto Interno Lordo (PIL) degli Stati Uniti sta già calando da due trimestri, peraltro. La BCE ha annunciato solo il 21 luglio il primo rialzo, dopo che nel frattempo aveva riassorbito la politica di acquisti massicci di titoli di stato avviata durante la pandemia. La BCE scommette sul fatto che l’inflazione europea, proprio perché maggiormente guidata dai prezzi dell’energia, sia meno strutturale di quella americana, e che quindi il rischio di alzare i tassi troppo presto sia molto più concreto.

La differenza tra i due approcci serve anche a capire come mai nei negoziati internazionali l’Italia abbia spinto molto per avviare una discussione su un tetto al prezzo di gas e petrolio. Se i governi riuscissero a calmierare il prezzo dell’energia, sterilizzerebbero di fatto una parte consistente dell’inflazione.