Poke is-the-new Sushi

Da qualche anno è il piatto nuovo che a Milano si è diffuso di più: il nome sta diventando familiare, nel resto d'Italia è ancora molto ignorato

Come vedete dall’immagine qui sopra, ci sono sei diversi locali nel centro di Milano che compaiono a una ricerca sulle mappe di Google per “poke”: ce ne sono poi decine che servono cose diverse ma che hanno il poke nei loro menu e nuovi se ne aggiungono con frequenza. E il termine e il piatto sono diventati una cosa familiare per molti milanesi (fuori dalla redazione del Post c’è una fila in strada ogni giorno a pranzo, di avventori in attesa di ritirare il loro poke), e intanto – comprensibilmente – quasi tutto il resto del paese ignora del tutto di cosa si tratti (benché in alcune città cominci ad apparire). Ecco, per farla breve, negli ultimi anni a Milano il poke sta diventando quello che era il sushi negli anni Novanta: il piatto orientale emergente.

Per farla un po’ più lunga e chiara, invece: il poke (che si pronuncia qualcosa come poh-key) è un piatto di pesce crudo tipico delle Hawaii e significa “tagliato a pezzi”. Era mangiato da secoli dagli abitanti polinesiani prima dell’arrivo dei britannici, nel XVIII secolo: pescavano il pesce lungo la barriera corallina, toglievano la pelle, lo tagliavano a pezzettoni e lo condivano con sale e alghe. Di base, il nostro poke ripropone la stessa formula, con alcune modifiche e aggiunte avvenute nel tempo: quel pesce piuttosto scialbo è stato sostituito da varietà più pregiate e gli vengono aggiunti riso e i più vari ingredienti e condimenti, che lo hanno fatto apprezzare prima negli Stati Uniti e da alcuni anni nelle maggiori città europee.

Poke di tonno servito a una festa dei Repubblicani nel Campidoglio degli Stati Uniti, Washington DC, marzo 2012
(Tom Williams/CQ Roll Call via AP Images)

La trasformazione “contemporanea” del poke iniziò alle Hawaii negli anni Settanta, favorita anche da una forte immigrazione di giapponesi abituati a mangiare pesce crudo e riso. Preparavano le loro versioni con il tonno pinna gialla, più bello a vedersi del pesce bianchiccio tradizionale, o con il polpo, marinandoli o condendoli con salsa di soia e olio di sesamo. La mutazione definitiva avvenne però negli Stati Uniti, dove cominciò a diffondersi nel 2012, naturalmente dapprima sulla costa Ovest. In pochi anni aprì un ristorante hawaiano dietro l’altro – nel 2016 ce n’erano almeno 700 – ognuno con le sue versioni di poke. Il successo maggiore ce l’hanno oggi i locali che permettono ai clienti di assemblare il proprio poke: su una base di riso (ma anche insalata, in alcuni casi) si sceglie la varietà di pesce preferita – tonno, polpo, salmone, cozze, gamberi (ok, cozze, polpo e gamberi non sono pesci) – e si aggiungono i condimenti e gli ingredienti, spesso esotici, come edamame, alghe, avocado, ananas, mango, soia, salsa ponzu o teriyaki, ma anche pomodori, cetrioli e cipolle. Sono anche le formule più comunemente proposte a Milano, che fanno affidamento sulla rapidità e sulla facilità della catena di montaggio e sul divertimento nell’assemblare la propria bowl, la ciotola in cui è servito il poke, potendo scegliere ogni giorno un’opzione diversa.

Questo e gli altri articoli della sezione Milano per profani sono un progetto del corso di giornalismo 2018 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.