La storia del professor De Tormentis e della squadra dell’Ave Maria

Tra gli anni Settanta e Ottanta torturarono i brigatisti con la copertura dello stato, partecipando alle indagini per liberare il generale Dozier

Cesare Di Lenardo, ex brigatista rosso, al processo contro i poliziotti accusati di averlo sottoposto a tortura e violenze. (Ansa/Olpix)
Cesare Di Lenardo, ex brigatista rosso, al processo contro i poliziotti accusati di averlo sottoposto a tortura e violenze. (Ansa/Olpix)

Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta, una serie documentaria in quattro puntate che da giugno si può vedere su Sky, racconta una vicenda molto importante nella storia d’Italia: il sequestro da parte delle Brigate Rosse, nel dicembre del 1981, del generale americano James Lee Dozier, e poi la sua liberazione avvenuta qualche settimana dopo con un’operazione degli agenti del NOCS, Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza, allora chiamati comunemente “teste di cuoio”.

La serie, accanto a questa storia molto nota e raccontata (Carlo Lizzani fece anche un film per Rai 1), ne contiene anche un’altra, conosciuta ormai da anni ma rimasta piuttosto sotterranea, non più negata ma di cui ancora oggi si parla poco e con una certa reticenza: quella di come si arrivò alla liberazione di Dozier. La storia del rapimento e della liberazione del generale è infatti strettamente legata ai metodi violenti e alle tecniche di tortura che vennero usati da chi condusse gli interrogatori sui sospettati prima e sugli arrestati dopo. Nella serie di Sky vengono intervistati giornalisti, poliziotti che allora facevano parte del NOCS, funzionari che parteciparono o assistettero agli interrogatori e gli ex brigatisti Enrico Triaca, Paolo Persichetti, Francesco Piccioni.

Negli anni che andarono dal 1978 al 1982 una squadra di funzionari di polizia fu protagonista di violenze e torture nei confronti di esponenti dei gruppi armati o di persone anche solo sospettate di farne parte. La squadra si faceva chiamare “Quelli dell’Ave Maria”: il capo era chiamato professor De Tormentis, soprannome che gli aveva dato Umberto Improta, dirigente dell’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali) prendendo spunto dalla Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Il vero nome del professor De Tormentis venne svelato solo anni più tardi.

Il gruppo dell’Ave Maria, che subito dopo il sequestro Dozier ebbe emulatori all’interno della polizia, utilizzava già il waterboarding, l’annegamento simulato o controllato, che divenne famoso dopo che ne fu scoperto l’utilizzo all’inizio degli anni Duemila da parte delle forze di sicurezza americane nei confronti dei presunti terroristi di al Qaida. Il professor De Tormentis anni dopo, quando non era più poliziotto, si vantò dicendo che funzionari americani gli avevano fatto i complimenti riconoscendo che «gli italiani in certe cose erano più bravi».

James Lee Dozier venne sequestrato nella sua casa di Verona il 17 dicembre 1981. Aveva 50 anni ed era sottocapo di Stato maggiore logistico presso il quartier generale delle forze terrestri della NATO nell’Europa meridionale. A rapirlo furono quattro uomini e una donna: Antonio Savasta, romano, capo dei brigatisti del Veneto, Pietro Vanzi, Cesare Di Lenardo, 22 anni, il più giovane del gruppo, Ugo Milani e Barbara Balzerani, leader delle BR dopo l’arresto di Mario Moretti, avvenuto in aprile. I sequestratori si finsero idraulici che erano stati chiamati per una perdita d’acqua nel condominio. Dopo il rapimento la moglie del generale, Judy, fu lasciata in casa legata e imbavagliata. 

Dozier fu portato in un appartamento di Padova dove rimase per 42 giorni chiuso in una tenda montata all’interno di una stanza. Una mano e un piede gli furono incatenati al palo centrale della tenda. All’inizio i brigatisti gli fecero tenere alle orecchie delle cuffie collegate a un walkman con la musica ad alto volume, poi il generale ottenne di abbassare l’audio e spesso riuscì anche a togliere le cuffie, ascoltando i rumori più o meno intensi che venivano dalla strada, riuscendo così a dare una approssimativa scansione temporale alle sue giornate. All’interno della tenda era sempre accesa una lampadina da 40 watt.

L’amministrazione americana fece subito una ovvia ed enorme pressione sul governo italiano perché trovasse il generale. Dal governo e quindi dal ministero dell’Interno (allora ministro era il democristiano Virginio Rognoni) la pressione passò ai capi della polizia e agli investigatori. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale, cioè l’Ucigos (oggi sostituito dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione), convocò da varie questure in tutta Italia Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano De Gregori, la squadra di dirigenti formata dal ministero per cercare di risolvere il caso Dozier.

Raccontò nel 2012 Salvatore Genova in un’intervista all’Espresso: «De Francisci ci dice che l’indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare le maniere forti. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l’alto, ordini che vengono dall’alto, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato».

Il giorno dopo, a una riunione più allargata partecipò anche un funzionario che conoscevano tutti di fama: il professor De Tormentis. Era arrivato a Verona con la squadra dell’Ave Maria. Salvatore Genova disse all’Espresso che la squadra di De Tormentis era esperta dell’interrogatorio duro, dell’acqua e sale: l’interrogato veniva legato a un tavolo con spalle e testa sporgenti e poi, con un imbuto o un tubo, gli venivano fatte ingurgitare grandi quantità di acqua salata.

Il professor De Tormentis, di cui esiste una celebre foto di spalle, accanto al ministro dell’Interno Francesco Cossiga e davanti alla Renault 4 rossa in cui venne fatto ritrovare il cadavere di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, era operativo già da alcuni anni. Le prime notizie relative ai suoi interrogatori risalgono proprio alle settimane successive al ritrovamento del corpo di Moro. 

Il professor De Tormentis, di cui si vede solo la nuca, con le mani dietro la schiena, alle spalle del ministro dell’Interno Cossiga in via Caetani, il 9 maggio 1978, dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro (ANSA/ROLANDO FAVA)

Nel maggio del 1978 la polizia arrestò Enrico Triaca, trovato in una tipografia dove erano stati stampati i comunicati delle Brigate Rosse. Quello che sui giornali venne indicato come il tipografo delle BR inizialmente confessò, ma un mese più tardi davanti al magistrato ritrattò tutto, dicendo di aver parlato in seguito alle torture subite. Triaca disse in un’intervista contenuta nel libro di Nicola Rao Colpo al cuore: «La sera del 17 maggio (1978, ndr) fui portato dentro un furgone dove c’erano due persone con casco e giubbotto antiproiettile. Fui bendato e steso per terra, il furgone partì. Poi fui fatto scendere e, sempre bendato, venni spogliato e legato su un tavolaccio. Qualcuno mi tappò il naso e mi versò acqua in bocca per non farmi respirare. Per due volte qualcuno mi gettò in bocca della polverina». Quando raccontò queste cose, il magistrato disse: «Se ripete la parola tortura la denuncio per calunnia». La denuncia arrivò effettivamente il 7 novembre 1982, e alla fine Triaca fu condannato.


Il professor De Tormentis tornò in azione a Roma il 4 gennaio 1982 dopo che erano stati arrestati Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, militanti delle Brigate Rosse Partito Guerriglia (le BR all’inizio del 1981 si erano divise in tre tronconi in lotta tra loro, BR Partito Guerriglia guidate da Giovanni Senzani, BR Partito Comunista Combattente guidate da Barbara Balzerani, e la colonna milanese Walter Alasia). Di Rocco e Petrella furono prelevati di notte nelle loro celle da uomini incappucciati e condotti in una casa. Qui vennero prima picchiati e poi cominciò il trattamento con acqua e sale con imbuto e tubi. Ennio Di Rocco cedette per primo, poi lo fece anche Stefano Petrella. Entrambi poi raccontarono al magistrato delle torture subite. Facendo parte delle Brigate Rosse antagoniste di quelle guidate da Barbara Balzerani, del sequestro Dozier non sapevano nulla.

A Verona venne fermato Nazareno Mantovani, sospettato di avere rapporti con gruppi terroristici. Subì lo stesso trattamento, legato al tavolo: mezzo litro di acqua e sale, poi una pausa, poi un altro mezzo litro e così via. Mantovani poi scrisse ai giornali in cui raccontò: «nel frattempo altre persone con accento romano mi premevano la pancia e mi davano colpi al basso ventre e ai testicoli dai quali mi strapparono peli».

Alla fine dell’interrogatorio di Mantovani, due poliziotti del gruppo di Salvatore Genova si avvicinarono e dissero: «Capo, noi ce ne torniamo a casa, non ce la sentiamo di assistere a questa roba qua».

Enrico Triaca a processo nel 1979 (ANSA/ARCHIVIO STORICO)

La polizia fermò anche Elisabetta Arcangeli, conosciuta allora per essere la compagna di Mantovani. La trovarono in compagnia di un ragazzo, Ruggero Volinia. Il pomeriggio del 26 gennaio, durante l’interrogatorio, Volinia fu colpito con calci e pugni. L’Espresso riportò il racconto di Genova:

Volinia e Arcangeli vengono interrogati in stanze attigue, separati da un muro… La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco e alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la Arcangeli. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figli. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento (la villetta era il luogo dove avvenivano molti degli interrogatori, ndr). Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce acqua e sale e dopo pochi muniti parla, ci dice dov’è tenuto prigioniero Dozier.

«Il generale è tenuto prigioniero a Padova, in via Pindemonte 2», disse Volinia, «lo so perché ce l’ho portato io, il mio nome di battaglia è Federico. Il giorno del rapimento guidavo il furgone che l’ha trasportato da Verona a Padova». Il 28 gennaio il gruppo di agenti del NOCS liberò Dozier con un’azione che durò meno di un minuto. Oltre a Savasta, Di Lenardo e Ciucci furono arrestate Emilia Libera e Manuela Frascella. I brigatisti furono legati e incappucciati e lasciati fuori sul pianerottolo. Vennero picchiati ripetutamente. A Manuela Frascella, come riporta Rao, venne chiesto più volte: «Sei una mignotta vero?» A ogni no arrivavano calci e pugni.

Il generale Dozier con la moglie (Ansa)

Il responsabile del gruppo che aveva rapito Dozier era Antonio Savasta. Era stato lui, il 5 luglio 1981, a uccidere il direttore della Montedison Giuseppe Taliercio, rapito 46 giorni prima a Mestre. Savasta era considerato dagli investigatori un osso duro, invece fu il primo a parlare, divenne collaboratore di giustizia e permise l’arresto di decine di militanti delle Brigate Rosse. 

I poliziotti che avevano partecipato alla liberazione di Dozier vennero insigniti dal presidente americano Ronald Reagan con la Medaglia del Congresso. Il più tenace tra gli arrestati, che rifiutò qualsiasi collaborazione, fu Cesare Di Lenardo, il più giovane del gruppo. È tra l’altro uno dei pochi ex militanti dei gruppi armati ancora in carcere, dove è detenuto dal gennaio del 1982: non ha mai accettato nessuna forma di collaborazione e ha sempre rifiutato di chiedere benefici di legge.

I sequestratori di Dozier subirono, chi più chi meno, trattamenti violenti. Il peggio fu riservato a Di Lenardo. Non fu però il gruppo di De Tormentis a occuparsi di lui. Disse Genova all’Espresso nel 2012: «Tutti sanno come abbiamo fatto parlare Volinia e scatta l’imitazione, il “mano libera per tutti”. Un gruppo di poliziotti della Celere che si autodefinisce Guerrieri della notte, quando noi non ci siamo va nelle stanze dove ci sono i cinque brigatisti e li picchia duramente. Un ufficiale della Celere, uno di quei giorni viene da me chiedendomi se può dare una ripassata a quello “stronzo”, riferendosi a Di Lenardo, l’unico dei cinque che non collabora con noi. Io non dico di no e inizia da quel momento la vicenda che ha portato al mio arresto». Di Lenardo venne prelevato, caricato nel baule di un’auto e portato in un posto isolato fuori dalla caserma dove venne inscenata una finta esecuzione. Poi venne riportato in caserma. Disse ancora Genova:

Rividi Di Lenardo alle docce. Degli agenti stavano improvvisando su di lui un trattamento di acqua e sale. Li feci smettere ma non li denunciai diventando così loro complice. La voglia di emulare, di menare le mani, non si ferma a Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come De Tormentis e i suoi, si fanno vedere dai colleghi che parlano e denunciano. Ma l’inchiesta non porterà da nessuna parte.

Poche settimane dopo gli arresti, le voci sulle presunte torture si fecero insistenti. Pier Vittorio Buffa scrisse un articolo sull’Espresso: venne convocato dal procuratore della Repubblica di Venezia Cesare Albanello e arrestato perché non rivelò da chi aveva saputo delle violenze e delle torture. Venne scarcerato quando due dirigenti del sindacato di polizia Siulp ammisero di essere stati loro a fornirgli informazioni.

L’inchiesta sulle torture andò avanti. Molti degli arrestati continuarono a denunciare violenze e torture. Alla fine cinque poliziotti furono arrestati: Genova era tra questi ma si salvò perché venne eletto in Parlamento con il Partito Socialdemocratico Italiano. Più volte, in quei mesi, il ministro dell’Interno Rognoni dovette rispondere a interrogazioni parlamentari. Il 6 luglio rispose così alle domande del deputato del Partito Radicale Marco Boato:

Né il governo né le forze dell’ordine hanno deliberatamente, anche per un solo momento, deviato dalla strada maestra della civiltà e del diritto; devo respingere con forza ogni insinuazione tendente a far ritenere che disposizioni diverse siano mai state prese a livello governativo o operativo, tali da innescare una spirale perversa di arbitri e violenze; (…) Come già lo scorso 22 marzo anche oggi sento il dovere di mettere in guardia dal tentativo di nascondere – mediante una campagna generalizzata di accuse – la dimensione imponente, tra l’altro, del fenomeno della dissociazione.

I cinque poliziotti arrestati, tra i quali non c’erano De Tormentis e i suoi uomini, furono rinviati a giudizio e processati. Nell’atto di rinvio a giudizio per il trattamento riservato a Di Lenardo era scritto:

In concorso fra loro prelevavano il Di Lenardo dai locali dell’ispettorato di zona del 2° Reparto Celere, dove era legittimamente detenuto sottraendolo a coloro che erano investiti della custodia, lo caricavano con mani e piedi legati e con gli occhi bendati nel bagagliaio di un’autovettura e lo trasportavano in una località sconosciuta, dove il Di Lenardo veniva fatto scendere e sottoposto alle percosse e minacce descritte nel capo seguente; indi lo trasportavano nuovamente (sempre nel bagagliaio) nell’area 2° del Reparto Celere e lo conducevano in un sotterraneo, nel quale il Di Lenardo era sottoposto alle percosse e alla violenza descritte nel capo seguente, al termine delle quali veniva riportato nei locali di legittima detenzione; con le aggravanti di aver commesso il fatto abusando dei poteri inerenti alle funzioni di pubblico ufficiale proprie di ciascuno.

In un altro passaggio era scritto:

Per aver in concorso tra loro e con altri con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo, e minaccia, consistita nell’esplosione di un colpo d’arma da fuoco e successivamente mediante violenza, consistita nel legarlo su di un tavolo, sul quale era stato steso, facendo inghiottire del sale grosso, di cui gli era stata riempita la bocca.

Ancora:

Per aver in concorso tra loro e con altre persone non identificate, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, con violenza consistita in percosse, nonché nella provocazione di ustioni alle mani e in altre parti del corpo, nonché una serie di ferite provocate al polpaccio della gamba sinistra con strumenti taglienti od acuminati e nella somministrazione di scariche elettriche, mediante applicazione di strumenti idonei agli organi genitali e nella zona addominale.

Gli imputati vennero condannati a pene piuttosto lievi per abuso di autorità, poi intervenne l’amnistia. Disse uno dei condannati: «Il presidente americano ci aveva premiato con la medaglia del Congresso e in Italia ci trattavano come criminali». Amnesty International raccolse in quei mesi un’importante mole di denunce di torture. «Tra le nostre fonti», disse Amnesty International, «non ci sono solo le dichiarazioni delle vittime. Esistono anche lettere di agenti di Polizia che lamentano la frequenza con cui la tortura verrebbe applicata a persone arrestate per terrorismo». 


Delle torture operate sui militanti delle Brigate Rosse si tornò a parlare in una puntata di Chi l’ha visto nel 2012: Salvatore Genova raccontò ancora quello che sapeva e fece il nome del professor De Tormentis, che però venne coperto con un beep quando andò in onda la trasmissione. Ma quel nome ormai lo conoscevano tutti. Venne pubblicato dal Corriere della Sera, che lo intervistò. Scrisse Fulvio Bufi in un articolo del 10 febbraio 2012, ripreso il giorno seguente da altri giornali: «Il Corriere sceglie invece di farlo (il nome, ndr) dopo aver avuto conferma di quel soprannome dal diretto interessato. Il professor De Tormentis si chiama Nicola Ciocia, ha 78 anni, è pugliese di Bitonto ma vive a Napoli, città in cui negli anni Settanta diresse prima la squadra mobile e poi la sezione interregionale Campania e Molise dell’Ispettorato generale antiterrorismo. Dalla polizia si dimise nel 1984 con il grado di questore (non accettò la sede di Trapani) e fino a pochi anni fa ha fatto l’avvocato. Ora si è ritirato del tutto, esce raramente dalla sua casa sulla collina del Vomero, e di sé dice: “Io sono fascista mussoliniano. Per la legalità”. Lo si capirebbe anche se non lo dicesse, fosse solo per il busto del duce che tiene sulla libreria».

In un audio nella serie di Sky si sente Ciocia che, diventato avvocato, in una arringa scandisce: «Solo Dio può giudicare un poliziotto». Disse al Corriere della Sera: «Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio». E ancora: «La lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano, ma io ho fatto sempre e solo il mio dovere, ottenendo a volte risultati e a volte no. Perché non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci».

Il generale Dozier intervistato per la serie di Sky

Nella serie di Sky sono esposte due tesi contrapposte. Da una parte ci sono i poliziotti che vennero incriminati allora per le violenze e che dicono di essere stati guidati da un interesse superiore, quello di difendere lo Stato, mentre dall’altra parte c’è il parere di chi, come il procuratore di Venezia Vittorio Borraccetti che indagò su quelle violenze, dice: «Io non capirò mai, non giustificherò mai chi commette violenza quando una persona è resa inoffensiva ed è sotto il suo controllo. Lo stato di diritto non può accettarlo».

Disse Genova all’Espresso: «Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E inoltre non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’uno con l’altro, questo dovevamo fare». Nel 2014, dopo 35 anni, la Corte di Appello di Perugia accolse l’istanza di revisione di Enrico Triaca revocando la condanna che gli era stata inflitta per calunnia. Nella sentenza è scritto che era emerso:

l’uso di pratiche particolari in danno di soggetti arrestati e volte a farli parlare da parte di un funzionario dell’UCIGOS che era conosciuto nell’ambiente con il soprannome di Prof. De Tormentis e che si avvaleva di un gruppo denominato i cinque dell’ave Maria.