Il sistema dei commerci mondiali sta cambiando?

La crisi della “supply chain” sta portando aziende e governi a ripensare certi effetti della globalizzazione, ma ci vorrà tempo

di Eugenio Cau

La Statua della Libertà di New York fotografata da una nave portacontainer (AP Photo/Seth Wenig)
La Statua della Libertà di New York fotografata da una nave portacontainer (AP Photo/Seth Wenig)
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Dopo anni di affanni e difficoltà, la crisi dei commerci globali provocata dalla pandemia da coronavirus potrebbe aver avviato un profondo cambiamento e una ristrutturazione complessiva della “supply chain” globale, cioè di quel complesso e interconnesso sistema di trasporti e rifornimenti su cui si basano il commercio e l’economia del mondo.

Da ormai due anni scarseggiano un po’ ovunque beni di consumo, materie prime, materiali da costruzione e prodotti elettronici: alcuni beni sono introvabili, per altri ci sono lunghe liste d’attesa, e in generale per una grande quantità di prodotti è venuta a mancare la disponibilità immediata e facile di qualche anno fa. Lo sa per esempio chi in questi mesi ha dovuto ristrutturare casa e si è trovato davanti gravi ritardi di approvvigionamento dei materiali; ma anche chi ha comprato prodotti comuni, come mobili, elettrodomestici, computer o automobili, e spesso ha dovuto aspettare settimane o mesi per avere quello che desiderava, o ha dovuto ripiegare su prodotti alternativi più accessibili.

Questa scarsità è stata attribuita a un problema complessivo del sistema dei commerci e dei trasporti, che si trovava in difficoltà da circa un decennio ma che è stato messo sotto pressione da una serie di crisi arrivate una dietro l’altra: la più devastante è stata quella provocata dalla pandemia, e dunque dai lockdown e dall’interruzione della produzione industriale che tuttora interessa molti paesi. Poi si sono aggiunte varie problematiche interconnesse, dai trasporti alla scarsità di forza lavoro.

Da ultimo, l’invasione russa dell’Ucraina ha messo in crisi definitiva un sistema già debolissimo, provocando un aumento del prezzo dell’energia, una probabile crisi alimentare mondiale e ulteriori ostacoli e lentezze a trasporti e commerci.

– Leggi anche: La crisi dei commerci mondiali, spiegata bene

Inizialmente gli operatori colpiti avevano sperato che le cose si sarebbero sistemate da sole, e che una volta attesa la fine dei problemi principali, come la pandemia, tutto sarebbe tornato come prima. Ma esattamente come la pandemia e i suoi effetti non sono mai davvero finiti, così varie emergenze si sono andate ad accumulare l’una sull’altra: la crisi della supply chain va avanti ormai da un paio d’anni, e non dà segni di miglioramento.

Per questo, vari analisti e persone influenti del settore cominciano a ritenere che una grande ristrutturazione della supply chain globale sia sempre più probabile. Quel grande fenomeno che, a partire dagli anni Novanta, ha portato alla delocalizzazione di aziende e industrie fuori dall’Occidente e a fare affidamento su trasporti e comunicazioni sempre più efficienti per esportare a livello globale la produzione industriale (da qui il termine “globalizzazione”) potrebbe attenuarsi, almeno in alcune circostanze.

I container nel porto di Oakland, negli Stati Uniti (Justin Sullivan/Getty Images)

I governi stanno lavorando per riportare al proprio interno la produzione industriale di alcuni settori strategici, mentre varie aziende che avevano spostato la propria produzione in paesi con manodopera a basso costo stanno portando avanti processi di diversificazione, per rendere il loro business meno vulnerabile (o, per usare un termine molto di moda nel settore, per aumentarne la “resilienza”).

Sia gli Stati Uniti sia l’Europa, per esempio, stanno cercando di riportare al proprio interno industrie fondamentali come quella dei microchip, mentre varie aziende stanno uscendo dalla Cina per spostarsi in paesi meno rischiosi: in rari e limitati casi, riportano perfino la produzione in Occidente.

Questo non significa che ci saranno dei cambiamenti improvvisi ed evidenti nel modo in cui i beni sono prodotti e trasportati nel mondo: sistemi eccezionalmente complessi come la supply chain globale si trasformano molto lentamente, e per ora anche gli analisti più attenti stanno vedendo soltanto le prime avvisaglie di come i commerci globali potrebbero cambiare in futuro. È ancora tutto molto difficile da prevedere.

Non significa nemmeno che la globalizzazione, che è stata il motore principale dell’economia mondiale degli ultimi quarant’anni, stia regredendo: il mondo rimarrà interconnesso, ma non è da escludere che le modalità di queste connessioni potrebbero cambiare.

(AP Photo/Julio Cortez)

Efficienza vs resilienza
Nato a partire dagli anni Novanta grazie al miglioramento di trasporti e delle comunicazioni, alla diffusione eccezionale delle navi portacontainer e alla situazione di stabilità garantita dalla fine della Guerra fredda, il sistema globale dei commerci è quel fenomeno per cui, semplificando molto, un iPhone viene progettato negli Stati Uniti e assemblato in Cina con processori che arrivano da Taiwan, schermi che arrivano dalla Corea del Sud, minerali che arrivano dall’Africa e così via. Nello specifico, poi, il sistema della “supply chain” è quello che fa in modo che tutte le forniture e i componenti arrivino nel posto giusto al momento giusto, gestendo trasporti, logistica, approvvigionamenti e così via.

Questo sistema si è espanso enormemente negli ultimi trent’anni, diventando uno dei fattori principali della crescita mondiale: la percentuale di PIL globale generata dai commerci è passata dal 38 per cento nel 1988 al 61 per cento nel 2008, quando raggiunse il suo picco.

Quest’enorme espansione dei commerci internazionali fu mossa soprattutto da un bisogno di efficienza, e dal desiderio, da parte delle aziende occidentali, di approfittare dell’ampia disponibilità di manodopera a basso costo in paesi meno ricchi: nel 2000, il reddito annuo medio di una persona cinese era il 3 per cento di quello di un americano, e dunque era possibile pagare stipendi eccezionalmente più bassi.

Questo sistema consentì di inondare i mercati occidentali di un’enorme quantità di beni a bassissimo costo, mantenendo comunque i margini alti. Ma proprio perché dà la priorità all’efficienza e alla massimizzazione dei margini di profitto, il sistema è anche intrinsecamente fragile, come si è visto in questi ultimi anni: è un meccanismo complicatissimo e molto delicato, che funzionava finché tutto procedeva regolarmente, ma che ora si è di fatto inceppato.

Ancora prima della pandemia e delle altre crisi, molti analisti avevano parlato della necessità di una riforma di questo meccanismo, perché la crescita del sistema dei commerci e della globalizzazione era stagnante ormai da oltre dieci anni: non è un caso che i commerci come percentuale del PIL mondiale abbiano avuto il loro picco nel 2008, quasi 15 anni fa.

Un buon criterio per misurare l’espansione dei commerci globali sono gli investimenti diretti all’estero (FDI, dalla sigla inglese foreign direct investment), che comprendono grossomodo gli investimenti che un’azienda fa quando apre una filiale o uno stabilimento produttivo all’estero, oppure quando acquisisce un’azienda straniera: maggiori sono gli FDI, maggiore sarà l’espansione internazionale di un’azienda, di uno stato o di un’economia. La quantità totale di FDI è aumentata eccezionalmente negli anni Novanta del secolo scorso e negli anni Zero dell’attuale, passando dallo 0,5 per cento del PIL globale al 5 per cento. Poi però ha cominciato a stagnare a partire dagli anni Dieci.

L’Economist cita alcune ragioni di questa stagnazione, e tutte riguardano il fatto che delocalizzare la produzione all’estero è diventato man mano meno conveniente: a causa dell’automazione ma soprattutto a causa del fatto che i salari nei paesi meno sviluppati sono cresciuti.

Oggi il reddito medio di una persona cinese è il 16 per cento di un americano: se vent’anni fa la convenienza di far arrivare materiali e componenti in Cina per farli assemblare a lavoratori poco pagati era eccezionale, adesso quei margini si stanno man mano riducendo.

La Maersk Mc-Kinney Moller, la più grande nave portacontainer del mondo al momento della sua costruzione, nel 2014: oggi è stata superata da navi con capienze ancora maggiori (AP Photo/Polfoto, Per Rasmussen)

Tutto tranne la Cina
Molti ragionamenti attorno alle riforme del sistema dei commerci riguardano ovviamente la Cina, dove in trent’anni di globalizzazione si è concentrata la gran parte della produzione manifatturiera mondiale (circa un quarto, secondo varie stime). Per anni, il sistema dei commerci globali è stato di fatto sino-centrico, ma di recente vari fattori stanno rendendo la Cina sempre più problematica per gli investimenti stranieri, anche se il suo ruolo è destinato a rimanere centrale ancora per molti anni.

Ci sono elementi prettamente economici, come il già citato aumento dei salari dei lavoratori cinesi (che ovviamente è un problema soltanto per le multinazionali) e il fatto che il governo cinese stia rivalutando, lentamente e con molte difficoltà, il proprio modello di crescita, puntando più sul consumo interno e sulla manifattura avanzata e meno sull’esportazione di prodotti a basso costo.

Ci sono però anche fattori politici: la guerra commerciale avviata tra Cina e Stati Uniti, la sempre maggiore aggressività all’estero del regime cinese, la sua vicinanza alla Russia nel corso della guerra in Ucraina e la testardaggine nel perseguire la strategia “zero COVID” contro il coronavirus hanno mostrato piuttosto chiaramente che i rischi di tipo politico per le imprese sono sempre maggiori. Come sta facendo emergere anche la crisi energetica provocata dalla Russia in Europa, essere dipendenti da uno stato autoritario con ambizioni espansive all’estero – come il sistema dei commerci mondiali lo è nei confronti della Cina – potrebbe non essere l’opzione migliore.

Questi ostacoli politici sono particolarmente evidenti in settori strategici come quello dei microchip, in cui i governi occidentali stanno facendo sforzi per riportare il più possibile la produzione al proprio interno.

(AP Photo/Julio Cortez)

Diversificazione, nearshoring e reshoring
La ristrutturazione del sistema globale della supply chain durerà probabilmente decenni, e attualmente se ne vedono soltanto alcuni sintomi e segnali. Questi segnali corrispondono principalmente a tre fenomeni: diversificazione, cioè fare in modo di non dipendere da un solo paese o da un solo fornitore, ma averne più d’uno per poter avere sempre un piano B; “nearshoring”, cioè spostare la propria produzione in un luogo vicino (near), e non dall’altra parte del mondo come hanno fatto finora molte multinazionali occidentali; e infine “reshoring”, cioè il rientro delle attività produttive dal paese in cui erano state delocalizzate.

Per ora, il “nearshoring” e il “reshoring” sono fenomeni piuttosto rari, e anzi il “reshoring” è quasi inesistente. La produzione manifatturiera nei paesi occidentali è ai minimi storici, e questo significa che è tutta spostata all’estero.

Ma molti analisti li stanno tenendo comunque in considerazione per un paio di ragioni: anzitutto il trend politico sembra andare nella direzione del “reshoring”, con il presidente americano Joe Biden e la Commissione Europea che hanno annunciato vari piani per riportare indietro la manifattura. In secondo luogo perché i paesi occidentali hanno dato alcuni isolati ma significativi segnali di competitività, almeno per il settore tecnologico: paradossalmente, i due singoli più grandi investimenti esteri (FDI) fatti l’anno scorso sono stati in Germania (dove l’americana Intel vuole aprire una fabbrica di microchip da 19 miliardi di dollari) e negli Stati Uniti (dove la sudcoreana Samsung vuole aprire un’altra fabbrica di chip da 17 miliardi).

Ma quelli a cui stiamo assistendo adesso sono soprattutto fenomeni di diversificazione, o comunque tentativi di rendere più solido il sistema della supply chain.

La diversificazione più evidente riguarda il fatto che, ormai da anni, gli investimenti diretti hanno cominciato a interessare sempre più paesi asiatici che non siano la Cina. In alcuni casi le ragioni sono banalmente di convenienza: le aziende multinazionali cercano luoghi dove i salari non siano ancora aumentati, come il Vietnam o le Filippine, ma in altri casi riguardano la necessità di rendere più stabile e affidabile la produzione, e ripararsi dagli eventuali rischi politici di un’esposizione eccessiva alla Cina: è il caso per esempio di Apple, che ha cominciato a spostare parte della produzione dei suoi apparecchi in India.

Un altro settore in cui la ristrutturazione è in corso in maniera piuttosto evidente è quello dell’energia, in cui la guerra in Ucraina ha mostrato chiaramente i pericoli di essere dipendenti da un solo fornitore: l’Europa e molti altri paesi stanno lavorando non soltanto per diversificare la produzione di energia, ma anche per riportare al proprio interno quanti più processi possibili, per esempio tramite la costruzione di rigassificatori, o investendo con decisione sulle rinnovabili.

In generale, molte delle industrie legate alla transizione ambientale sono diventate importanti e i paesi puntano a mantenerle – o attrarle – al loro interno: l’Unione Europea per esempio vuole farlo con la costruzione delle batterie, e ha proposto ampi incentivi per chi investirà in Europa.

Una nave portacontainer si dirige verso il porto di New York (AP Photo/Seth Wenig)

La diversificazione si vede anche a livello delle aziende. Secondo un sondaggio della società di consulenze McKinsey, il 93 per cento delle aziende individuate come “leader” nel settore della supply chain intende rendere il sistema più robusto nei prossimi anni. Uno dei modi principali per farlo è diversificare i fornitori di materie prime: oltre la metà delle aziende intervistate ha detto di aver cominciato a usare almeno due fornitori, quando prima ne usava soltanto uno, con l’obiettivo di rendere gli approvvigionamenti più flessibili.

Molti hanno anche cominciato ad aumentare l’inventario dei prodotti presenti nei magazzini. Fino a qualche anno fa, in alcuni settori le aziende mantenevano le scorte nei magazzini ai minimi, ordinando di volta in volta il necessario e facendo affidamento sull’estrema efficienza dei trasporti e dei sistemi di rifornimento: era il modello della cosiddetta “just in time supply chain”, molto usato per esempio da alcune case automobilistiche, che non a caso sono state tra le prime ad avere problemi di forniture, ormai un paio d’anni fa.

Ora quelle stesse aziende stanno aumentando le scorte sempre nell’ottica di ridurre la loro esposizione ai problemi della supply chain globale, e secondo alcuni potrebbe essere il primo passo verso operazioni di “nearshoring”. Come ha scritto sempre McKinsey, «aumentare l’inventario è più rapido che costruire fabbriche», ma al tempo stesso il 90 per cento delle aziende intervistate sta considerando la possibilità di una «regionalizzazione» della propria attività nei prossimi tre anni.

Il prezzo da pagare
Tutte queste mosse per migliorare la resilienza della supply chain potrebbero essere costose: il meccanismo è estremamente delicato proprio perché è stato costruito con l’idea di aumentare al massimo i margini, e ogni tentativo di renderlo più solido avrà probabilmente un prezzo. Lo ha usare due fornitori per le materie prime, così come aumentare l’inventario nei magazzini, e infine lo avranno anche le operazioni di “nearshoring” e “reshoring”, se davvero cominceranno a diventare più comuni.

Alcuni costi saranno assorbiti dalle aziende, ma in una situazione in cui l’inflazione sta già aumentando come non succedeva da trent’anni, è probabile che questi costi saranno almeno in parte scaricati sui consumatori, e che ci saranno ulteriori scossoni per l’economia: nel breve periodo, il tentativo di creare maggiore sicurezza economica potrebbe generare vari problemi, prima di arrivare a una stabilizzazione.