L’Ungheria si mette ancora in mezzo

Fra lunedì e martedì si terrà un Consiglio Europeo straordinario per le sanzioni sul petrolio, ma il veto del governo ungherese è ancora lì

(Janos Kummer/Getty Images)
(Janos Kummer/Getty Images)
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Fra lunedì 30 e martedì 31 maggio a Bruxelles, in Belgio, si terrà una riunione straordinaria del Consiglio Europeo, l’organo che riunisce i capi di stato e di governo dell’Unione Europea, il cui principale obiettivo sarà approvare il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, proposto dalla Commissione Europea quasi un mese fa.

Lo stallo di queste settimane è stato dovuto all’Ungheria. Le nuove sanzioni prevedono un blocco quasi totale delle importazioni di petrolio dalla Russia, da cui l’Ungheria è quasi completamente dipendente per le proprie scorte di carburante. Il governo ungherese ha quindi messo di fatto il proprio veto all’intero pacchetto (nell’Unione Europea le principali decisioni di politica estera richiedono l’unanimità degli stati membri). In queste settimane i funzionari europei hanno provato a sbloccare i negoziati offrendo estese esenzioni e centinaia di milioni di euro all’Ungheria, finora senza successo. L’ultimo tentativo è fallito domenica sera.

L’unità dimostrata finora dai paesi europei dopo l’invasione russa dell’Ucraina «sta iniziano a sbriciolarsi», ha detto domenica ai giornalisti il vicecancelliere tedesco Robert Habeck. Negli ultimi giorni però proprio la Germania è stata accusata di avere approfittato del veto dell’Ungheria per chiedere condizioni più favorevoli per sé.

L’Ungheria riceve dalla Russia circa il 65 per cento del petrolio che importa, contro una media europea di poco superiore al 25 per cento. All’interno dell’Unione ci sono comunque altri paesi ancora più dipendenti dal petrolio russo come Slovacchia, Finlandia, Lituania e Bulgaria: nessuno di loro però ha posto un veto così netto come quello dell’Ungheria, guidata dal 2010 dal governo semi-autoritario di Viktor Orbán. L’impressione di diversi osservatori è che Orbán stia cercando di strumentalizzare il negoziato sulle sanzioni per ottenere concessioni su altri fronti: per esempio lo sblocco dei miliardi di euro previsti per l’Ungheria nel cosiddetto Recovery Fund, che la Commissione Europea ha sospeso per timore che i fondi sarebbero distribuiti soprattutto all’interno del sistema di potere messo in piedi da Orbán.

Finora comunque il governo ungherese ha rifiutato tutte le misure di compromesso proposte dall’Unione Europea: come spesso accade, le intenzioni di Orbán non sono immediatamente comprensibili per i diplomatici e i funzionari europei.

L’ultima proposta trapelata ai giornali, fra l’altro, prevedeva una misura assai favorevole per l’Ungheria: l’esenzione dal pacchetto di sanzioni del petrolio russo che arriva in Europa attraverso l’oleodotto Druzhba, da cui passa circa un terzo del petrolio russo importato nell’Unione Europea. Incidentalmente il tracciato nord del Druzhba passa anche attraverso la Germania, arrivando fino alla regione di Berlino.

– Leggi anche: Perché in Europa si discute di unanimità

La proposta di lasciare fuori l’oleodotto Druzhba dalle sanzioni, peraltro, non era piaciuta a diversi paesi europei, come ha fatto notare il Financial Times: se passasse una misura del genere significherebbe che una serie di paesi, fra cui Ungheria, Germania ma anche Austria e Repubblica Ceca, continuerebbero a disporre di petrolio russo a basso prezzo, mentre tutti gli altri paesi europei dovrebbero cercarlo altrove, pagandolo molto di più. «Credo che abbiamo introdotto l’argomento del petrolio per via della pressione dei paesi baltici e della Polonia, senza prima avere fatto i compiti a casa», ha detto un diplomatico europeo a Politico, sintetizzando la frustrazione di questi giorni per il mancato accordo politico sulle nuove sanzioni.

Il Consiglio Europeo inizierà alle 16, e sembra che nel primo pomeriggio ci sarà un ultimo tentativo di trovare un accordo durante una riunione degli ambasciatori dei 27 stati membri all’Unione Europea. Il rischio è che il veto dell’Ungheria, se non sarà risolto, faccia emergere tensioni e divisioni all’interno del Consiglio, danneggiando l’immagine dell’Unione in un momento molto delicato della guerra in Ucraina.