Perché in Europa si discute di unanimità

Draghi, Von der Leyen e Macron dicono che andrebbe superata per rendere l'Unione Europea più efficiente: ma non è affatto semplice

Una riunione del Consiglio Europeo a Bruxelles (AP Photo/Olivier Matthys, Pool)
Una riunione del Consiglio Europeo a Bruxelles (AP Photo/Olivier Matthys, Pool)
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Nelle ultime settimane diversi leader europei, fra cui la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio Mario Draghi, si sono espressi molto esplicitamente per superare il principio dell’unanimità nelle decisioni dell’Unione Europea. È un principio presente fin dall’inizio della storia delle istituzioni europee e ancora oggi necessario in moltissimi ambiti, dalla politica estera alle riforme più ambiziose, come il Green Deal e il Recovery Fund.

La tesi di Von der Leyen e di molti altri fra politici, commentatori e accademici è che la necessità di mettere d’accordo 27 paesi diversi renda lentissimo il processo decisionale dell’Unione: e quindi sempre più inadatto, per esempio, a rispondere a crisi ed emergenze come una pandemia o una guerra ai confini dell’Europa.

Dall’altra parte la necessità di trovare una posizione comune su qualunque cosa ha rafforzato il “peso specifico” dell’Unione Europea, in questi anni. Il resto della comunità internazionale sa bene che quando l’Unione Europea prende una decisione lo fa in modo unito e compatto. Diversi altri osservatori fanno notare inoltre che difficilmente le cose potranno cambiare: sia perché gli stati più piccoli tengono molto al proprio potere di veto, sia per una specie di cortocircuito: per cambiare i trattati europei che impongono l’unanimità serve una decisione unanime.

Il principio di unanimità era la norma nelle embrionali organizzazioni europee nate negli anni Cinquanta: la Comunità economica europea (CEE), la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) e la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). La struttura istituzionale delle prime comunità era esilissima, e le decisioni venivano prese tramite negoziati diretti fra i governi dei paesi che ne facevano parte.

Le cose cambiarono parzialmente con la nascita dell’Unione Europea nel 1992, sancita dal Trattato di Maastricht, che prevedeva un primo e parziale superamento dell’unanimità e introduceva il principio della maggioranza qualificata.

Il Trattato prevede che le proposte legislative che arrivano dalla Commissione Europea, cioè l’organo esecutivo dell’Unione, per essere approvate non abbiano bisogno dell’unanimità in sede di Consiglio dell’Unione Europea, cioè l’organismo che riunisce i rappresentanti dei governi degli stati membri e che detiene il potere legislativo insieme al Parlamento Europeo. Al posto dell’unanimità è prevista la maggioranza qualificata, un meccanismo basato sia su una maggioranza “rafforzata”, sia sulla popolazione di ciascuno stato: se una certa proposta viene appoggiata almeno dal 55 per cento degli stati membri, cioè 15 su 27, e gli stati membri che la sostengono rappresentano almeno il 65 per cento della popolazione totale dell’Unione, quella proposta viene approvata.

I trattati però continuano a prevedere l’unanimità per tutte le decisioni negli ambiti più importanti in cui opera l’Unione Europea: la politica estera e la politica fiscale, il bilancio, la giustizia e il welfare. Sono ambiti che interessano tutte le riforme più ambiziose che in questi anni sono state proposte e dibattute, e che rimangono regolarmente impantanate, a meno di rari e complicatissimi accordi.

Alcuni sostengono che il principio dell’unanimità vada rimosso, per una ragione banalmente numerica: poteva funzionare fra i sei paesi fondatori della CECA, ancora ancora fra i 14 paesi che facevano parte dell’Unione Europea nel 2000, ma oggi risulta anacronistico. È una posizione promossa da anni, fra gli altri, dalla Francia di Emmanuel Macron, molto scettica ad ammettere altri paesi nell’Unione Europea prima di avere cambiato la cosiddetta governance dell’Unione, cioè l’insieme di principi e meccanismi che regolano il processo decisionale.

«L’unanimità richiesta dalle prime comunità europee era giustificata dal ridotto numero dei propri membri», si legge in un rapporto dell’Institut Jacques Delors, un noto think tank francese, pubblicato nel 2020: «Oggi, nonostante l’Unione non sia diventato un super-stato federale, ha comunque sviluppato una certa maturità e solidarietà interna per considerare di abbandonare il principio dell’unanimità».

Secondo vari addetti ai lavori, la necessità di trovare un accordo fra paesi diversi influisce anche sulla qualità delle proposte finali. Sapendo di dover mettere d’accordo 27 paesi, spesso le bozze che circolano in Consiglio – o nel Consiglio Europeo, l’organo politico che riunisce i capi di stato e di governo, che funziona in modo simile – non contengono le proposte più ambiziose o brillanti, ma quelle che possono garantirsi il sostegno della maggior parte degli stati membri, a costo di essere annacquate o poco coerenti.

A volte alcune proposte non vengono nemmeno avanzate, sapendo che un certo stato userà sicuramente il diritto di veto, oppure vengono simbolicamente approvate dal Parlamento Europeo ma non finiscono mai per essere discusse in Consiglio: è stato il caso della dibattuta riforma del Regolamento di Dublino, che regola l’accoglienza dei richiedenti asilo, osteggiata soprattutto da Ungheria e Polonia.

Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, a destra, parla col primo ministro ungherese Viktor Orbán (Aris Oikonomou, Pool Photo via AP)

Assegnare lo stesso potere di veto a Malta e all’Italia, come ha fatto notare qualche tempo fa l’Economist, significa infine creare un’asimmetria per cui il voto di un cittadino maltese vale indirettamente di più di quello di un italiano.

Nello stesso articolo l’Economist scriveva che col tempo il potere dei paesi piccoli si sta riducendo sempre di più, dato che quelli più grandi sono sempre più direttamente coinvolti nella gestione degli affari europei: il messaggio implicito è che il problema del diritto di veto vada un po’ ridimensionato. Altri ancora sottolineano che i trattati prevedono già un meccanismo per superare il veto di singoli stati. La procedura si chiama Cooperazione rafforzata e prevede che un gruppo di almeno 9 stati possa farsi autorizzare dalla Commissione per approvare una certa norma in Consiglio a maggioranza qualificata e non all’unanimità.

Ma la Cooperazione rafforzata è una procedura talmente tortuosa e considerata l’ultima spiaggia che dalla sua introduzione nel 1999 è stata usata meno di dieci volte, la più importante delle quali per una norma che armonizzasse le procedure per il divorzio, approvata nel 2018.

Tra quelli che sono favorevoli a smantellare il principio dell’unanimità ci sono alcuni funzionari dell’Unione e analisti che credono che cambiare le regole sia in qualche modo coerente con processi che sono già in corso, o che si stanno cominciando a vedere in questi anni. Sostengono per esempio che ci sia sempre maggiore convergenza di obiettivi e interessi tra i principali paesi dell’Unione, come avrebbe per esempio dimostrato l’opposizione alle politiche aggressive di Vladimir Putin; in questo senso continuare a garantire l’esistenza del diritto di veto ai paesi più piccoli e periferici bloccherebbe sistematicamente le iniziative dei paesi più influenti. Non è comunque una tesi condivisa da tutti: altri analisti sostengono al contrario che negli ultimi anni ci siano state diverse gravi crisi che avrebbero fatto emergere in maniera netta le grosse differenze che continuano a esserci tra i paesi più importanti dell’Unione, anche su temi di politica estera (come i litigi tra Italia e Francia riguardo alla guerra in Libia e la difficoltà a trovare un accordo sulle sanzioni da applicare alla Russia).

Per potere abolire il principio dell’unanimità in alcuni campi, comunque, bisogna cambiare i trattati europei che lo prevedono: ma per modificare i trattati europei, semplificando moltissimo, bisogna comunque passare da varie approvazioni all’unanimità dei singoli stati.

Negli anni della Commissione di Jean-Claude Juncker, presidente fra il 2014 e il 2019, si parlò più volte della possibilità di attivare un meccanismo piuttosto oscuro presente nei trattati, quello delle cosiddette “passerelle”, che prevedono casi in cui il Consiglio Europeo può decidere che sulla procedura per modificare i trattati, in certi ambiti, il Consiglio dell’Unione Europea possa votare a maggioranza qualificata e non all’unanimità. Ma il Consiglio Europeo deve autorizzare l’attivazione delle “passerelle” all’unanimità, come prevede il comma 7 dell’articolo 48 del Trattato di Lisbona: quindi siamo punto e a capo.

L’unico modo politicamente accettabile per cambiare i trattati sembra quello di seguire la cosiddetta procedura ordinaria: quindi istituire una apposita Conferenza intergovernativa, ricevere stimoli e proposte dalla Commissione, dal Parlamento, da governi e parlamenti nazionali, e dopo molti anni arrivare a una sintesi.

L’ultima volta che l’Unione Europea è riuscita a mettere in piedi un’operazione del genere fu nel 2007, col Trattato di Lisbona. Poi non è stato più possibile, sia per le molte crisi internazionali che hanno di fatto bloccato il processo di ripensamento dei meccanismi europei (la crisi dell’eurozona, l’arrivo di milioni di migranti dall’Africa e dal Medio Oriente, Brexit, la pandemia da coronavirus, e ora la guerra in Ucraina), sia per l’ascesa di partiti populisti euroscettici che per anni avevano spostato il dibattito sulla stessa esistenza dell’Europa, piuttosto che sul suo cambiamento.

Oggi il dibattito sulla riforma dei trattati è ripreso, come è ripreso quello sull’opportunità di cambiare il meccanismo dell’unanimità, come vorrebbero fare Draghi, Macron e Von der Leyen.

Le loro intenzioni si scontreranno, e in parte già lo stanno facendo, con la posizione degli stati più piccoli, assai riluttanti a cedere il proprio potere di veto e preoccupati del fatto che in un regime a maggioranza qualificata gli stati più grandi possano fare a meno di loro.

In un comunicato pubblicato alla fine della Conferenza sul futuro dell’Europa, un esperimento di “democrazia dal basso” dell’Unione Europea che ha coinvolto alcune migliaia di persone, i governi di Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Slovenia e Svezia hanno precisato di essere contrari a «sconsiderate e premature» modifiche dei trattati, auspicate invece in più punti delle raccomandazioni finali della Conferenza.

Se anche fosse avviata una modifica dei trattati, bisognerebbe poi accordarsi su quale principio debba sostituire l’unanimità. È un tema che sembra talmente remoto che in pochi ne hanno discusso apertamente. Nel suo rapporto, l’Institut Jacques Delors ha fatto notare che diverse organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Organizzazione mondiale del commercio lavorano ormai da anni con vari meccanismi di maggioranze qualificate: l’FMI per esempio usa una maggioranza qualificata che deve tenere conto dei tre quarti degli stati membri che rappresentino l’85 per cento delle quote di voto.