Storie di persone che vissero in aeroporto

Quella che ispirò il film “The Terminal” probabilmente la conoscete ma ce ne sono altre, tra dispute diplomatiche, proteste sociali e indifferenza delle autorità

the terminal
Un fotogramma del film del 2004 “The Terminal”
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Il 16 gennaio 2021 alcuni agenti di polizia in servizio al Terminal 2 dell’aeroporto internazionale Chicago-O’Hare, il più grande dello stato dell’Illinois e uno tra i più trafficati al mondo, arrestarono un cittadino californiano di 36 anni, Aditya Singh. Si aggirava portando al collo il badge di un dipendente dell’aeroporto che ne aveva denunciato lo smarrimento tre mesi prima.

Da successivi accertamenti fu possibile stabilire che Singh viveva in aeroporto dal 19 ottobre 2020. Era arrivato a Chicago su un volo da Los Angeles ed era poi rimasto nella zona di transito per tre mesi senza che nessuno se ne accorgesse, arrangiandosi con cibo e denaro che riceveva dai passeggeri in attesa dei propri voli. Interrogato dalla polizia, Singh rispose di essere rimasto all’interno del Chicago-O’Hare per «paura di tornare a casa a causa del Covid».

Quella di Singh è una delle più recenti tra numerose storie di persone che per scelta, necessità o mancanza di alternative finiscono per trascorrere negli aeroporti molto più tempo del normale. Da uno dei casi più celebri, quello dell’iraniano Mehran Karimi Nasseri, rimasto nell’aeroporto “Charles de Gaulle” di Parigi per 18 anni dopo essere stato espulso dal suo paese nel 1977, fu tratto il film del 2004 The Terminal, diretto da Steven Spielberg e interpretato da Tom Hanks.

Altre storie oltre a quella di Nasseri sono state descritte e raccontate nel corso degli anni, permettendo di definire una casistica e individuare una serie di motivi ricorrenti in questo genere di situazioni. A rimanere nelle zone di transito degli aeroporti sono spesso persone al centro di dispute diplomatiche o in condizioni giuridiche provvisorie e particolari. Come per esempio l’ex analista statunitense Edward Snowden, rimasto per oltre un mese nell’aeroporto di Šeremet’evo a Mosca nel 2013 dopo che le autorità americane avevano ritirato il suo passaporto in seguito agli sviluppi di una lunga inchiesta resa possibile dalla diffusione da parte di Snowden di documenti riservati sui programmi di sorveglianza della National Security Agency (NSA), l’agenzia statunitense per la sicurezza nazionale.

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Le storie di persone rimaste a lungo negli aeroporti, oltre che essere interessanti per quello che dicono di fenomeni più ampi o di casi singolari, risultano affascinanti per una caratteristica comune che le rende intrinsecamente paradossali. Sono tutte ambientate in spazi in cui la maggior parte delle persone vive di passaggio, in un senso puramente provvisorio. Ciascuna di quelle storie eccezionali mostra le difficoltà di adattamento a quegli spazi transitori, che l’antropologo francese Marc Augé definì «nonluoghi»: posti in cui la storia degli individui è come sospesa, che non definiscono delle identità né permettono di stabilire relazioni.

Come può succedere
Uno dei fattori che contribuiscono a rendere possibili, per quanto rare, le storie di persone che vivono all’interno di aeroporti è lo status giuridico delle zone di transito, aree che non rientrano formalmente in nessuna giurisdizione nazionale. Sono considerate extraterritoriali e istituite per rendere più agevoli i controlli dei passaporti e i viaggi che prevedono scali, senza che sia necessario ripetere una serie di controlli già superati nelle fasi di imbarco nell’aeroporto di provenienza.

aeroporto San Paolo-Guarulhos

Un viaggiatore in attesa all’aeroporto di San Paolo-Guarulhos, in Brasile, il 15 marzo 2020 (Carol Coelho/Getty Images)

Questa condizione giuridica è ciò che nella maggior parte dei casi ha permesso la permanenza prolungata di persone all’interno degli aeroporti senza che gli stati nazionali potessero o volessero intervenire. Spesso è anche descritta come causa di ambiguità e difficoltà nelle procedure di gestione dei flussi migratori: difficoltà che possono favorire pratiche illegittime e violazioni dei diritti dei cittadini stranieri autorizzati a entrare in un determinato territorio.

Ci sono poi casi di persone la cui lunga permanenza in aree aeroportuali fuori dalla “zona franca” del transito è una scelta volontaria, una forma di protesta o l’evoluzione eccezionale di condizioni di indigenza o di fragilità psichica.

Le permanenze più lunghe
Nel 2015 il quotidiano spagnolo El País raccontò la storia di Denis Luiz de Souza, un allora 32enne brasiliano che non aveva mai preso un aereo ma che viveva all’interno del Terminal 2 dell’aeroporto di San Paolo-Guarulhos, il più grande dell’America latina, da quando aveva più o meno 17 anni. Avendo lui perso la cognizione del tempo, a calcolare la data approssimativa del suo ingresso furono i funzionari dell’aeroporto, con i quali nel corso degli anni aveva fatto conoscenza e costruito relazioni stabili.

Rimasto orfano e affidato a una famiglia dai servizi sociali del comune di Guarulhos, Denis lasciò casa in seguito a un litigio e non fece più ritorno. «Fa favori a tutti, è molto onesto, parla e scherza con tutti», disse al País una dipendente di un bar dell’aeroporto. A occuparsi della sua sussistenza era quasi tutto il personale al lavoro nell’aeroporto, persone che gli davano da mangiare, lavavano i suoi vestiti e sistemavano le sue cose all’interno di una cabina telefonica che era diventata una specie di suo guardaroba. In cambio, lui si occupava di sbrigare piccole commissioni.

La storia di Denis, concluse il País, riguardava un fenomeno più ampio: non era molto diversa da quella di altre persone – almeno altre cinque, nel 2015 – arrivate in aeroporto senza alcun bagaglio e senza alcuna intenzione di salire su un aereo. Persone che non avevano un posto migliore in cui vivere e che si aggiravano stabilmente all’interno del Terminal.

Una storia con caratteristiche simili è quella del cittadino turco Bayram Tepeli, considerato la persona che ha vissuto più a lungo all’interno di un aeroporto: circa 27 anni, dal 1991 al 2019, nell’aeroporto Atatürk a Istanbul. Tepeli lasciò la sua città di nascita – Gemlik, nella provincia turca di Bursa – quando aveva 26 anni, e trovò lavoro a Istanbul in una ditta di pulizie.

Cominciò quindi a lavorare in aeroporto, dove non avrebbe avuto il problema «di trovare un posto in cui stare», gli disse il suo ex capo. E continuò a lavorare e vivere all’interno  dell’aeroporto di Istanbul fino al 2008, quando smise di lavorare per problemi di salute. Restò comunque lì fino al 2019, l’anno in cui l’aeroporto fu definitivamente chiuso per i voli commerciali e lui si trasferì all’aeroporto Sabiha Gökçen, a sud est di Istanbul. Ai giornalisti che si interessarono alla sua storia, Tepeli disse di essere grato al personale dell’aeroporto, dai dipendenti pubblici ai negozianti agli agenti di polizia, per non averlo mai lasciato «solo né affamato».

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Un’altra lunga permanenza in un aeroporto è quella attribuita a un cittadino cinese chiamato Wei Jianguo che dal 2008 vive nel Terminal 2 dell’aeroporto di Pechino-Capitale, il principale scalo aeroportuale della città. Dopo aver lavorato in fabbrica per vent’anni, Wei fu licenziato quando ne aveva 40 e decise di non cercare altri lavori e di andare a vivere nell’aeroporto, lasciando i suoi familiari e la sua casa, dove disse di non avere la libertà di bere né di fumare.

Le ragioni politiche e diplomatiche
Nel 2004 un uomo nato in Kenya, Sanjay Shah, tentò di entrare in Regno Unito dopo aver preso un volo dall’aeroporto Jomo Kenyatta, a Nairobi, ma fu rimandato indietro dalle autorità di frontiera dell’aeroporto di Heathrow. Per salire a bordo aveva utilizzato un passaporto da cittadino britannico d’oltremare, un particolare status giuridico delle persone nate nelle colonie britanniche: Shah era nato nel 1962, un anno prima che il Kenya ottenesse l’indipendenza.

Sebbene si considerasse a tutti gli effetti un cittadino del Regno Unito in virtù di una legge del 2003 che consentiva ai cittadini britannici d’oltremare di ottenere la piena cittadinanza, Shah non aveva ancora sbrigato le pratiche necessarie per ottenerla al momento del suo arrivo nel Regno Unito, dove contava di fare visita ad alcuni suoi familiari che si trovavano già lì. Il suo passaporto gli avrebbe permesso di rimanere soltanto pochi mesi, e il fatto che viaggiasse con un biglietto di sola andata insospettì i funzionari dell’aeroporto, che gli negarono l’accesso e lo rimandarono in Kenya dopo aver inserito sul suo passaporto la dicitura «prohibited immigrant».

Una volta tornato in Kenya, Shah – che aveva rinunciato alla sua cittadinanza kenyota prima di partire per il Regno Unito – rimase all’interno dell’aeroporto per 13 mesi in segno di protesta e per paura che la sua storia smettesse di generare interesse. E nel luglio 2005 ottenne la cittadinanza britannica.

aeroporto “Jomo Kenyatta”

Una sala nell’aeroporto “Jomo Kenyatta” a Nairobi, in Kenya, il 31 luglio 2020 (Dennis Sigwe/SOPA Images via ZUMA Wire)

Nel 2018, un uomo siriano chiamato Hassan Al Kontar, oggi quarantenne, rimase bloccato per più di sette mesi all’interno dell’aeroporto di Kuala Lumpur, in Malesia. Dodici anni prima aveva lasciato la Siria per gli Emirati Arabi Uniti, dove aveva trovato lavoro in un’agenzia di assicurazioni fino alla scadenza del suo permesso di lavoro, nel 2011, anno di inizio della guerra civile in Siria.

La sua richiesta di rinnovo del permesso era quindi stata respinta dall’ambasciata siriana negli Emirati, e Al Kontar aveva deciso di rimanere illegalmente nel paese piuttosto che tornare in Siria, dove avrebbe rischiato di essere arrestato per aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito. Nel 2017, pur avendo ottenuto un passaporto siriano valido per due anni, Al Kontar era stato arrestato dalle autorità degli Emirati e deportato in Malesia, un paese che ammette l’ingresso delle persone siriane anche prive di un permesso.

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Svolgendo lavori occasionali in Malesia grazie a un permesso provvisorio di tre mesi, Al Kontar era riuscito a comprare un biglietto aereo per l’Ecuador, dove contava di riunirsi con alcuni familiari. A febbraio 2018 non era però stato ammesso dal personale della Turkish Airlines a bordo di un aereo per Quito, né aveva ottenuto alcun rimborso per l’acquisto del biglietto. Era riuscito successivamente a prendere un aereo per Phnom Penh, in Cambogia, ma al suo arrivo le autorità aeroportuali lo avevano rimandato in Malesia.

Dal 7 marzo 2018, Al Kontar visse ininterrottamente all’interno del Terminal 2 dell’aeroporto di Kuala Lumpur, raccontando dettagliatamente sui social la sua esperienza. Il 1° ottobre fu arrestato dalle autorità malesi e trattenuto per circa due mesi in una struttura di detenzione, prima che una sua richiesta di asilo venisse accolta dal governo canadese. Oggi vive e lavora a Vancouver per la Croce Rossa canadese, dove si occupa anche di un programma di reinserimento dei rifugiati cofinanziato da Amnesty International.

È piuttosto nota anche la storia di Feng Zhenghu, uno studioso di economia e attivista cinese di cui si parlò molto nel 2009, quando rimase per quasi tre mesi all’interno dell’aeroporto internazionale di Narita, in Giappone. Pur avendo un regolare permesso delle autorità giapponesi per entrare nel paese, scelse di rimanere nell’aeroporto per protestare contro le autorità cinesi che – con la collaborazione delle compagnie aeree, che dicevano di obbedire a loro ordini – gli impedirono più volte di rientrare nel suo paese.

Feng dormiva su una panca al Terminal 1 durante le ore di chiusura dell’aeroporto, tra le 23 e le 5 del mattino, e durante il suo soggiorno ricevette anche la visita di diversi diplomatici cinesi giunti da Tokyo. Raccontò la sua esperienza tramite i social, fino a quando le autorità cinesi gli permisero di tornare in patria, il 12 febbraio 2010. Da allora, non ha avuto vita semplice: ha subìto diverse perquisizioni nel suo appartamento a Shanghai, furti e aggressioni fisiche.

Feng Zhenghu

Feng Zhenghu nell’aeroporto internazionale di Narita, in Giappone, il 14 dicembre 2009 (EPA/DAI KUROKAWA)

Suscitò interesse sulla stampa internazionale un’altra storia ambientata nell’aeroporto russo di Šeremet’evo, lo stesso in cui sarebbe poi rimasto Snowden nel 2013. Nel 2006 una dissidente iraniana in carcere per motivi politici, Zahra Kamalfar, evase durante un permesso e utilizzò documenti falsi per lasciare il suo paese insieme ai suoi due figli, di 13 e 9 anni. Riuscirono a prendere un volo per la Turchia e successivamente uno per la Russia. Da lì cercarono di prendere un volo per il Canada, dove viveva da anni il fratello di Kamalfar, ma durante uno scalo a Francoforte la polizia tedesca li bloccò e li rimandò in Russia.

A Mosca, Kamalfar e i suoi due figli restarono per mesi in arresto in un albergo della città, finché le autorità russe decisero di mandarli in aeroporto per evitare guai diplomatici con l’Iran. Rimasero al Šeremet’evo per circa 11 mesi, dormendo per terra e ricevendo da mangiare dal personale dell’aeroporto, fino a quando il governo canadese riuscì a farli imbarcare su un volo per Vancouver nel marzo 2007.

La storia che ispirò The Terminal
Sebbene tutte le storie di persone bloccate a lungo in un aeroporto abbiano molti aspetti in comune tra loro, una delle prime a ottenere grande popolarità fu quella dell’iraniano Mehran Karimi Nasseri, da cui fu esplicitamente tratto il film del 2004 The Terminal, con Tom Hanks.

Nato nel 1942 e in cattivi rapporti con la sua famiglia, Nasseri fu costretto a lasciare l’Iran quando aveva 35 anni per il suo attivismo contro lo Scià Mohammad Reza Pahlavi, l’autoritario leader alleato dell’Occidente a capo del paese prima della Rivoluzione islamica del 1979. Nei primi anni Ottanta, dopo aver presentato senza successo una richiesta di asilo politico in Regno Unito e dopo aver vagato per un po’ in giro per l’Europa, fu accolto in Belgio, dove rimase per qualche tempo prima di entrare illegalmente in Francia e perdere i suoi documenti.

Nell’agosto 1988, Nasseri fu fermato dalla polizia di frontiera al Terminal 1 dell’aeroporto “Charles de Gaulle” a Parigi, sprovvisto dei documenti necessari per rimanere in Francia e anche del documento rilasciato dal Belgio che lo riconosceva come rifugiato politico. Stava cercando di prendere un volo per raggiungere alcuni parenti in Regno Unito, dove aveva studiato per qualche tempo all’inizio degli anni Settanta. Restò quindi a vivere all’interno dell’aeroporto nella sostanziale indifferenza del Belgio, della Francia e del Regno Unito, i tre paesi in cui aveva trascorso la maggior parte del suo tempo fuori dall’Iran.

Mehran Karimi Nasseri

Mehran Karimi Nasseri all’aeroporto “Charles De Gaulle” a Parigi, l’11 agosto 2004 (AP Photo/Michel Euler)

Soltanto nel 1998, al termine di una disputa legale durata dieci anni e portata avanti da un avvocato che si era interessato al caso, a Nasseri fu permesso di lasciare l’aeroporto. Scelse però di continuare a vivere lì e non cambiò domicilio nemmeno qualche anno dopo, quando lo studio cinematografico statunitense DreamWorks gli offrì 250 mila dollari per i diritti di utilizzo della sua storia nel film diretto da Spielberg.

La permanenza di Nasseri all’aeroporto terminò nel luglio 2006, dopo 18 anni, quando fu trasportato e ricoverato in ospedale per una malattia e successivamente assistito dalla Croce Rossa francese. Della sua storia dopo quel momento non si sa molto: lasciò l’ospedale verso la fine di gennaio 2007 e rimase ad alloggiare per alcune settimane in un albergo vicino all’aeroporto, prima di essere trasferito in un centro di accoglienza a Parigi.

E Singh?
Aditya Singh, il cittadino californiano arrestato nel gennaio 2021 all’aeroporto O’Hare a Chicago, rimasto in aeroporto per «paura del Covid», fu successivamente accusato di violazione di aree riservate in aeroporto, furto e altri reati minori. Disse di aver trovato per caso il badge che aveva in seguito deciso di tenere al collo durante il periodo di tempo trascorso all’interno dell’aeroporto. Fu inoltre trovato in possesso di un mazzo di chiavi che gli davano accesso a decine di locali dell’aeroporto, che aveva raccontato di aver trovato in un bagno.

Chiamata a pronunciarsi sul caso, la giudice della contea di Cook stabilì una cauzione di mille dollari e che Singh, che non aveva alcun precedente penale, indossasse un braccialetto elettronico e non rimettesse più piede nell’aeroporto fino alla fine del processo. Definì inoltre «piuttosto scioccanti» e motivo di grande preoccupazione le circostanze che avevano reso possibile la lunga permanenza di Singh all’interno dell’aeroporto, con un falso badge identificativo in un’area sottoposta a rigorosi controlli di sicurezza.

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A ottobre 2021 Singh fu infine assolto dall’accusa di violazione di aree riservate e in seguito anche dalle altre accuse. Secondo i risultati di un’indagine condotta dalla Transportation Security Administration (TSA), l’agenzia governativa che si occupa dei controlli di sicurezza negli aeroporti degli Stati Uniti, Singh non aveva violato alcun regolamento aeroportuale: era arrivato tramite un volo regolare ed era successivamente rimasto in un’area in cui aveva diritto di accesso.

Non fu inizialmente noto cosa avesse portato Singh a Chicago, né se avesse contatti in quella città. Come chiarito soltanto in un secondo momento, il permesso di soggiorno di Singh negli Stati Uniti era in scadenza, e lui aveva in programma di tornare in India dopo aver completato un corso di studi alla Oklahoma State University e aver svolto lavori saltuari in California nei precedenti sei anni.