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  • Giovedì 24 febbraio 2022

Che rapporto ha Putin con l’epoca sovietica

Il presidente russo ripudia esplicitamente Lenin, e il suo nazionalismo ha invece dei legami con l'era staliniana e quella zarista

Un murale in Serbia, fotografato nel 2014 (AP Photo/Darko Vojinovic)
Un murale in Serbia, fotografato nel 2014 (AP Photo/Darko Vojinovic)

L’esercito russo ha invaso l’Ucraina dopo settimane di crescenti tensioni, con un attacco su larga scala ordinato dal presidente russo Vladimir Putin. Questa settimana la situazione sul confine russo-ucraino si era già aggravata dopo che Putin aveva riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche autoproclamate di Luhansk e Donetsk con un discorso pieno di distorsioni storiche che di fatto negava il diritto di esistere all’Ucraina come stato: per Putin, l’Ucraina indipendente e separata dalla Russia esiste solo perché fu creata da Lenin dopo la rivoluzione comunista.

Non è la prima volta che Putin esprime questa idea. Anche se sapere cosa pensi realmente il presidente russo e quale sia il suo disegno politico è notoriamente complicato, capire quale sia la sua valutazione storica del comunismo sovietico aiuta a comprendere meglio gli eventi di questi giorni. L’atteggiamento aggressivo e nazionalista di Putin, infatti, discende dal rifiuto di una precisa parte della storia sovietica, in particolare quella pre-staliniana.

Negli oltre vent’anni in cui è stato al potere, Putin è stato associato al periodo sovietico per diversi motivi: innanzitutto, essendo nato nel 1952 è un uomo che si è formato politicamente in quell’epoca, e fece notoriamente parte del temuto servizio segreto sovietico, il KGB. Inoltre, da quando è presidente, ha accentrato il potere su di sé attraverso modalità e strumenti non molto differenti da quelli utilizzati prima del 1991, l’anno in cui si dissolse l’Unione Sovietica.

Putin ha fatto poco o nulla per smantellare la struttura statale russa formatasi in decenni di regime sovietico, e per portare il paese verso qualcosa che assomigliasse alle democrazie occidentali, un processo che era invece stato avviato dall’ultimo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Michail Gorbaciov e dal predecessore di Putin, Boris Yeltsin.

Souvenir a San Pietroburgo (AP Photo/Dmitri Lovetsky)

Eppure nel discorso con cui ha riconosciuto le repubbliche autoproclamate, Putin ha insistito molto sulla “decomunistizzazione” e sull’Unione Sovietica, colpevole secondo lui di aver dato troppo potere alle repubbliche socialiste e aver messo le basi per l’indebolimento della Russia. Putin ha sostenuto che l’Ucraina è uno stato corrotto e comandato dagli americani, che cerca senza successo di fare i conti con il suo passato sovietico. «Volete la decomunistizzazione? Siamo pronti a mostrarvi cosa vuol dire davvero decomunistizzazione» ha detto. È una delle giustificazioni principali di Putin per l’invasione: se l’Ucraina è stata creata dal comunismo sovietico, la decomunistizzazione significa cancellarla dalle mappe.

Se dal punto di vista amministrativo Putin ha voluto mantenere alcuni aspetti del vecchio regime, in economia ha saputo invece allontanarsi dal modello sovietico, studiandone le distorsioni ed evitandole accuratamente. Per scongiurare il ripetersi dei grossi squilibri economici che ci furono in Russia nel 1986 e nel 1997, a causa dell’oscillazione del prezzo del petrolio, fin dai primi anni Duemila il governo russo ha iniziato ad accumulare grandi riserve di valuta estera per resistere agli shock finanziari. Inoltre, alcuni dei problemi più gravi dell’epoca sovietica sono stati ridimensionati: la dipendenza cronica dalle importazioni di beni agricoli, le spese militari che si mangiavano risorse per gli altri settori, la stagnazione economica.

La Russia contemporanea è ancora caratterizzata dall’arretratezza tecnologica e produttiva e dai redditi bassi di gran parte della popolazione. Tuttavia, come ha scritto di recente la rivista Foreign Affairs, l’economia russa è riuscita a ottenere due importanti obiettivi, vitali per Putin: preservare la continuità e la stabilità del governo e ridurre l’impatto delle sanzioni occidentali.

Nel 2005 in un discorso alla nazione Putin disse che la dissoluzione dell’Unione Sovietica fu «la catastrofe geopolitica più grande del secolo», causa della proliferazione dei movimenti separatisti interni alla Russia: «per il popolo russo fu un’autentica tragedia». Negli anni successivi poi è tornato periodicamente sul tema.

Lo scorso dicembre, parlando con la tv di Stato, Putin aveva detto che la fine dell’Unione Sovietica segnò la scomparsa della «Russia storica». La dichiarazione era stata commentata come un segnale dei futuri piani di Putin in politica estera, ma dice anche qualcosa sulla valutazione storica che Putin fa di quel periodo. Sia nel 2005 che nel 2021, infatti, Putin ha sottolineato l’evento secondo una prospettiva nazionalista. L’Unione Sovietica, per Putin, era funzionale all’egemonia russa sulle repubbliche sovietiche e alla prosperità del popolo russo, non alla diffusione degli ideali comunisti.

Una donna in attesa di un treno per lasciare Kiev (AP Photo/Emilio Morenatti)

Putin insomma rigetta la visione politica dei rivoluzionari che pensarono l’unione delle repubbliche socialiste sovietiche, dopo aver rovesciato il regime zarista nel 1917. L’Unione Sovietica, secondo il suo primo leader Vladimir Lenin, doveva essere una federazione di repubbliche tra loro pari, perché il vero obiettivo non era l’egemonia di un paese sull’altro bensì la diffusione della rivoluzione comunista nel mondo. Era una delle convinzioni principali anche di Lev Trotsky, che però Stalin isolò, estromise, esiliò e anni dopo fece assassinare quando diventò il leader sovietico alla morte di Lenin. Stalin sosteneva l’idea del socialismo in un solo paese, e rinunciò all’idea di esportare la rivoluzione in Europa. Diede nuova importanza alla lingua e alla cultura russe, sostituendole a quelle delle altre repubbliche sovietiche, Ucraina compresa.

Se Putin si richiama a una tradizione sovietica, è quella di questo periodo, ma per certi versi si ispira anche a quella ancora precedente al periodo comunista. Come ha ben spiegato lo storico di Harvard Sergei Plokhy, Putin di fatto vuole far tornare la storia al periodo pre-rivoluzionario: «Ha un’idea molto imperialista della nazione russa, che vede composta da russi, ucraini e bielorussi. Gli ultimi due non hanno il diritto di esistere separatamente. Siamo quasi tornati alla metà dell’Ottocento, quando i funzionari imperiali cercavano di intralciare lo sviluppo culturale ucraino».

Secondo questa visione, l’atteggiamento interventista che Putin ha avuto nelle ex repubbliche sovietiche andrebbe visto come un tentativo di ripristinare l’antica egemonia della Russia zarista, piuttosto che come una riedizione del regime sovietico. Putin nel recente passato ha dimostrato di voler mantenere uno stretto controllo anche nel Caucaso e in altre zone che erano appartenute all’impero zarista, contribuendo alla formazione di piccole repubbliche filorusse non riconosciute dalla comunità internazionale: in Georgia (Abcasia e Ossezia del Sud), in Azerbaijan (Nagorno Karabakh) e in Moldavia (Transnistria).

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