La più lunga elezione di un presidente della Repubblica di sempre

Fu quella del 1971 in cui, dopo 23 scrutini e illustri candidati “bruciati”, la spuntò infine Giovanni Leone

Keystone/Hulton Archive/Getty Images
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Dal prossimo 24 gennaio i parlamentari e i delegati regionali riuniti in seduta comune dovranno eleggere il prossimo presidente della Repubblica. L’unico che si è fatto esplicitamente avanti, anche in maniera piuttosto decisa e agguerrita, è Silvio Berlusconi, mentre gli altri possibili candidati e leader politici (quelli che i giornali chiamano “kingmaker”) temporeggiano ed evitano di proporre dei nomi, a parte quelli molto citati dell’attuale presidente Sergio Mattarella e di Mario Draghi. La situazione insomma è ancora molto incerta, e ricorda per certi versi quella che si verificò poco più di cinquant’anni fa, quando venne eletto il democristiano Giovanni Leone.

Fu un momento notevole per diversi motivi: fu la prima elezione a cui parteciparono i delegati regionali, dato che le Regioni erano state formate solo nel 1970; avvenne con una maggioranza risicata, la più ridotta di sempre, appena 13 voti in più rispetto ai 505 necessari; ma soprattutto è ancora oggi l’elezione durata più a lungo nella storia repubblicana, ben 23 scrutini.

Figlio di Mauro Leone, noto avvocato napoletano e tra i fondatori del Partito Popolare campano, Giovanni Leone fu a sua volta un importante e prolifico giurista, autore di un gran numero di pubblicazioni tradotte anche all’estero. In politica invece, si distinse per non aver aderito a nessuna corrente del suo partito, la DC, e in generale per essere restato a lungo in disparte rispetto alle lotte di potere. Quando fu eletto al Quirinale, il celebre commentatore politico Vittorio Gorresio scrisse:

Quella di Giovanni Leone, presidente della Repubblica, è una elezione che non si può considerare come un colpo di sorpresa. Tutto al contrario, si può dire che egli sia arrivato al Quirinale con un po’ di ritardo poiché nel corso della recente esperienza politica italiana, a cominciare per essere esatti dal maggio 1962, egli è stato visto più volte come il jolly di riserva, la carta buona da cavare dalla manica nei momenti difficili.

Leone non a caso guidò ben due di quei governi cosiddetti “balneari”, cioè esecutivi di transizione nominati in momenti di stallo politico, che gestiscono l’ordinaria amministrazione in attesa delle condizioni più adatte alla formazione di una vera maggioranza politica. Spesso venivano formati in tarda primavera, per posticipare la risoluzione della crisi politica a settembre o per evitare delle improponibili elezioni in estate. Dato che i governi guidati da Leone coprirono entrambi i mesi estivi, nel 1963 e nel 1968, vennero soprannominati per l’appunto “balneari”.

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Peraltro Leone aveva mancato per poco l’elezione a presidente della Repubblica già nel 1964, quando fu eletto il socialdemocratico Giuseppe Saragat. In quell’occasione Leone era il candidato ufficiale della DC, ma ci fu la forte opposizione dei “franchi tiratori” della corrente di Amintore Fanfani, che proprio a partire da quella votazione cominciò ad aspirare al Quirinale. Alla fine tra la debolezza della candidatura di Leone e quella complicata portata avanti dalla sinistra – il leader storico socialista Pietro Nenni – ebbe la meglio Saragat.

Sette anni dopo, i nomi non erano cambiati molto. Il mandato di Saragat scadeva il 29 dicembre 1971. All’epoca il sistema politico era in un momento di transizione e veniva da un decennio in cui la DC e il Partito Socialista avevano faticosamente dato vita a diversi governi di centrosinistra, con l’appoggio di repubblicani e socialdemocratici. La formula cominciava a dare segnali di stanchezza, ma dato il sistema bloccato al centro per via dell’esclusione del Partito Comunista dal governo, alla DC non rimanevano altre alternative se non i governi monocolore, cioè sostenuti solamente dalla DC.

In primo piano Antonio Segni, presidente della Repubblica tra il 1962 e il 1964, insieme a Giovanni Leone e sua moglie Vittoria Michitto all’ippodromo delle Capannelle (ANSA/OLDPIX)

Il futuro presidente della Repubblica avrebbe contribuito a segnare l’indirizzo politico dei successivi sette anni, perciò la DC arrivò all’elezione del 1971 decisa a far eleggere Fanfani, leader democristiano di lungo corso che avrebbe dato una forte impronta alla presidenza e auspicabilmente trovato nuove formule politiche. Fanfani era però un personaggio controverso, che provocava fastidi sia all’interno del suo stesso partito che fuori, perciò la dirigenza democristiana andò da Leone a chiedergli se fosse disponibile a subentrare a Fanfani in caso di fallimento della candidatura. I partiti di sinistra proposero invece l’ex segretario socialista Francesco De Martino, un cosiddetto candidato “di bandiera”, cioè presentato per prendere tempo sapendo che non sarebbe stato votato dagli altri partiti.

Eppure nei primi scrutini De Martino superò più volte Fanfani, che non riusciva a ottenere neanche 400 voti. Fu in questa elezione che qualcuno scrisse nel suo biglietto per votare «Nano maledetto non sarai mai eletto», rivolgendosi evidentemente a Fanfani, che non era molto alto e che in qualità di presidente del Senato poteva assistere al conteggio delle schede.

C’erano insomma molti “franchi tiratori” democristiani che non volevano saperne di votare per Fanfani. Al settimo tentativo, la DC decise di astenersi dalle successive votazioni non presentandosi in aula per non disperdere i propri voti e far maturare il consenso attorno a Fanfani, ancora candidato ufficialmente. Quando però i democristiani ci riprovarono all’undicesimo scrutinio prese di nuovo oltre cento voti in meno rispetto alla soglia necessaria per essere eletti (quorum).

La candidatura di Fanfani era ormai evidentemente “bruciata”, come si dice nel gergo giornalistico, cioè era fallita. Era necessario cambiare nome per risolvere lo stallo, ma nel frattempo la candidatura di riserva di Leone era insidiata da un nuovo nome emerso durante le votazioni, che avrebbe potuto ricevere il sostegno della sinistra: Aldo Moro, allora ministro degli Esteri nel governo Colombo.

Moro era democristiano come Fanfani, ma raccoglieva consensi ben più larghi per la sua tendenza al dialogo e all’apertura. Del resto sarebbe stato il principale fautore del cosiddetto compromesso storico, il progetto di avvicinamento tra la DC e il Partito Comunista che si sviluppò dalla metà degli anni Settanta in poi. La candidatura al Quirinale del 1971, quindi, avrebbe potuto essere una sorta di preludio del compromesso storico, ma parte della dirigenza democristiana non era d’accordo e riteneva che i tempi non fossero adatti: Moro al Quirinale avrebbe spostato troppo l’equilibrio politico verso sinistra, mentre Leone era un personaggio con meno connotazioni che eventualmente avrebbe potuto gestire anche un dialogo con la destra (che effettivamente poi ci fu, con il Partito Liberale).

La sera del 21 dicembre ci fu una riunione con i gruppi parlamentari della DC per decidere chi candidare tra Leone e Moro. Venne scelto Leone con uno scarto di pochi voti.

La sinistra rispose cambiando candidato e puntando su Pietro Nenni, eroe della Resistenza e leader storico del PSI. Al ventiduesimo scrutinio Nenni prese 408 voti e Leone 503, uno in meno rispetto al quorum (che in quel momento era di 504 a causa della morte improvvisa di un senatore democristiano). Venne eletto infine allo scrutinio successivo, la vigilia di Natale, con 518 voti, grazie al sostegno determinante del Movimento Sociale Italiano, il partito di destra radicale fondato da Giorgio Almirante, ex funzionario del regime fascista.

Leone giurò il 29 dicembre, giorno della scadenza del mandato di Saragat. Nei giorni precedenti le più alte cariche dello Stato e alcuni costituzionalisti si erano interrogati per la prima volta su cosa fare se le votazioni fossero proseguite oltre il 29 dicembre, decidendo infine che i poteri del presidente della Repubblica in carica sarebbero stati prorogati.

Quando Leone fu proclamato presidente della Repubblica venne omaggiato dall’aula con un applauso di rito, seguito da un altrettanto lungo applauso per il candidato sconfitto, Nenni. Valdo Spini, vicesegretario del PSI tra il 1981 e il 1984, nel suo libro Sul colle più alto lo ricorda come un gesto sportivo nei confronti di un «vecchio combattente politico che vedeva venir meno l’ultima possibilità di essere eletto alla massima carica dello Stato».

Leone non fu in generale un presidente molto amato, anche per via di certe sue gaffe, come quando fece le corna come gesto scaramantico mentre era in visita a un ospedale di Napoli nel periodo in cui c’era un’epidemia di colera in alcune regioni del Centro-Sud. Ma fu anche oggetto di una campagna fortemente denigratoria, soprattutto da parte dell’Espresso, della giornalista Camilla Cederna e del Partito Radicale, che lo accusarono di essere coinvolto in uno scandalo di tangenti, il cosiddetto scandalo Lockheed. Il nome deriva da quello di un’azienda americana produttrice di aerei che nel 1976 rivelò di aver pagato importanti politici di diversi paesi, tra cui l’Italia, per ottenere grosse commesse.

Le critiche e i sospetti non erano rivolti solo verso di lui, ma anche al suo stile di vita, ai suoi familiari e a persone a lui vicine. Con la stampa contro e sempre più isolato politicamente, Leone si dimise il 15 giugno 1978, sei mesi prima della scadenza del suo mandato. Tempo dopo emerse che le accuse che gli venivano rivolte erano in gran parte infondate, e nel 1998 i radicali Marco Pannella ed Emma Bonino chiesero scusa a Leone con una lettera pubblica.

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