Quanto funzionano i vaccini contro omicron

Proteggono meno contro l'infezione, ma sembrano comunque efficaci nel prevenire le forme gravi di COVID-19, specialmente dopo la terza dose

(Bodo Schackow/dpa-Zentralbild/dpa via Getty Images)
(Bodo Schackow/dpa-Zentralbild/dpa via Getty Images)

Dopo meno di un mese dalla sua identificazione nell’Africa meridionale, la variante omicron è ormai diffusa in almeno 70 paesi e sta portando a un marcato aumento dei contagi. Le ricerche sulle sue caratteristiche sono ancora in corso, ma un numero crescente di studi preliminari sta segnalando come i vaccini contro il coronavirus a oggi disponibili proteggano poco da un’infezione da omicron. Questo non significa in alcun modo che vaccinarsi sia poco utile per sé o per gli altri: i vaccini continuano infatti a offrire un’importante protezione contro le forme gravi della COVID-19, che fanno aumentare il rischio di ricovero in ospedale e di morte, specialmente tra i soggetti più deboli.

Se non ci fossero stati i vaccini, nei mesi scorsi avremmo assistito a un’ondata da variante delta molto più violenta di quanto non sia effettivamente stata.

Vaccini e sistema immunitario
La vaccinazione spinge il nostro organismo a produrre un maggior numero di cellule immunitarie, che a loro volta producono anticorpi e altre molecole, che tendono poi a ridursi nel corso del tempo.

La memoria rimane in alcune cellule (linfociti B e T), che terranno d’occhio l’organismo nel caso di infezioni vere e proprie in futuro. Esistono poi ulteriori meccanismi di regolazione della risposta immunitaria, alcuni dei quali non sono ancora oggi completamente noti ai ricercatori.

Omicron e vaccini
Con l’emersione della variante omicron, che presenta decine di mutazioni, diversi gruppi di ricerca si sono chiesti se i vaccini sviluppati finora mantenessero la loro efficacia ed entro che misura. Per trovare una prima risposta, in attesa dei dati sulla popolazione, i gruppi di ricerca hanno condotto alcuni test di laboratorio dove si mettono alla prova gli anticorpi che si sviluppano con la vaccinazione contro la variante.

I risultati ottenuti sono ancora preliminari e in attesa di essere rivisti da altri ricercatori, mentre nel frattempo si stanno cercando le prime conferme attraverso il confronto su cosa stia accadendo nel mondo reale, fuori dai laboratori.

La maggior parte degli studi ha riscontrato la capacità di omicron di sfuggire a parte delle difese che il nostro sistema immunitario sviluppa, in seguito alla vaccinazione o a un’infezione vera e propria con le precedenti varianti del coronavirus. Uno studio svolto in Sudafrica ha rilevato che la capacità del vaccino di Pfizer-BioNTech di bloccare un’infezione da omicron è passata al 33 per cento con l’inizio della ondata dovuta alla nuova variante, rispetto all’80 per cento rilevato con le precedenti varianti. Il vaccino si è però rivelato un’importante risorsa nel prevenire i ricoveri, mantenendo una capacità del 70 per cento (in precedenza era del 93 per cento).

Un altro studio condotto nel Regno Unito, dove è in corso un’ondata causata da omicron piuttosto sostenuta, ha rilevato che due dosi di Pfizer-BioNTech sono efficaci al 30 per cento nel prevenire la comparsa di sintomi. È bene ricordare che per la maggior parte dei vaccinati eventuali sintomi da COVID-19 sono solitamente lievi e di breve durata, con rari casi in cui la malattia progredisce rendendo necessario un ricovero in ospedale.

Altre difese e reinfezioni
Diversi altri studi hanno rilevato una riduzione nel livello di anticorpi, anche se l’entità della diminuzione varia sensibilmente a seconda delle ricerche. Come abbiamo visto, gli anticorpi neutralizzanti non sono comunque l’unica risorsa che utilizza il nostro organismo per contrastare un’infezione. Le ricerche sono in corso per valutare la protezione offerta dai linfociti T: per ora sembra che queste cellule riconoscano il virus da parti non interessate dalle mutazioni di omicron, di conseguenza la variante non dovrebbe sfuggire al loro controllo e al mantenimento di una certa immunità contro lo sviluppo delle forme più gravi della malattia.

L’immunità contro l’infezione, cioè quella che riduce altamente il rischio di ammalarsi in prima istanza, tende invece a diminuire nel corso del tempo come inevitabilmente avviene con molte altre malattie. Questa riduzione combinata alle numerose mutazioni di omicron fa sì che ci siano maggiori rischi non solo di subire l’infezione, ma anche che questa riguardi persone che si erano già contagiate con le versioni precedenti del coronavirus.

Un’analisi svolta dall’Imperial College di Londra ha per esempio segnalato che la probabilità per i guariti di subire un’infezione da omicron è cinque volte più alta rispetto a quella comportata dalla variante delta. Altri studi condotti in Sudafrica hanno evidenziato una situazione simile, segnalando come chi aveva subìto il contagio durante la prima ondata ha un rischio di infettarsi con la omicron di poco inferiore rispetto a chi non ha mai contratto il coronavirus.

Richiamo
La somministrazione di una dose di richiamo (la seconda dose per chi si era vaccinato con Johnson & Johnson, la terza per gli altri) sembra migliorare sensibilmente le cose, specialmente nel caso dei vaccini a base di mRNA, ormai i più utilizzati in Italia e in diversi altri paesi occidentali.

La dose di rinforzo induce una nuova moltiplicazione delle cellule immunitarie, che a loro volta producono nuovamente anticorpi, da subito disponibili per contrastare una nuova infezione. Gli anticorpi nel corso del tempo tendono nuovamente a svanire, ma il processo fa sì che alla fine rimanga una quantità maggiore di cellule immunitarie, che potranno offrire una risposta più immediata ed efficace nel caso di una nuova infezione.

Attraverso il sistema linfatico, l’autostrada del nostro sistema immunitario, alcune di queste cellule raggiungono i linfonodi, dove attraverso mutazioni diventano via via più abili nel produrre anticorpi altamente specifici contro la minaccia che hanno incontrato. Questo processo (“maturazione dell’affinità”) è alla base della costruzione di una migliore protezione contro le malattie. In natura avviene con la ripetuta esposizione ai patogeni (quasi sempre ammalandosi), mentre con i vaccini tramite la somministrazione di dosi aggiuntive quando necessario.

Questo effetto di rinforzo viene in parte raggiunto con la seconda dose dei vaccini contro il coronavirus, ma già prima dell’emersione di omicron si era iniziato a constatare che due somministrazioni non fossero sempre sufficienti per stimolare la massima produzione possibile di nuove cellule immunitarie.

Studi condotti in laboratorio nelle ultime settimane hanno rilevato un aumento significativo di anticorpi neutralizzanti dopo la dose di richiamo, tale da essere considerato adeguato per contrastare un’eventuale infezione da omicron. I primi dati raccolti da Moderna, uno dei principali produttori di vaccini a mRNA contro il coronavirus, indicano che la somministrazione di una dose aggiuntiva dopo quelle del primo ciclo vaccinale fa aumentare sensibilmente il livello di anticorpi e offre una migliore protezione contro le forme gravi della malattia.

I dati sugli effetti dei richiami non sono ancora molto solidi, sia perché la quantità di persone con terza dose è ancora ridotta in molti paesi, sia perché devono essere considerate molte altre variabili sull’andamento della pandemia nei diversi paesi. Vista comunque la velocità con cui si sta diffondendo omicron, molti governi hanno scelto di accelerare il più possibile la somministrazione dei richiami.

Contagi
Dai dati disponibili sembra sempre più evidente che in questa fase i vaccini potranno fare poco nel contenere l’aumento dei contagi, proprio perché mostrano una minore efficacia nel ridurre il rischio di infezione, ma continuano comunque a essere essenziali per proteggere dalle forme gravi di COVID-19. Non è una cosa da poco e potrebbe fare la differenza rispetto alle ondate precedenti, specialmente nei paesi con un alto tasso di vaccinati come l’Italia.

Meno persone sviluppano sintomi gravi grazie ai vaccini, meno ricoveri sono necessari in ospedale.

Nelle prime ondate della pandemia, gli ospedali furono messi sotto fortissimo stress a causa dell’alto numero di malati di COVID-19 che arrivavano nelle loro strutture. Ne risentirono fortemente i sistemi sanitari, che per mesi non furono in grado di fornire un’assistenza adeguata non solo ai ricoverati a causa del coronavirus, ma anche a chi aveva altri problemi di salute indipendenti dalla pandemia.

Forse anche a causa di alcune scelte comunicative da parte delle istituzioni, tese a incentivare il più possibile le vaccinazioni, nell’ultimo anno è spesso passata l’idea che un vaccino “o funziona o non funziona”, come se proteggesse completamente o per nulla dal coronavirus. In realtà, nessun vaccino è efficace al 100 per cento e la sua efficacia non dipende solamente da come è stato sviluppato, ma anche da come è fatto ciascuno di noi (e siamo tutti diversissimi) e da molti altri fattori ambientali e comportamentali.

È quindi inevitabile che alcune persone vaccinate si ammalino lo stesso di COVID-19. Con una variante come omicron, che elude in parte la protezione dei vaccini contro l’infezione, il rischio è che contraggano il coronavirus in poco tempo molte più persone di quanto accaduto in precedenza e che quindi i rari casi in cui il vaccino non protegge dalla malattia siano in termini assoluti molti. Detta più brutalmente: se si contagiano tantissime persone è inevitabile che ci siano poi più malati, anche tra i vaccinati.

Al tempo stesso, la vaccinazione (con il richiamo) riduce il rischio di sviluppare sintomi gravi e di conseguenza quello di un ricovero in ospedale o di morte: in tutte le fasce di età, la stragrande maggioranza dei ricoveri in terapia intensiva e decessi da COVID-19 riguarda persone che non si erano vaccinate. Oltre a ridurre il proprio rischio personale, i vaccini contribuiscono a ridurre la pressione sugli ospedali, salvando vite anche in questo modo.