Che cos’è “l’efficacia di un vaccino”

Una rapida guida per capirlo, visto che ne sentiamo parlare da settimane, con annesse speranze di fermare la pandemia da coronavirus

(University of Oxford/John Cairns via AP, File)
(University of Oxford/John Cairns via AP, File)

Nelle ultime settimane alcune aziende farmaceutiche e centri di ricerca hanno diffuso i primi dati sull’efficacia dei loro vaccini contro il coronavirus, comunicando risultati migliori delle attese. Pfizer e BioNTech hanno rilevato un’efficacia del 95 per cento del loro vaccino, Moderna del 94,5 per cento e AstraZeneca del 70 per cento circa, anche se su quest’ultimo si sono accumulati alcuni dubbi. L’efficacia rilevata durante le sperimentazioni racconta però solo una parte della storia.

Leggendo “efficacia del 95 per cento” si potrebbe pensare che un vaccino protegga – in condizioni normali – 95 persone su 100 dalla COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, ma le cose sono più complicate di così. I test clinici non possono per loro natura mostrare che cosa accadrà realmente tra la popolazione, una volta che i vaccini saranno somministrati a milioni di individui nella comunità: forniscono insomma un’efficacia stimata, inevitabilmente diversa da quella di comunità, che diventa nota solo dopo l’impiego del vaccino per diverso tempo.

Efficacy vs effectiveness
In inglese l’efficacia misurata nei test clinici viene definita efficacy, mentre quella misurata poi nel mondo reale effectiveness. In italiano si tende a utilizzare sempre il termine “efficacia”, e questo può generare qualche incomprensione. Da qui in poi useremo efficacia per quella rilevata nei test clinici e efficacia nella comunità per quella valutata in condizioni reali su larga scala.

Cosa vuol dire “efficacia del 95 per cento”
Il principio seguito per valutare la bontà di un vaccino sperimentale è più o meno lo stesso da un secolo. I ricercatori dividono i partecipanti alla sperimentazione in due gruppi: il primo riceve il vaccino, mentre il secondo riceve una sostanza che non fa nulla (placebo). I volontari conducono normalmente la loro vita, come qualsiasi altro individuo, e realisticamente alcuni di loro entrano in contatto con l’agente che causa la malattia per la quale è in sperimentazione il vaccino.

Dopo un po’ di tempo, i ricercatori raccolgono i dati su quanti volontari si siano ammalati tra i vaccinati e quanti tra quelli con il placebo.

Pfizer e BioNTech, per esempio, hanno condotto l’ultima fase (di 3) del loro test clinico su 44mila volontari, e hanno poi atteso che ce ne fossero almeno 170 con sintomi da COVID-19, confermati da un successivo esame per rilevare la presenza di un’infezione da coronavirus. Di questi, 162 avevano ricevuto il placebo e 8 avevano invece ricevuto il vaccino sperimentale vero e proprio.

Partendo da questi numeri, i ricercatori hanno calcolato il rapporto tra malati e sani in ciascun gruppo. In entrambi i casi hanno ottenuto numeri molto bassi, ma quello nel gruppo dei vaccinati era estremamente più basso rispetto a quello di chi aveva ricevuto il placebo. I ricercatori hanno poi impiegato questi rapporti per ottenere un valore percentuale con cui esprimere l’efficacia del vaccino.

Esempio
Per semplificare un poco, immaginiamo che i volontari coinvolti nel test clinico fossero 30, suddivisi in un gruppo da 18 sottoposto al vaccino, e in un gruppo da 12 che aveva ricevuto il placebo. Nel primo gruppo si sono ammalati in 2, nel secondo in 5.

Il gruppo dei vaccinati ha quindi avuto 2 malati su 18 → 218

Il gruppo del placebo ha invece avuto 5 malati su 12 → 512

Per calcolare l’efficacia si segue questa formula:

[(512 218) / 512] • 100 = 73,3 → efficacia del 73,3%

In breve
L’efficacia indica quindi in percentuale la differenza relativa tra i due rapporti nei rispettivi gruppi. Se non c’è differenza tra i due gruppi, il vaccino ha un’efficacia dello 0 per cento; se nessuno dei volontari vaccinati si fosse ammalato, l’efficacia sarebbe stata del 100 per cento.

Efficacia nella comunità
I risultati tra il 90 e il 95 per cento annunciati in questi giorni sono una buona notizia e un’indicazione sulle potenzialità dei vaccini contro il coronavirus, ma non dicono comunque quali siano le probabilità di ammalarsi anche se si è stati vaccinati.

Come abbiamo visto l’efficacia viene determinata nel corso dei test clinici, condotti su un numero limitato di individui (per quanto piuttosto grande con decine di migliaia di volontari) e con un numero di variabili inferiore rispetto a quelle con cui ci si confronta quando si vaccinano milioni di persone.

Nella migliore delle ipotesi l’efficacia dei vaccini sarà rispecchiata dall’efficacia nella comunità, ma secondo gli esperti difficilmente si raggiungeranno corrispondenze così alte. Le loro valutazioni sono basate su esperienze precedenti con altri vaccini, che quasi sempre si sono mostrati meno efficaci nella comunità rispetto alla loro fase di sperimentazione.

Asintomatici
I test clinici sono stati condotti per valutare la capacità dei vaccini sperimentali di proteggere dalla COVID-19: i volontari che sviluppavano sintomi venivano sottoposti a un test per verificare o meno se il loro malessere fosse dovuto al coronavirus. Sappiamo però che molti individui contraggono il coronavirus, ma non sviluppano sintomi: sono asintomatici. Non si può escludere che diversi volontari dei test clinici ricadessero in questa categoria e non avendo sintomi non siano stati testati, cosa che influirebbe sulla stima dell’efficacia del vaccino.

In questi mesi sono stati raccolti dai ricercatori diversi indizi sul fatto che gli asintomatici siano in grado di diffondere inconsapevolmente il virus, anche se forse con meno capacità di contagiare il prossimo rispetto ai sintomatici. Ci potrebbero quindi essere individui vaccinati che contraggono ugualmente un’infezione da coronavirus senza sviluppare sintomi e rimanendo per qualche giorno contagiosi. Se in questo periodo non utilizzassero le mascherine o non mantenessero il distanziamento fisico, pensando di non costituire una minaccia perché vaccinati, potrebbero comunque infettare altre persone.

Influenza
I vaccini antinfluenzali consentono di salvare ogni anno milioni di vite in tutto il mondo, e sono un buon esempio per farsi un’idea sull’efficacia dei vaccini.

La loro efficacia nella comunità è inferiore rispetto all’efficacia perché le stime sono effettuate sulla base dei dati sulle sindromi simil-influenzali, non essendo possibile testare ogni sintomatico per verificare la presenza o meno dei virus dell’influenza. Ci sono poi altre variabili che rendono difficile la valutazione dell’efficacia nella comunità: ogni anno il vaccino deve essere calibrato sui ceppi virali in circolazione, la diffusione dei virus influenzali è diversa a seconda degli anni e ci possono essere errori nella previsione delle varianti del virus che circoleranno di più nella stagione fredda.

Nel corso del tempo i ricercatori sono diventati comunque più abili nel fare previsioni e nel modulare i vaccini antinfluenzali, ottenendo un’efficacia nella comunità superiore al 50 per cento, anche grazie al maggior numero di individui vaccinati.

Efficacia e diffusione
In linea generale, un vaccino non protegge solo il vaccinato, ma anche le persone che ha intorno. I vaccinati contribuiscono a rallentare la diffusione di una malattia, nel migliore dei casi fino a fermarla del tutto. Grazie a un enorme sforzo internazionale, il vaccino contro il vaiolo ha per esempio permesso di eradicare la malattia negli anni Settanta, contribuendo a salvare milioni di vite.

Come insegna l’eradicazione del vaiolo, l’efficacia da sola non è un buon parametro per valutare le potenzialità di un vaccino. La sua disponibilità, la capacità dei sistemi sanitari di somministrarlo e la possibilità di realizzare campagne vaccinali coordinate e su larga scala sono elementi altrettanto importanti per determinare il successo di un vaccino.