C’è agitazione dentro il CNR

I ricercatori del centro di ricerca più grande del paese chiedono contratti a tempo indeterminato e più opportunità di carriera

La protesta dei ricercatori precari davanti alla sede del CNR, a Roma (Twitter/Precari Uniti)
La protesta dei ricercatori precari davanti alla sede del CNR, a Roma (Twitter/Precari Uniti)

Mercoledì 28 luglio, a Roma, le scale che da piazzale Aldo Moro portano alla sede del CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, sono state coperte dagli striscioni di protesta dei ricercatori precari che da anni chiedono un contratto stabile. Sono arrivati a Roma da ogni parte d’Italia, molti da Firenze e da Napoli, con lo slogan “precari uniti”, per chiedere con forza la stabilizzazione di quasi 400 persone che alla fine dell’anno rischiano di rimanere senza lavoro.

Le storie di queste persone sono tutte molto simili e raccontano le diffuse condizioni di precariato nel centro di ricerca più grande del paese, dove lavorano settemila tra ricercatrici, ricercatori e tecnologi, e che spesso è definito un “centro d’eccellenza italiano”, secondo una formulazione piuttosto abusata. «Basta precariato al CNR», «Precari usa e getta», hanno scritto sugli striscioni appoggiati sui tredici scalini all’ingresso della sede nazionale. Molti indossavano una maschera bianca, simbolo dell’anonimato e della sfiducia degli ultimi anni.

Dopo aver manifestato di fronte al CNR si sono spostati davanti alla sede del ministero dell’Università e della ricerca, che secondo i ricercatori precari non ha stanziato abbastanza fondi per stabilizzare tutti, come era stato promesso.

Oltre ai precari, negli ultimi giorni hanno protestato anche altri ricercatori del CNR, assunti a tempo indeterminato e ancora fermi al primo livello contrattuale, senza grandi possibilità di carriera nonostante anni di esperienza nei laboratori del Consiglio Nazionale della Ricerche. Anche loro chiedono che vengano rispettate le promesse: in 800 sono risultati idonei ai requisiti richiesti da un concorso per migliorare il loro livello contrattuale, ma il Consiglio di amministrazione ha deciso di utilizzare parte dei soldi del concorso, 6 milioni di euro, per alimentare il fondo di Tutela Rischi, che serve per coprire le spese di eventuali contenziosi: è una destinazione completamente diversa rispetto agli obiettivi per cui erano stati stanziati.

Diverse nella forma e negli obiettivi, le proteste dei ricercatori sono accomunate dallo «stato di sofferenza e frustrazione professionale» denunciato da centinaia di persone che hanno aderito alle due manifestazioni – la prima più concreta e combattiva, la seconda più pacata e istituzionale – per chiedere condizioni di lavoro migliori e garanzie per il futuro.

Lorenzo Marconi è un fisico e nel mondo accademico è considerato ancora giovane, nonostante i suoi 43 anni: è ricercatore precario del CNR a Firenze, e mercoledì scorso era davanti alla sede nazionale di Roma insieme a molti altri colleghi con una storia professionale simile alla sua. Dopo la laurea, nel 2002 Marconi iniziò un dottorato di ricerca concluso nel 2006: si occupava di onde gravitazionali.

Il suo lavoro era finanziato in parte dall’ESA, l’agenzia spaziale europea, che dopo una riorganizzazione dei finanziamenti decise di chiudere l’esperimento. Marconi continuò a lavorare da precario nella sede di Firenze come fisico, a volte pagato dall’università di Firenze, a volte dal CNR. «Sono in tanti nella mia situazione: ci siamo ritrovati nel mezzo della carriera con le spalle scoperte», spiega. «Spesso inciampi non per colpa tua. Ho seguito una strada e mi sono ritrovato da solo: se ti vengono tolti i finanziamenti o se il professore con cui lavori va in pensione diventi l’ultimo della fila e devi ricominciare da capo, in un ambiente nuovo. Ho passato il trenta per cento del mio tempo a fare concorsi, a preparare domande, e come me moltissimi colleghi che ora chiedono solo dignità».

Nel 2018 gli si presentò un’opportunità di stabilizzazione con la legge Madia, approvata per rimediare all’abuso decennale di contratti a termine, prestazioni occasionali e borse di studio nei centri di ricerca italiani. Una prima tornata di finanziamenti consentì di assumere al CNR 1.070 persone che fino a quel momento lavoravano con contratti precari. Settecento persone rimasero temporaneamente escluse, nonostante avessero i requisiti di legge, in attesa di nuovi fondi necessari per far scorrere la graduatoria. I soldi arrivarono a giugno 2019, quando vennero assunti altri 104 precari, e a luglio 2020, un anno fa, con altre 104 assunzioni stabili. Rimasero esclusi 400 ricercatori, tra cui Marconi.

Già lo scorso anno, nonostante le misure restrittive dovute all’epidemia, i ricercatori precari manifestarono per chiedere contratti a tempo indeterminato. Con la legge di Bilancio approvata dal parlamento alla fine dello scorso anno sembrava che la condizione di precariato di questi 400 ricercatori dovesse finire. Ma nei giorni scorsi, quando il ministero dell’Università e della ricerca ha pubblicato il decreto di riparto dei soldi tra tutti gli enti di ricerca, è emerso che rispetto ai 25 milioni previsti erano stati attribuiti al CNR solo 3 milioni e 315 mila euro, sufficienti a stabilizzare solo 51 ricercatori. «I nostri contratti precari non si possono più prorogare e a dicembre scadranno le graduatorie che durano tre anni: rischiamo di rimanere a casa», dice Marconi. «Non accetto che a 43 anni mi dicano che non vado più bene per questo mondo, dopo tutti questi anni di lavoro e sacrifici».

Mercoledì scorso la presidente del CNR Maria Chiara Carrozza ha incontrato i lavoratori precari per rassicurarli: fin da subito inizierà una trattativa con i rappresentanti sindacali – Flc Cgil, Fir Cisl e Uil Rua – per trovare una soluzione definitiva per tutti i 400 precari del CNR. Un primo incontro è in programma martedì 3 agosto. I sindacati dicono che le risorse economiche ci sono «e vanno spese subito»: il CNR dispone di 22,8 milioni di euro assegnati nel 2021 per le funzioni fondamentali, più quattro milioni del fondo stabilizzazioni. A questi si aggiungono i poco più di tre milioni previsti dal decreto ministeriale 614 per le stabilizzazioni. Il decreto prevede lo stanziamento di 9,65 milioni ad altri istituti, che secondo i sindacati dovrebbero essere distribuiti diversamente.

Sono in attesa di una risposta anche gli 800 ricercatori assunti che hanno partecipato al concorso iniziato nel 2020 chiamato di “progressione interna”, cioè che dà l’opportunità ai ricercatori già assunti di diventare “primo ricercatore” o “dirigente di ricerca”.

Negli ultimi undici anni, a causa di ritardi, sono stati banditi solo due concorsi, nel 2010 e nel 2020, senza rispettare la cadenza biennale prevista dal contratto. Gli effetti di questi ritardi sono piuttosto evidenti: il 71 per cento dei ricercatori del CNR è a un livello contrattuale base, il 19 per cento è nella categoria dei “primi ricercatori” e nel restante 10 per cento ci sono i dirigenti di ricerca. Sono percentuali molto sproporzionate rispetto ad altri istituti di ricerca italiani o alle università, dove i ricercatori sono il 23 per cento, il 48 per cento sono professori associati e il 29 per cento professori ordinari.

Questo squilibrio ha conseguenze anche sul lavoro di ricerca e sulla competitività del CNR nei rapporti con gli altri istituti italiani e all’estero, quando si devono finanziare nuovi progetti: con stipendi e ruoli di responsabilità di livello basso, il CNR ha un potere di co-finanziamento inferiore rispetto agli altri istituti.

Un’altra conseguenza è legata alla scala gerarchica: un primo ricercatore ha più possibilità di coordinare un progetto di ricerca rispetto a un ricercatore di primo livello, a prescindere dagli anni di esperienza. Non è un caso che nei comunicati di protesta dei ricercatori si parla di questi soldi come risorse necessarie «per colmare, in minima parte, la distanza che separa ricercatori e tecnologi dal resto dell’Europa».

Il concorso per la progressione interna è iniziato nel 2020: in totale sono risultati idonei 1.334 ricercatori, ma solo 485 hanno ottenuto l’avanzamento di carriera per cui si erano candidati. Di questi, l’80 per cento è entrato nel nuovo ruolo dal 2020, mentre circa il 20 per cento solo nel 2021: questo ritardo ha permesso al CNR di risparmiare circa 6 milioni di euro che si prevedeva di spendere già a partire dal 2020. Gli altri 800 ricercatori idonei e in graduatoria, invece, non sono avanzati di livello formalmente per mancanza di fondi, che però ci sarebbero, perché garantiti dai risparmi dell’anno precedente.

I ricercatori chiedono di utilizzare tutti i soldi avanzati dallo scorso anno per garantire il passaggio di livello agli idonei che mancano. Ma il Consiglio di amministrazione del CNR ha deciso diversamente, dirottando quelle risorse economiche a un obiettivo molto diverso: un fondo chiamato “di Tutela Rischi”, che serve a coprire le spese di eventuali contenziosi.

Secondo i ricercatori, con queste decisioni la neo presidente Maria Chiara Carrozza non sta mantenendo fede alle sue parole. A fine aprile, in un’intervista a Class CNBC, Carrozza aveva detto che «i salari di ricercatori e professori sono bassi e non attrattivi, rispetto a come sono pagati altrove e al lavoro che ci vuole per arrivare a ricoprire quelle posizioni: su questo bisogna capire come riuscire a promuovere un innalzamento».

Oltre alla scarsa competitività immediata, i ricercatori temono che queste condizioni siano un rischio per il futuro del CNR. «Se un giovane e brillante ricercatore percepisce che qui non ha possibilità di fare carriera, inizia subito a guardare altrove», spiega al Post un ricercatore del CNR che ha chiesto mantenere l’anonimato. «Allo stesso tempo, anche chi lavora qui da qualche anno si rende conto che in altri istituti ci sono più possibilità. Per il CNR c’è il serio rischio di perdere bravi ricercatori».