I termosifoni di New York e l’influenza spagnola

La pandemia ha fatto riemergere il senso dimenticato degli ingombranti radiatori in ghisa presenti negli appartamenti di molti edifici storici

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New York, 1949 (AP Photo/JL)
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Una delle immagini più familiari per molti cittadini di New York che abitano nei vecchi appartamenti della città, all’interno di edifici storici, è quella degli ingombranti e pesanti radiatori in ghisa collocati sotto le finestre. Sono di fatto una parte dell’arredo tra le più riconoscibili e raccontate, sebbene la praticità di questi impianti sia stata nel tempo ridiscussa e superata da soluzioni più moderne ed efficienti al problema del riscaldamento.

La parte meno nota della storia, ultimamente riemersa per effetto dei molteplici interessi laterali ravvivati dalla pandemia, è che il sovradimensionamento di quei radiatori risponde a precisi standard ingegneristici adottati a New York nei primi anni del Novecento per rispettare leggi di allora e assecondare teorie molto diffuse riguardo ai metodi di controllo e contenimento delle infezioni. Quegli enormi radiatori in ghisa sono in particolare ritenuti, in un certo senso, una delle ultime tracce della più devastante pandemia del secolo scorso: l’influenza spagnola del 1918-19.

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Dei termosifoni dell’epoca – ancora esistenti e attivi in molti edifici di New York, in cui l’acqua riscaldata da una caldaia nel seminterrato viene poi distribuita agli appartamenti nella rete di radiatori – è piuttosto nota oggi l’eccezionale capacità di riscaldare l’ambiente molto più di quanto sia apparentemente richiesto. In sostanza, d’inverno, non offrono vie di mezzo tra tenerli accesi e soffrire il caldo anche rimanendo in mutande, oppure disattivarli e soffrire il freddo sopportando temperature anche sotto lo zero.

Il punto, secondo Dan Holohan, esperto di storia dei sistemi di riscaldamento e autore del libro The Lost Art of Steam Heating Revisited, è che quei termosifoni erano progettati per mantenere caldi gli appartamenti nei giorni più freddi dell’anno e con tutte le finestre aperte.

Sia le caldaie che i radiatori, spiega Holohan, dovevano essere molti più grandi a causa della necessità di tenere le finestre aperte, mentre oggi è piuttosto comune pensare che, con il riscaldamento attivato, le finestre vadano tenute chiuse per ragioni di maggiore risparmio ed efficienza. Quella necessità era frutto di una convinzione popolare molto diffusa a inizio secolo, ossia che l’aerazione degli ambienti potesse contrastare le malattie trasmesse per via aerea. Convinzione che, pur partendo da premesse che oggi sappiamo essere in parte errate, portava a comportamenti consigliati ancora oggi per ridurre i rischi di infezione negli ambienti chiusi.

La maggior parte dei primi impianti di riscaldamento nelle principali città americane, tra cui New York, fu installata nei primi tre decenni del Novecento. Quella «età dell’oro del vapore», secondo Holohan, coincise con la pandemia provocata dall’influenza spagnola e con credenze così radicate da arrivare a condizionare la progettazione di quegli impianti.

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New York, 1955 (Orlando /Three Lions/Getty Images)

È noto oggi che a causare l’influenza spagnola fu una variante del virus dell’influenza A (uno dei tipi di influenza conosciuti) appartenente al sottotipo H1N1. A marzo 1918, durante le ultime fasi della Prima guerra mondiale, molti soldati negli Stati Uniti avevano cominciato a soffrire di una malattia respiratoria non grave. A Camp Funston, in Kansas, 1.100 soldati su 54 mila erano stati ricoverati e 38 erano morti di polmonite. Non è chiaro se quel ceppo virale abbia avuto origine negli Stati Uniti nel 1918 ma è abbastanza condivisa l’idea che le truppe statunitensi portarono quell’influenza in Europa riattraversando l’Oceano Atlantico per partecipare alle ultime battaglie del conflitto.

Nella tarda primavera, un’influenza emorragica si diffuse tra i principali campi di battaglia in Europa provocando un’epidemia che si estese rapidamente a tutto il mondo, facilitata dallo spostamento delle truppe. In Spagna, dove la malattia aveva colpito anche il Re Alfonso XIII, i giornali cominciarono a scrivere di “influenza spagnola”, sebbene le origini del ceppo virale siano ancora oggetto di studi e ricerche. Contando soltanto quelli di ottobre, e soltanto negli Stati Uniti, i morti – tra cui moltissimi adulti tra i 20 e i 30 anni di età – furono 195 mila. E si stima che la spagnola abbia provocato complessivamente 20 mila morti nella città di New York.

Con la guerra che volgeva al termine, i governi di molti paesi ancora impegnati nel conflitto evitarono di introdurre restrizioni o altre misure che avrebbero potuto compromettere gli ultimi sforzi bellici. E lasciarono ai medici e ai funzionari della sanità pubblica il compito di trovare il modo di contenere i contagi. Nel 1918, la moderna teoria dei germi, sostenuta dalle ricerche di microbiologi e medici come Louis Pasteur, Joseph Lister e Robert Koch, era materia già nota e largamente accettata. Tuttavia circolavano ancora convinzioni risalenti alla fine della Guerra Civile americana e molto radicate, che in parte resistevano perché le idee mediche su cui si basavano – per quanto stravaganti – di fatto avevano prodotto comportamenti comunque efficaci in molte circostanze.

Una di queste idee era che le malattie fossero causate dall’“aria cattiva” – definita dalle autorità sanitarie «veleno nazionale», racconta Holohan – e dall’aerazione non abbastanza frequente degli ambienti. Il modo migliore per rallentare la diffusione della malattia, secondo molti, era far entrare negli edifici abitati o frequentati dalle persone quanta più aria possibile per sostituire quella cattiva con quella “buona”. «Il respiro dell’uomo è il suo più grande nemico», sosteneva Lewis Leeds, un ispettore sanitario degli ospedali da campo delle truppe dell’Unione durante la Guerra Civile, convinto che l’aria espirata dalle persone in spazi ristretti fosse la causa di molte malattie.

Oggi sappiamo che non è il respiro o l’aria stantia di per sé ad aumentare i rischi di contagio al chiuso, ma la possibilità che tra i presenti nella stanza ci sia qualcuno di ammalato che diffonde nell’aria le particelle virali attraverso le goccioline di saliva che rimangono sospese nell’aria (aerosol). Per questo si ritiene anche oggi che una corretta aerazione sia in effetti fondamentale per contrastare la diffusione di molte malattie respiratorie. L’intuizione sull’“aria cattiva” aveva insomma prodotto una serie di comportamenti appropriati e attivato leggi e protocolli di ingegneria civile che si dimostrarono efficaci anche al momento dell’arrivo dell’influenza spagnola, come già lo erano stati nel limitare la diffusione della tubercolosi.

A diffondere ulteriormente queste idee erano stati aneddoti, storie e prodotti culturali molto popolari. Il libro The American Woman’s Home, pubblicato nel 1869, era un accurato resoconto della vita domestica americana di metà Ottocento, scritto da Harriet Beecher Stowe, peraltro autrice del libro La capanna dello zio Tom, uno dei più venduti e influenti libri americani del XIX secolo. In alcuni passaggi, la persistenza del «veleno» nelle stanze senza finestre e quindi la mancanza di aerazione erano descritte da Stowe come la causa di «lievi stati di follia morale» nei bambini. Dello scienziato Benjamin Franklin – uno dei padri fondatori degli Stati Uniti – era nota da circa un secolo l’abitudine di fare “bagni d’aria” rimanendo seduti nudi davanti a una finestra aperta.

All’inizio del Novecento, questa generale fiducia nei benefici delle attività all’“aria aperta” e dell’aerazione degli edifici pubblici, per contrastare la diffusione della tubercolosi, trovava riscontro diretto anche nella progettazione degli edifici, dalle case popolari alle scuole, fino agli ospedali. Una legge dello Stato di New York del 1901 – il New York State Tenement House Act – fu con ogni probabilità il singolo elemento più importante nella definizione degli standard di costruzione delle case a New York. Stabilì, tra le altre cose, che i nuovi edifici avessero finestre rivolte verso l’esterno in ogni stanza, per aerare lo spazio abitativo.

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Un’illustrazione nel libro “American homes and gardens”, del 1905 (Flickr.com)

La storia dei primi impianti di riscaldamento con radiatori in ghisa a New York, racconta Holohan, risale a un’epoca in cui il bisogno di riscaldare gli ambienti doveva quindi coesistere con quello non meno urgente di aerare frequentemente gli ambienti. Nel 1918, in mancanza di un vaccino contro l’influenza e di farmaci per curare adeguatamente le infezioni secondarie come la polmonite, l’aria esterna era ancora considerato il miglior modo di contrastare una malattia come la spagnola. Negli Stati Uniti, molti spazi pubblici furono chiusi e le persone furono incoraggiate a rimanere il più possibile all’aperto.

Seguire quelle indicazioni sarebbe stato però problematico in occasione della seconda e più letale ondata di contagi, alla fine del 1918. In molte zone del paese le temperature scesero notevolmente, e continuare a tenere tutte le finestre aperte in pieno inverno avrebbe ridotto il rischio di morire di spagnola non più di quanto avrebbe aumentato quello di morire per ipotermia. A New York, per risolvere il problema, già da tempo negli edifici di nuova costruzione erano stati progressivamente installati sistemi di riscaldamento centralizzati e radiatori in ghisa collocati sotto le finestre. Erano sistemi espressamente pensati e progettati per produrre sufficiente calore da poter abitare negli appartamenti con tutte le finestre aperte anche durante i giorni più freddi dell’anno.

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Finita la pandemia, racconta Holohan, nuovi e più efficaci sistemi di prevenzione e di cura di molte malattie – tra cui gli antibiotici e i vaccini – furono introdotti e diventarono disponibili per fasce sempre più ampie della popolazione. E il bisogno di spalancare tutte le finestre d’inverno diventò meno urgente e comprensibile, man mano che le nuove generazioni di newyorkesi si misurarono piuttosto con i dubbi e le perplessità riguardo alle dimensioni esagerate dei tipici radiatori di molti appartamenti.

Nel Lower Manhattan sono ancora attivi impianti costruiti alla fine del XIX secolo, che trasportano in tubature specifiche poste sotto le strade l’acqua calda prodotta da caldaie centralizzate e diretta alle reti di riscaldamento di edifici e negozi. Che è anche la ragione per cui ogni tanto si vedono – non soltanto nei film – certe nuvole di vapore provenire dai tombini, dovute al contatto tra l’acqua esterna e i tubi bollenti. Ancora oggi molti sistemi centralizzati di riscaldamento negli edifici più antichi di New York funzionano come un secolo fa, e molti newyorkesi spalancano le finestre anche nelle giornate più fredde. Esattamente come era richiesto loro di fare fin dall’inizio.