Perché l’industria dei bitcoin sta lasciando la Cina

A causa della repressione contro i "miner", che verificano le transazioni, provocando un grande cambiamento per la criptovaluta

Operai lavorano alla costruzione di uno stabilimento di mining di Bitcoin in Virginia, negli Stati Uniti (AP/Steve Helber)
Operai lavorano alla costruzione di uno stabilimento di mining di Bitcoin in Virginia, negli Stati Uniti (AP/Steve Helber)
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A causa della repressione sempre più decisa del governo cinese, nelle ultime settimane molti miner di bitcoin hanno interrotto le proprie operazioni nel paese. Stando a quanto scritto da diversi media del settore, buona parte di loro si starebbe trasferendo all’estero, in posti dove l’energia elettrica costa poco e la legge è più favorevole nei loro confronti, come il Texas, negli Stati Uniti, e il Kazakistan.

Le dimensioni attuali del fenomeno – che ha preso il nome di “great mining migration”: grande migrazione dei miner – non sono ancora chiare ma secondo il Global Times, tabloid in lingua inglese di proprietà del Partito comunista cinese, il 90 per cento della capacità dell’industria nel paese sarebbe già stata fermata. Questo dato potrebbe essere esagerato, ma al momento sembra verosimile che gran parte degli operatori cinesi intenzionati a continuare le proprie attività dovrà delocalizzarle all’estero.

Tutto ciò ha già avuto effetti importanti di breve termine sulla piattaforma Bitcoin, e potrebbe averne anche sul lungo periodo, contribuendo a rendere la criptovaluta più stabile e meno soggetta alla legislazione di un solo stato.

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I miner sono individui o imprese che impiegano computer appositi molto potenti per convalidare le transazioni in bitcoin degli utenti della rete registrandole su un nuovo blocco della blockchain, il registro pubblico condiviso su cui vengono annotate permanentemente. In cambio, ottengono bitcoin di nuova emissione dal sistema e una commissione da chi ha avviato la transazione. Per ottenere il diritto di convalidare le transazioni (aggiudicandosi quindi la ricompensa), i miner competono tra loro tentando di risolvere un problema matematico attraverso un algoritmo chiamato hash. Chi lo risolve prima, vince.

Per risolverlo però serve un numero altissimo di tentativi, tanto più alto quanti più miner stanno cercando la soluzione. Perciò, più potenza di calcolo un miner ha (cioè più tentativi al secondo i suoi computer riescono a fare), più alte sono le sue probabilità di aggiudicarsi il diritto di convalidare un intero blocco di transazioni, che al momento ne contiene in media 2 mila e dà come ricompensa a chi se lo aggiudica 6,25 bitcoin (circa 180 mila euro) più le commissioni. Ogni 10 minuti circa, un nuovo blocco viene aggiunto alla blockchain e la gara riparte.

Computer utilizzati nel mining di bitcoin (News.police.ir via AP)

Questo meccanismo ha dato vita a un’industria fatta di aziende che impiegano centinaia di computer in parallelo per aumentare la propria capacità di calcolo (che si misura in numero di tentativi al secondo, una grandezza chiamata hash rate) ed essere così più competitive. Queste aziende prendono il nome di mining farms, “fattorie per il mining”, e negli anni si sono concentrate in Cina, in particolare nelle provincie dello Xinjiang, del Sichuan, della Mongolia Interna e dello Yunnan, dove l’elettricità costa molto poco. Il costo dell’elettricità costituisce infatti la quasi totalità delle spese correnti di un miner, i cui margini aumentano perciò al suo diminuire.

Ad aprile scorso, ultimo mese per cui abbiamo il dato, il 65 per cento della potenza di calcolo dedicata a verificare transazioni in bitcoin in tutto il mondo proveniva dalla Cina. In altre parole, in aprile, la maggior parte dell’attività di mining nel mondo era ancora concentrata nel paese. Questa percentuale era però già più bassa rispetto a settembre 2020, quando in Cina si concentrava oltre il 75 per cento della potenza di calcolo totale. Nel frattempo, da settembre ad aprile, l’hash rate proveniente dagli Stati Uniti è salito dal 4 al 7 per cento del totale, mentre quello proveniente dal Kazakistan ha registrato una crescita ancora più evidente, passando dall’1,4 a oltre il 6 per cento del totale.

Tutto ciò indica che un processo di redistribuzione dell’attività di mining a livello geografico era già in atto prima di maggio, quando l’ostilità del governo centrale cinese nei confronti dei miner (che dura da anni) ha cominciato a concretizzarsi. Tradotto: diversi miner, vista l’aria che tirava, hanno cominciato a prepararsi per tempo. C’erano già stati diversi segnali: nella Mongolia Interna, da cui ad aprile proveniva ancora circa l’8 per cento dell’hash rate mondiale, già a marzo il governo locale aveva presentato al pubblico un piano per sospendere tutte le attività di mining entro la fine di aprile.

A partire da maggio poi, vista la serie di inasprimenti della repressione da parte delle autorità locali nelle province più interessate (che hanno seguito la linea imposta dal governo centrale), è probabile che la percentuale di hash rate proveniente dalla Cina sia scesa significativamente, anche se i dati per questo periodo non sono ancora disponibili.

Abbiamo però il dato sull’hash rate mondiale, che è diminuito molto da metà maggio, quando il prezzo del bitcoin ha cominciato a scendere vistosamente, prima a causa della decisione di Tesla di sospendere la possibilità di comprare le sue auto in bitcoin, poi per la serie di notizie che confermavano l’intenzione delle autorità cinesi di reprimere il mining di bitcoin.

Di solito, quando il prezzo del bitcoin scende, anche l’hash rate cala perché l’attività di mining diventa meno profittevole, e questo spinge i miner meno competitivi a spegnere le proprie macchine o cessare la propria attività. Perciò non possiamo sapere quanta parte del calo nella potenza di calcolo totale visto a maggio sia dovuta alla diminuzione del prezzo e quanta al fatto che i miner cinesi stiano spegnendo i propri computer per trasferirli altrove, ma abbiamo diverse testimonianze del fatto che molti di loro abbiano scelto questa strada.

Per esempio, la giornalista della CNBC Eunice Yoon ha scritto che un’impresa di logistica di Guangzhou, nella provincia di Canton, ha raccontato alla sua testata che starebbe trasferendo tonnellate di macchinari da mining dalla Cina al Maryland, negli Stati Uniti.

Un’altra prova del fatto che il numero di miner in Cina sta diminuendo è il crollo del prezzo delle schede grafiche, componenti usati tra le altre cose nei computer da mining per renderli più veloci: come racconta il South China Morning Post, sulla piattaforma di e-commerce cinese Tmall, il prezzo di una scheda grafica di livello avanzato Asus RTX3060 è passato da 13.499 yuan (1.755 euro) a 4.699 yuan (611 euro) tra maggio e giugno. A questo calo ha concorso il fatto che molti cinesi stanno rivendendo le proprie attrezzature usate, il che ha addirittura portato il più grande produttore cinese di computer per il mining di criptovalute, Bitmain, a sospendere la vendita delle sue macchine per non rimetterci a causa dei bassi prezzi.

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Chi fa mining corre sempre più rischi in diverse province della Cina. Il governo locale della Mongolia Interna, dopo aver presentato il piano per sospendere tutte le attività di mining entro la fine di aprile, aveva chiesto a tutti i cittadini di denunciare eventuali operazioni di mining illegali e proposto a maggio una legge per inasprire le pene contro i miner, che prevedevano l’esclusione dal sistema di scambio di energia della regione, la revoca delle licenze commerciali e la chiusura delle attività.

Nello Xinjiang (remota provincia al confine col Kazakistan) dove ad aprile si concentrava il 36 per cento della potenza di calcolo mondiale della rete Bitcoin, il 9 giugno le autorità locali hanno imposto la chiusura delle attività di mining nello Zhundong Economic Technological Development Park, un’area di 15.500 chilometri quadrati che ospita diverse centrali elettriche a carbone e alcune delle più grandi strutture di mining di bitcoin del paese, che ne sfruttano l’energia direttamente in loco.

Nel Sichuan, che ad aprile ospitava circa il 10 per cento della potenza di calcolo mondiale, il 18 giugno le autorità hanno ordinato di chiudere tutte le attività di mining, mentre pochi giorni prima nello Yunnan, da dove proviene circa il 5 per cento dell’hash rate totale, il governo provinciale ha dato ordine di chiudere le attività di mining che aggirassero la rete elettrica statale stringendo accordi di fornitura direttamente con le centrali elettriche.

Perché la Cina non vuole i miner?
I giornali hanno attribuito questa repressione a diversi fattori: la volontà della Cina di ridurre le proprie emissioni di CO2, quella di prevenire i rischi derivanti dalla speculazione sulle criptovalute per il sistema finanziario (come detto ufficialmente dal vicepremier Liu He), e quella di facilitare l’adozione della propria valuta digitale, il DCEP o digital yuan.

Il sito specializzato CoinDesk però ha fatto notare che queste non sono ragioni plausibili. Se l’obiettivo fosse quello di ridurre le emissioni, le misure avrebbero dovuto colpire solo i miner delle province in cui l’energia viene prodotta principalmente bruciando idrocarburi, come la Mongolia Interna e lo Xinjiang. Come abbiamo detto invece, le autorità stanno fermando le operazioni di mining anche in province come il Sichuan e lo Yunnan, dove l’energia è principalmente di origine idroelettrica. Quanto ai rischi derivanti dal trading e alla concorrenza che il bitcoin farebbe allo yuan digitale, questi sono problemi che prescindono dal luogo in cui si trovano i miner.

Alcuni hanno ipotizzato che il divieto sia mirato a fermare flussi di capitali in uscita dal paese. L’attività di mining comporta infatti entrate in bitcoin, i quali possono essere trasferiti con facilità al di fuori della Cina, al contrario della valuta cinese.

Più probabile però secondo CoinDesk è che i miner siano un ostacolo al tentativo della Cina di ribilanciare la propria rete elettrica. Il problema della rete elettrica cinese è che diverse province remote e poco popolate, come appunto lo Xinjiang, la Mongolia Interna, il Sichuan e lo Yunnan sono ricche di fonti di energia e hanno prodotto a lungo tanta elettricità a basso costo, molta della quale non veniva utilizzata semplicemente perché non c’era abbastanza domanda locale ed era difficile trasportarla, mentre le regioni della costa, dove sorgono le grandi città, hanno a lungo sofferto la scarsità di elettricità. Per trasportare l’energia elettrica da dove c’era offerta inutilizzata a dove c’era domanda insoddisfatta, serviva una rete elettrica ad altissima tensione, in grado di far viaggiare la corrente per migliaia di chilometri. Il governo ha iniziato a installarla nel 2010 e negli ultimi 5 anni il bilanciamento tra domanda e offerta sulla rete è migliorato molto.

Secondo CoinDesk, finché i miner usavano l’energia in eccesso prodotta nelle regioni remote, non erano un problema. Ma adesso che questa energia può essere usata per altri scopi, sia industriali che commerciali, il mining fa concorrenza a questi diversi utilizzi che contribuiscono alla ripresa economica del paese, mentre i proventi del mining, come abbiamo detto, possono essere facilmente sottratti all’economia cinese.

Dove fuggono i miner
Dato che l’elettricità costituisce il principale costo variabile dei miner, è evidente che questi si trasferiranno in posti dove l’energia elettrica è a buon mercato. Secondo la CNBC, due mete probabili sono il Texas e il Kazakistan. In Texas i prezzi dell’elettricità sono fra i più bassi al mondo, grazie all’abbondanza non solo degli idrocarburi (di cui è il maggior produttore negli Stati Uniti), ma anche degli impianti di energia eolica, di cui nel 2020 produceva il 28 per cento a livello nazionale. Inoltre, a differenza della Cina, la rete elettrica è liberalizzata: gli utenti possono scegliere il proprio fornitore di elettricità, il che contribuisce a tenere i prezzi bassi. Infine, la regolamentazione dello stato è favorevole al settore e il governatore del Texas, Greg Abbott, è noto per il suo sostegno alle criptovalute e sembra intenzionato ad accogliere i miner.

Quanto al Kazakistan, secondo la CNBC i vantaggi per i miner cinesi sono numerosi: prima di tutto c’è la prossimità geografica con la provincia dello Xinjiang; poi l’abbondanza di miniere di carbone, che forniscono energia elettrica a prezzi molto bassi. Inoltre, al contrario della Cina, il Kazakistan avrebbe leggi più permissive sulle costruzioni edilizie, il che permetterebbe di costruire in breve tempo gli stabilimenti in cui collocare le macchine.

Cosa cambierà dopo la migrazione
La migrazione dei miner potrebbe avere importanti effetti sulla rete Bitcoin: nel breve periodo, la caduta dell’hash rate farà in modo che il problema da risolvere per verificare un blocco diventi più semplice, rendendo il mining più redditizio a parità di prezzo del bitcoin (serviranno meno tentativi e quindi meno elettricità). Questo attrarrà probabilmente nuovi miner, facendo risalire l’hash rate nel medio termine, quando i miner cinesi avranno ripreso le proprie operazioni nei posti in cui le hanno delocalizzate.

L’effetto più importante però potrebbe verificarsi sul medio-lungo termine: se i miner cinesi troveranno posto in paesi diversi, la rete sarà molto più decentralizzata di quanto lo sia stata finora e perciò molto meno soggetta alle leggi di un singolo stato. Questo renderebbe il prezzo del bitcoin meno influenzabile dalle notizie sulla regolamentazione del settore in un singolo paese (come è stato finora con la Cina), e forse perciò meno volatile.