Perché a volte ci sembra che gli smartphone ci ascoltino

Le inserzioni pubblicitarie delle piattaforme sfruttano dati così vari e precisi da farcelo credere, ma la verità è che non ne hanno bisogno

Gli annunci pubblicitari che vediamo online sono sempre più accurati, calibrati sui nostri interessi e su ciò che vorremmo acquistare, al punto da indurre alcune persone a credere che ci siano applicazioni per smartphone che ascoltano continuamente le conversazioni a loro insaputa, in modo da offrire pubblicità sempre più personalizzate. È una teoria che ha fatto una certa presa soprattutto tra chi non si fida di alcune delle più grandi aziende di Internet come Facebook, che del resto in questi anni ha avuto grossi problemi con la tutela della privacy dei propri utenti, attirandosi critiche e finendo in mezzo a scandali.

In realtà, come è stato dimostrato in più occasioni, Facebook e gli altri non hanno necessità di spiare ciò che diciamo, perché hanno già a disposizione sufficienti altre risorse per tracciare le nostre attività online in ogni momento. Un motivo che non è necessariamente più rassicurante, per chi è diffidente verso questo aspetto della tecnologia.

La convinzione di alcuni che le app spiino le conversazioni deriva da esperienze piuttosto comuni, che abbiamo probabilmente vissuto tutti. Chiacchierando di persona con qualcuno si parla di un certo prodotto, come un paio di scarpe viste da qualche parte, e pochi minuti dopo ci si ritrova una pubblicità di calzature all’interno di Instagram, Facebook o di un qualsiasi sito con annunci pubblicitari. La conclusione scontata per molti è che un’applicazione sullo smartphone abbia rilevato la conversazione e che abbia poi utilizzato quelle informazioni per mostrare la pubblicità delle scarpe.

Utilizzare un sistema di questo tipo non solo violerebbe le leggi sulla privacy in molti paesi, ma sarebbe difficile da sviluppare dal lato tecnico e costoso da mantenere, se moltiplicato per esempio per le centinaia di milioni di smartphone sui quali è installata l’applicazione di Facebook. Le società che si occupano della pubblicità online sfruttano informazioni molto più semplici e accessibili per tarare gli annunci sui nostri interessi, sfruttando per lo più dati che noi stessi forniamo loro inconsapevolmente. Strumenti di tracciamento ormai sofisticati permettono a Facebook o a Google di individuare i nostri interessi anche quando non li abbiamo mai cercati sui social network o sui motori di ricerca, sfruttando dati relativi ai nostri spostamenti, alle nostre abitudini, addirittura alle nostre frequentazioni.

Un biscottino
Il sistema più diffuso, e alla base del funzionamento di buona parte dei siti, è quello dei cookie, i piccoli file che i siti installano all’interno del nostro programma per navigare (browser, come Chrome o Firefox).

Per capire come funzionano i cookie occorre tornare agli albori del Web, quando i siti erano molto più spartani di oggi e non avevano memoria di ciò che facevamo sulle loro pagine. Era un problema non da poco, soprattutto se si voleva acquistare qualcosa online, perché non c’era modo di far sì che un carrello virtuale ricordasse i prodotti inseriti al suo interno. Il server, cioè il computer a distanza che faceva funzionare il sito, non aveva modo di riconoscere lo stesso utente tra una sua richiesta e un’altra.

Nel 1994 uno sviluppatore di Netscape, la società del browser più utilizzato all’epoca, inventò un sistema per aggirare il problema. Pensò che la soluzione migliore fosse lasciare ai singoli computer buona parte del lavoro per farsi riconoscere, in modo che i server non diventassero sovraccarichi. Realizzò quindi un piccolo file, un cookie (“biscottino”) appunto, che si autoinstalla nel proprio browser quando si visita uno specifico sito. Il cookie ha un sistema di identificazione unico per ogni utente, e in questo modo il sito può ricordarsi di chi lo sta visitando e delle azioni che sta compiendo, come riempire il carrello con alcuni prodotti.

La nuova soluzione cambiò in meglio il Web, contribuendo a trasformarlo da sistema prevalentemente usato per la consultazione a un luogo in cui ci si poteva iscrivere a comunità virtuali, fare acquisti online o registrarsi a servizi di vario tipo. Nel corso del tempo l’impiego dei cookie da parte dei siti è però aumentato enormemente, con sistemi via via più sofisticati per sfruttare per scopi commerciali le informazioni sui singoli utenti.

Cookie e pubblicità
Buona parte dei siti si mantiene grazie alla pubblicità. Da una parte ci sono gli inserzionisti, cioè le aziende che vogliono promuovere i loro prodotti, dall’altra gli editori – come le grandi piattaforme (per esempio Google e Facebook) e i gestori dei siti (come il Post) – che offrono i loro spazi per mostrare le pubblicità, in cambio di denaro. In mezzo ci sono gli intermediari, cioè i servizi che rendono possibile questa compravendita di pubblicità e spazi sui siti sia da un punto di vista tecnologico sia economico.

Alcune aziende hanno più di un ruolo. Facebook e Google, per esempio, vendono gli spazi sui loro siti agli inserzionisti e fanno da intermediari, gestendo i sistemi che fanno funzionare la pubblicità online. Sono tra le società più grandi a farlo e di conseguenza lavorano con una quantità enorme di dati su come si comportano gli utenti online, in modo da personalizzare il più possibile le pubblicità. In generale, più una pubblicità è personalizzata maggiore è la sua resa economica, anche se ci sono eccezioni.

Terze parti
In origine, però, i cookie erano stati ideati per avere un unico referente: il sito che li aveva emessi. Il cookie installato nel proprio browser da guelfi.com poteva interagire solo con guelfi.com, quello installato da ghibellini.com solo con ghibellini.com e così via. All’epoca era sembrata una soluzione sicura e soddisfacente, ma era stato sottovalutato che un giorno i siti avrebbero ospitato contenuti provenienti da altri siti e che questi avrebbero avuto la possibilità di installare a loro volta cookie anche su un sito diverso dal loro. Se vi gira la testa, proviamo con un esempio.

La fondatrice di guelfi.com realizza un sito molto semplice e lo mette online. Qualche tempo dopo, decide di aggiungere un tasto “Mi piace” di Facebook, in modo che chi segue il sito possa mettere un “Mi piace” direttamente alla pagina di guelfi.com senza doverla andare a cercare sul social network. Il codice per inserire il tasto è fornito da Facebook, che lo gestisce direttamente con i propri server: la fondatrice lo copia e lo inserisce nel suo sito. A questo punto su guelfi.com c’è un elemento (il tasto “Mi piace”) che per funzionare deve collegarsi a facebook.com ogni volta che qualcuno visita il sito. Facebook ha ottenuto in questo modo la possibilità di salvare un proprio cookie anche se si sta leggendo un sito diverso dal suo: quello che si definisce un “cookie di terze parti”.

Il passo seguente è più intuitivo. Poiché il tasto “Mi piace” è presente su centinaia di milioni di siti, Facebook ha la possibilità di tracciare le attività degli utenti mentre passano da un sito all’altro, sfruttando il suo cookie. Da “un cookie – un sito” si è di fatto passati a una situazione in cui i cookie sono sfruttati per seguire gli utenti tra siti diversi, raccogliendo una mole enorme di informazioni.

L’esempio è su Facebook, ma lo stesso principio viene seguito da migliaia di altre aziende, soprattutto per la gestione degli annunci pubblicitari. Il sistema che abbiamo appena visto con il tasto “Mi piace” funziona allo stesso modo con gli annunci pubblicitari, il cui codice rimanda a chi li gestisce e li fa apparire nelle pagine. Se il riferimento è per esempio google.com, significa che Google avrà un proprio cookie e che potrà utilizzarlo su tutti i siti che mostrano pubblicità gestite dai suoi sistemi.

Tracciamento
Abbiamo naturalmente semplificato un poco, ma il concetto di base è che grazie ai cookie di terze parti e ad altri sistemi di tracciamento, le piattaforme riescono a farsi un’idea piuttosto accurata delle nostre abitudini, delle cose che ci piacciono, di cosa potremmo comprare e degli argomenti che ci interessano. I loro sistemi non sono solamente presenti sui siti, ma anche sulle applicazioni, che a loro volta raccolgono molti più dati su di noi, come per esempio la nostra posizione geografica.

Tecnicamente tutte queste informazioni sono anonime e le piattaforme sostengono di non avere modo di risalire alle identità dei singoli utenti, ma è stato ormai ampiamente dimostrato che la grande mole di dati raccolti consente di farsi un’idea piuttosto precisa sugli utenti. Insieme o tramite i cookie vengono raccolte numerose altre informazioni, compresi dettagli sulla rete WiFi da cui ci si sta collegando, il tipo di dispositivo e la versione del browser e del sistema operativo che si stanno utilizzando.

È la combinazione di queste informazioni a fare sì che dopo avere visitato un sito per acquistare un paio di scarpe ci ritroviamo la pubblicità delle stesse calzature altrove, nelle pubblicità mostrate su un social network o su altri siti. Può accadere che in alcune circostanze i sistemi di tracciamento non funzionino come atteso, o che siano impostati per fare le cose un po’ diversamente, e questo ci riporta alla questione delle app che spierebbero le nostre conversazioni.

Ascoltati?
Alcuni hanno l’impressione di essere ascoltati perché si ritrovano pubblicità di prodotti o servizi di cui hanno parlato di recente con qualcuno. Nella maggior parte dei casi, quelle pubblicità sono banalmente il frutto delle preferenze e delle attività svolte nel tempo online, e magari alle quali non si era prestata grande attenzione. È probabile che, se parliamo di un paio di scarpe con qualcuno, avessimo visto quel modello da qualche parte online, magari tra una pubblicità e un post di Instagram: e che ci avessimo cliccato sopra o ci fossimo soffermati per leggerne descrizione e dettagli. Attività di questo tipo possono essere sufficienti per far sì che venga colto un potenziale interesse verso quel prodotto, innescando i sistemi per riproporlo a distanza di tempo tramite le pubblicità su altri siti.

In alcuni casi vediamo la pubblicità di un prodotto che siamo sicuri di non avere mai cercato prima online, ma che era stato al centro di una recente conversazione con un’altra persona. Anche in questo caso, è probabile che la pubblicità sia mostrata non perché un’applicazione stesse spiando la chiacchierata, ma perché il nostro interlocutore aveva visto quel prodotto su un sito. Tramite il tracciamento è infatti possibile dedurre che due utenti fossero nello stesso luogo, magari per via della stessa connessione utilizzata, e che si conoscessero. La pubblicità viene mostrata all’altro interlocutore non interessato al prodotto, ma che potrebbe a un certo punto parlarne con chi lo aveva visto online, rinforzando il suo interesse.

Soluzioni come queste sono piuttosto elaborate e non funzionano sempre alla perfezione. In alcuni casi, per esempio, si vedono le pubblicità destinate ad altri banalmente perché si sta utilizzando la loro stessa connessione e si hanno particolari impostazioni nel proprio browser. Il funzionamento del cervello umano fa sì che, tra decine di inserzioni di prodotti che non abbiamo mai cercato online, notiamo quella relativa all’oggetto di cui abbiamo parlato nei giorni precedenti: che potrebbe quindi facilmente essere l’unica azzeccata su molti tentativi diversi da parte di Facebook.

Gli strumenti per tracciare le attività online non mancano e non rendono necessario il ricorso a sistemi da spionaggio come l’ascolto delle conversazioni di nascosto.

Controprove
Uno studio condotto circa tre anni fa presso la Northeastern University (Boston, Stati Uniti) prese in considerazione migliaia di applicazioni per gli smartphone Android, molte delle quali dotate di sistemi per inviare informazioni a Facebook. Lo studio provò che nessuna delle applicazioni, compresa quella del social network stesso, avesse utilizzato di nascosto il microfono degli smartphone.

Facebook ha in più occasioni negato di ascoltare le conversazioni senza autorizzazione, ricordando che un ascolto costante di centinaia di milioni di smartphone implicherebbe una raccolta enorme di dati, almeno 30 volte superiore a quella attuale. Se il microfono fosse costantemente attivo, inoltre, i proprietari degli smartphone noterebbero un calo significativo della batteria.

Un eventuale sistema di questo tipo comporterebbe un continuo e massiccio scambio di dati tra gli smartphone e Facebook, che potrebbe essere facilmente rilevato. Cogliere le parti rilevanti di una conversazione non è semplice, come mostrano i risultati spesso deludenti degli assistenti vocali come Siri e Alexa. Riuscire a isolare le giuste informazioni da una conversazione per mostrare le pubblicità richiederebbe soluzioni di intelligenza artificiale di cui ancora non disponiamo, anche se nel settore si sono fatti progressi notevoli negli ultimi anni.

Un ascolto tramite il microfono degli smartphone non può inoltre avvenire se manca l’autorizzazione da parte del sistema operativo, che controlla l’accesso alle risorse del telefono. Sia Android sia iOS (iPhone) hanno sistemi per limitare l’uso del microfono da parte delle applicazioni e danno la possibilità di impedirne l’impiego.

La versione più recente di iOS (14) mostra un pallino colorato in alto a destra: arancione quando il microfono è attivo e verde quando è attiva anche la fotocamera. Non c’è possibilità per le applicazioni di utilizzare il microfono senza che iOS indichi la sua attivazione con questo sistema.

(Apple)

Per fare una controprova sugli annunci basati sulle conversazioni spiate, si può disattivare l’accesso al microfono da parte di Facebook.

iOS
Su iOS si va in “Impostazioni” poi si scorre l’elenco delle app installate fino a selezionare “Facebook”. Nel menu successivo è sufficiente toccare “Microfono” per disattivarlo. Se non si è mai data l’autorizzazione all’interno dell’applicazione per utilizzarlo, “Microfono” non sarà nemmeno mostrato nell’elenco.

Android
Su Android si va nelle “Impostazioni” poi si cerca “Gestione autorizzazioni”, in seguito “Microfono” e dall’elenco di applicazioni che compare si sceglie “Facebook”. Nella schermata seguente è possibile negare l’accesso al microfono da parte dell’applicazione.

Il cambiamento di queste impostazioni non modificherà quelle sul tracciamento delle attività e si continueranno a ricevere annunci personalizzati, compresi quelli che sembrano essere ispirati alle conversazioni avute di persona. Per interrompere il tracciamento su Facebook si parte da qui, dove sono comprese le opzioni offerte dal social network; per Google si parte da qui.

Negli ultimi tempi una maggiore sensibilità verso i temi legati alla privacy ha spinto alcune grandi aziende a rivedere l’utilizzo dei sistemi di tracciamento. Google, per esempio, sta passando a un sistema che consente di mostrare annunci personalizzati, ma con sistemi meno invasivi, per quanto ugualmente criticati. Facebook, che basa quasi interamente i propri ricavi sulla pubblicità, ha mantenuto un approccio più cauto nel cambiare le cose e ha criticato Apple per la sua recente scelta di rendere opzionale il tracciamento all’interno di ogni app sugli iPhone e gli iPad. I cambiamenti alle politiche pubblicitarie sono una conversazione che il social network per ora preferisce non sentire.