Cosa vuole fare l’Italia coi migranti
Il governo Draghi si sta muovendo per allentare la pressione su Lampedusa, e per convincere i paesi europei ad accogliere parte dei migranti arrivati: non sarà affatto facile
I numerosi sbarchi di migranti a Lampedusa dello scorso fine settimana, più di duemila persone nel giro di 24 ore, hanno costretto il governo di Mario Draghi ad accelerare la risposta italiana a un probabile aumento di flussi dalle coste del Nord Africa che coincide ogni anno con l’inizio della stagione estiva, quando il mare è più calmo e rende più facile mettere in acqua barche e gommoni.
Negli ultimi giorni il governo ha cercato soluzioni per gestire la prima accoglienza dei migranti, resa più complicata dalla pandemia in corso: da una parte ha tentato di alleviare la pressione sull’hotspot di Lampedusa, struttura che è già stracolma e non sembra in grado di ricevere altre persone; dall’altra sta cercando di convincere l’Unione Europea, o un numero soddisfacente di paesi europei, ad accettare un meccanismo automatico di ricollocamenti, oggetto da tempo di negoziati ma che finora ha incontrato parecchie resistenze.
La prima soluzione intrapresa dal governo Draghi, quella su Lampedusa, prevede l’impiego di cinque navi che hanno l’obiettivo principale di creare una specie di enorme hotspot in mare in cui tenere i migranti per il periodo della loro quarantena, a causa della pandemia. Le navi, che hanno 3.500 posti in tutto, sono attrezzate per sottoporre i migranti al tampone per il coronavirus e offrire loro assistenza medica. Al momento solo due sono attive, mentre una ha da poco sbarcato a Porto Empedocle (Agrigento) centinaia di persone soccorse due settimane fa nel Mediterraneo. Altre due sono ancora vuote.
Nei piani del governo le cinque “navi quarantena” servono a due scopi.
Il primo è quello di garantire «la pace sociale», come hanno detto fonti del ministero dell’Interno a Repubblica, riferendosi alle tensioni nate più volte la scorsa estate in Sicilia e Calabria a causa della fuga di migranti dalle strutture di quarantena; se i 14 giorni di quarantena avvengono a bordo di una nave, scappare diventa praticamente impossibile. Il secondo è quello di alleviare la pressione sull’hotspot di Lampedusa, isola raggiunta sia da sbarchi autonomi sia da migranti soccorsi dalle ong (i secondi durante la gestione dell’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese sono stati finora il 14 per cento del totale). Lampedusa è quindi una specie di “collo di bottiglia” per quanto riguarda l’immigrazione, sia perché è un’isola piccola e quindi poco attrezzata per i grandi numeri, sia perché i trasferimenti di migranti verso il resto d’Italia – compiuti regolarmente per evitare sovraffollamenti – sono lenti e difficoltosi. Gestire i migranti che arrivano via mare sulle navi quarantena dovrebbe teoricamente rendere più corta la permanenza a Lampedusa.
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La seconda via intrapresa dal governo Draghi per far fronte a un possibile aumento degli sbarchi dipende invece meno dalla volontà, e più dagli altri paesi europei.
La questione più dibattuta riguarda un meccanismo di ricollocamento che l’Italia chiede da tempo all’Unione Europea: prevede che i migranti che si trovano nel paese di primo ingresso nel territorio dell’Unione, in questo caso l’Italia, vengano in parte “redistribuiti” in altri paesi nei quali, in seguito, possano chiedere una forma di protezione.
Negli ultimi anni i tentativi di rendere automatico ed efficace questo meccanismo da parte delle istituzioni europee sono falliti sistematicamente, a causa dell’opposizione di paesi – soprattutto quelli dell’Est Europa – poco desiderosi di cambiare un sistema che al momento li avvantaggia: quello previsto dal regolamento di Dublino, che costringe il richiedente asilo a fare domanda di protezione allo stato di primo ingresso, e lo stato di primo ingresso a farsi carico della domanda di protezione e dell’accoglienza del richiedente asilo (gli stati di primo ingresso sono quasi sempre Italia, Grecia e Spagna).
Nel 2017 il Parlamento Europeo aveva proposto un’ambiziosa riforma del regolamento di Dublino, appoggiata anche dalla Commissione Europea, che prevedeva un meccanismo automatico di ricollocamento e quote obbligatorie di richiedenti asilo da accogliere da definire in base alla popolazione e al PIL di ciascun paese dell’Unione. Da allora la riforma è rimasta bloccata in sede di Consiglio dell’Unione Europea, cioè l’organo in cui siedono i rappresentanti dei 27 governi, a causa dell’opposizione di diversi paesi dell’Est a qualsiasi meccanismo di ricollocamento automatico. Fra i partiti attualmente al governo in Italia, anche la Lega e il Movimento 5 Stelle erano contrari alla riforma del regolamento di Dublino avanzata dal Parlamento Europeo, mentre il Partito Democratico e Forza Italia votarono a favore.
Per aggirare lo stallo europeo, i governi italiani hanno cercato più volte formule alternative di ricollocamento, basate su accordi intergovernativi e fuori dalle istituzioni europee. L’ultimo di questo tipo è stato l’accordo di Malta trovato nel settembre 2019, che però, oltre a riguardare un numero ristretto di paesi, prevede il ricollocamento dei soli migranti arrivati a bordo di navi militari o delle ong, cioè meno di uno su 10. Secondo dati ottenuti dal Foglio, dal 2018 a oggi ha riguardato in tutto 1.273 migranti. Il meccanismo alla base dell’accordo è stato comunque sospeso con la pandemia da coronavirus.
Negli ultimi giorni il governo italiano è tornato a chiedere all’Unione Europea l’introduzione di un meccanismo di ricollocamento che permetterebbe in parte il superamento del regolamento di Dublino, molto svantaggioso per i paesi di primo ingresso. Martedì mattina la portavoce della commissaria europea agli Affari Interni, Ylva Johansson, ha detto che «sono in corso contatti con i paesi membri dell’Unione Europea e con le autorità italiane» sul tema dei ricollocamenti, ma che finora non sono stati presi impegni particolari. Le probabilità che la situazione cambi – o che si possa allargare l’accordo di Malta ad altri paesi – sembrano basse.
Le opposizioni a piani davvero efficaci di ricollocamenti, già piuttosto nette, potrebbero essere ulteriormente aumentate durante la pandemia: i governi di molti paesi europei stanno investendo enormi risorse per far fronte alla crisi economica generata da mesi di chiusure, e non sembrano disposti a spendere soldi e risorse su piani d’accoglienza di migranti. Ma c’è anche un altro motivo.
Nei due paesi più importanti e influenti dell’Unione Europea, Germania e Francia, si vota nel giro di un anno, e nessuno sembra intenzionato a fare aperture sul tema dell’immigrazione. In Germania il partito della cancelliera Angela Merkel, l’Unione Cristiano-Democratica (CDU), sta attraversando un periodo di crisi interna e sembra più intenzionato a percorrere la strada di un nuovo accordo con la Turchia, come quello firmato nel 2015 che portò di fatto alla chiusura parziale della rotta balcanica, piuttosto che fare concessioni su meccanismi di ricollocamento, che tra le altre cose potrebbero rafforzare Alternativa per la Germania, partito di estrema destra con posizioni molto radicali sull’immigrazione. In Francia, dove si vota per le presidenziali nell’aprile 2022, il dibattito si è spostato molto a destra, soprattutto per la presenza di Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra Rassemblement National. Anche qui non sembrano esserci grandi margini per eventuali aperture sul tema dei migranti.
Le probabilità che l’Italia riesca a concludere un accordo efficace sulle relocation sono quindi molto ridotte; la parola chiave è “efficace”. Sul Foglio, il giornalista David Carretta ha messo insieme i numeri dei ricollocamenti eseguiti negli ultimi tre anni, sotto forme diverse: 154 nel 2018, 901 nel 2019, 210 nel 2020 e 8 per il 2021 (finora). Sono numeri bassissimi e quasi simbolici, anche perché derivano da meccanismi non vincolanti, e di certo non aiutano a risolvere il problema per gli stati di primo ingresso.
Queste due soluzioni sono state affiancate a politiche che l’Italia aveva già avviato in precedenza, tra cui l’addestramento e il finanziamento della controversa Guardia costiera libica, con l’obiettivo di bloccare i migranti prima del loro arrivo sulle coste italiane. In Libia, paese dal quale provengono parte dei migranti che sbarcano in Italia, vengono compiute sistematicamente gravi violazioni dei diritti umani dalle milizie e dai trafficanti che costituiscono, o sono collusi, con la stessa Guardia costiera. Nel 2020 il secondo governo guidato da Giuseppe Conte e sostenuto dal PD e dal M5S ha rinnovato gli accordi con la Libia presi nel 2017 dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti che sanciscono un patto di collaborazione fra la cosiddetta Guardia costiera libica e le autorità italiane per intercettare i migranti che partono dalle coste libiche e riportarli nei centri di detenzione.
In un’intervista pubblicata mercoledì su Avvenire la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese ha ribadito che l’Italia continuerà a finanziare i progetti che prevedono i rimpatri volontari assistiti dalla Libia, un piano biennale condiviso da ministero dell’Interno e ministero degli Esteri per facilitare il ritorno del paese d’origine di chi è bloccato in Libia e accetta di ricevere dei soldi per avviare progetti nel luogo di provenienza (a patto però di non chiedere asilo in territorio europeo: uno scambio molto criticato dagli attivisti per i diritti dei migranti).
Lamorgese ha anche detto che continueranno a operare i corridoi per i migranti più vulnerabili (come donne e bambini) reclusi nei centri di detenzione libici e individuati dalle agenzie dell’ONU, che storicamente però hanno riguardato poche centinaia di persone. Proseguiranno anche i tentativi di rafforzare i rimpatri dei cosiddetti “immigrati irregolari”, provvedimenti che però già in passato avevano mostrato grossi limiti.