• Mondo
  • Sabato 24 aprile 2021

Come giudicare la promessa di Biden sul clima

Gli Stati Uniti non si erano mai impegnati così tanto a ridurre le proprie emissioni, ma per ora si tratta solo di un annuncio

Ciminiera di una centrale elettrica a carbone vicino a Emmitt, in Kansas, il 10 gennaio 2009 (AP Photo/Charlie Riedel, File, La Presse)
Ciminiera di una centrale elettrica a carbone vicino a Emmitt, in Kansas, il 10 gennaio 2009 (AP Photo/Charlie Riedel, File, La Presse)

Il 22 aprile il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato un nuovo grande impegno del suo paese nel contrasto al cambiamento climatico, promettendo che entro il 2030 ridurrà del 50-52 per cento le emissioni di gas serra americane rispetto ai livelli del 2005. È tanto? È poco? È abbastanza? Non è semplice farsi un’idea sulla questione partendo unicamente dalla dichiarazione di Biden, così come non è facile capire se sarà in grado di trasformare questo impegno a parole, che per ora non è stato scritto in nessuna legge americana, in fatti concreti.

L’accordo sul clima di Parigi del 2015 prevede che i paesi firmatari si impegnino a rispettare i cosiddetti Nationally Determined Contributions (NDC), in italiano “Contributi determinati su base nazionale”, che sono obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra (la causa del cambiamento climatico), scelti in maniera autonoma e volontaria per contribuire a mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto i 2 °C.

L’impegno a dimezzare le emissioni rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030 è appunto il nuovo contributo nazionale degli Stati Uniti. Confrontarlo con gli impegni che si sono presi l’Unione Europea e altri paesi del mondo è complicato per varie ragioni, prima fra tutte che ogni paese (o unione di paesi) sceglie un suo anno di riferimento rispetto a cui calcolare la riduzione delle emissioni. Gli Stati Uniti hanno scelto il 2005 perché fu più o meno in quell’anno che raggiunsero il proprio picco di emissioni di gas serra. L’Unione Europea invece si è impegnata a ridurre le proprie emissioni, sempre entro il 2030, del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990: intorno a quell’anno le emissioni europee cominciarono a diminuire grazie all’introduzione di alcune politiche ambientali e al crollo delle economie dell’ex blocco comunista, che inquinavano molto.

Scegliere come anno di riferimento quello in cui si producevano più emissioni (al posto dell’anno precedente, ad esempio) è un modo per poter annunciare una percentuale più alta, e dunque presentare nella luce migliore il proprio impegno. Secondo i calcoli fatti dall’istituto di ricerca Rhodium Group, se la promessa dell’Unione Europea fosse stata rapportata ai livelli di emissioni del 2005, la percentuale annunciata sarebbe stata del 51 per cento invece che del 55.

Secondo i dati del Global Carbon Project, un’organizzazione che cerca di quantificare le emissioni mondiali di gas serra, nel 2010 gli Stati Uniti produssero 5.698 miliardi di tonnellate di emissioni di anidride carbonica (CO2), il principale gas serra, il Regno Unito 512 miliardi di tonnellate e l’Unione Europea (Regno Unito compreso) 3.442 miliardi di tonnellate. Rapportando tutti gli NDC annunciati ai livelli di emissioni di quell’anno, emerge che il paese che ha promesso una riduzione percentuale maggiore è il Regno Unito, col 58 per cento. La promessa di Biden cambia di poco, quella dell’Unione Europea si traduce in una riduzione del 46 per cento.

Un altro confronto da fare per giudicare la promessa di Biden è quello con l’impegno che si era preso Barack Obama nel 2016, prima che il suo successore Donald Trump ritirasse gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi: Obama aveva promesso una riduzione delle emissioni di gas serra del 25-28 per cento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025. Secondo BloombergNEF, un gruppo di ricerca di Bloomberg sulle fonti di energia che non producono emissioni, la promessa di Obama prolungata al 2030 avrebbe portato a una riduzione del 34 per cento rispetto ai livelli del 2005.

Dunque l’attuale presidente ha rilanciato in modo più ambizioso. Bill McKibben, esperto ambientalista e collaboratore della rivista New Yorker, ha osservato: «La strategia di Joe Biden per la pandemia è stata fare promesse contenute per poi ottenere risultati sopra le aspettative, la sua amministrazione si è impegnata a somministrare cento milioni di dosi di vaccino nei suoi primi cento giorni, ma poi è riuscita a più che raddoppiare l’obiettivo. È una strategia politica astuta, soprattutto visto che il presidente precedente aveva fatto esattamente l’opposto a ogni occasione. Il nuovo piano di Biden sul clima però non segue questo esempio».

Secondo McKibben e altri commentatori, per mantenere la sua promessa Biden dovrà considerare le emissioni di gas serra una priorità per tutta la durata della sua presidenza e non solo: lui e la vicepresidente Kamala Harris dovranno fare in modo di vincere le prossime elezioni presidenziali, fino al 2030, per assicurarsi che tutte le decisioni politiche da oggi ad allora tengano conto dell’obiettivo.

Non sarà facile e i precedenti non sono buoni, anche da prima che Trump ritirasse gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi: negli anni Novanta l’amministrazione Democratica di Bill Clinton partecipò ai negoziati sul protocollo di Kyoto, per anni il più importante accordo internazionale sul clima, ma il Senato non lo ratificò mai.

Il primo passo del piano di Biden per il clima era fare capire, negli Stati Uniti e davanti al resto del mondo, di voler fare qualcosa: con il “Leaders Summit on Climate”, la riunione internazionale in videoconferenza organizzata nei giorni scorsi, ha effettivamente compiuto questo passo. Il secondo sarà fare approvare al Congresso la legge sulle infrastrutture presentata a marzo, che prevede incentivi per le automobili elettriche e per gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, fondi per l’innovazione energetica e un divieto di emissioni per gli impianti elettrici a partire dal 2035.

Se approvata, sarà la più importante legge americana sul clima di sempre, ma non è detto che passi al Senato, dove i Democratici hanno una maggioranza di appena un voto. Molti Repubblicani hanno detto che le politiche sul clima proposte da Biden sono troppo aggressive, considerando che paesi che producono molte emissioni come la Cina e l’India non si sono presi degli impegni per ridurle a breve. Il senatore John Barrasso, Repubblicano del Wyoming, ha detto: «Il piano del presidente costerà una fortuna in bollette alle famiglie e danneggerà la competitività americana nel mondo». Per contrastare queste argomentazioni, Biden sta cercando di presentare la transizione energetica come una grande opportunità per creare sviluppo economico e nuovi posti di lavoro.

Ma anche se la legge sulle infrastrutture passerà, non sarà sufficiente a raggiungere l’obiettivo fissato per il 2030. Secondo McKibben, la difficoltà maggiore sarà opporsi agli interessi delle grandi aziende dei combustibili fossili. L’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA) sta cercando di introdurre regole più rigide sull’inquinamento causato da automobili e camion e sulle emissioni di metano (un altro gas serra) dovute all’estrazione e alla distribuzione dei combustibili fossili: ma anche queste regole non sono ancora legge e potrebbero essere bloccate sia dal Congresso che dai tribunali.

A prescindere dalla fattibilità della promessa di Biden, c’è chi lo ha criticato giudicando il suo impegno per il clima insufficiente. Secondo Climate Action Tracker, un’analisi delle politiche sul clima fatta da due organizzazioni indipendenti, Climate Analytics e il New Climate Institute, per essere in linea con l’obiettivo più ambizioso fissato dall’accordo di Parigi, quello di non superare un aumento delle temperature medie globali di 1,5 °C, Biden avrebbe dovuto promettere una riduzione delle emissioni del 57-63 per cento rispetto ai livelli del 2005 e forme di sostegno ai paesi in via di sviluppo per aiutarli a ridurre le proprie emissioni.

«Se mi chiedi se l’obiettivo degli Stati Uniti è equo e ambizioso, il criterio per rispondere non deve essere se sarà accettato dal Senato o meno», ha detto Sivan Kartha, scienziato e membro dello Stockholm Environment Institute, al New York Times. Kartha è tra gli autori di uno studio realizzato da varie organizzazioni secondo cui entro il 2030 gli Stati Uniti dovrebbero ridurre le proprie emissioni del 70 per cento rispetto ai livelli del 2005 per essere «equi» nei confronti del resto del mondo, vista la quantità di emissioni di gas serra che hanno prodotto nella storia. Secondo Kartha bisognerebbe domandarsi: «Cosa possono fare gli Stati Uniti dato il loro potere e la loro responsabilità storica nel causare il problema?».

Per gli ambientalisti come Kartha, tenere conto delle emissioni passate sarebbe più giusto e darebbe ai paesi a reddito medio più basso come l’India più tempo per rendere la propria economia più sostenibile per l’ambiente.

La Cina, un altro paese che ha cominciato a contribuire significativamente alle emissioni di gas serra molto tempo dopo gli Stati Uniti, non ha promesso una riduzione delle emissioni entro il 2030: per quell’anno si è impegnata a raggiungere il picco delle emissioni e ha promesso che arriverà alla “neutralità carbonica”, la condizione in cui per ogni tonnellata di gas serra che si diffonde nell’atmosfera se ne rimuove altrettanta, entro il 2060. Attualmente è il primo paese per emissioni di gas serra totali, ma se si considerano le emissioni in rapporto al numero di abitanti è ancora molto al di sotto degli Stati Uniti. L’India invece non ha ancora fissato una data per raggiungere il suo picco di emissioni.

La strategia dell’amministrazione Biden è stata cercare di fissare un obiettivo di riduzione delle emissioni che, pur non essendo facile da raggiungere, potesse essere comunque fattibile politicamente. Una delle idee dietro questa strategia e l’organizzazione del “Leaders Summit on Climate” è convincere altri paesi a seguire l’esempio degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono responsabili di un quarto delle attuali emissioni di gas serra: anche se riusciranno a rispettare i loro obiettivi di riduzione delle emissioni per il 2030 e per il 2050, ci sarà comunque bisogno del contributo degli altri paesi per raggiungere il vero obiettivo comune, quello di fermare l’aumento delle temperature.

In conclusione, comunque, bisognerà giudicare le politiche climatiche dei paesi del mondo sulla base dei risultati ottenuti, più che sulle promesse. Non solo perché non è detto che saranno mantenute, ma anche perché ci sono vari modi per ridurre le emissioni e alcuni sono migliori di altri nel tempo: l’amministrazione Obama ad esempio facilitò la transizione dalla produzione di energia col carbone a quella col gas naturale, ottenendo una rapida riduzione delle emissioni di anidride carbonica ma probabilmente facilitando quelle di metano nel lungo periodo. Per ora si ha solo un’idea di come Biden cercherà di dimezzare le emissioni degli Stati Uniti in nove anni, il grosso è da vedere.