Cosa si dice delle dimissioni di Zingaretti

Sono dimissioni reali o strategiche? Come hanno risposto le correnti interne? E cosa potrebbe succedere ora? Un po' di risposte

Nicola Zingaretti, Roma, 21 gennaio 2021 (© Matteo Nardone/Pacific Press via ZUMA Wire)
Nicola Zingaretti, Roma, 21 gennaio 2021 (© Matteo Nardone/Pacific Press via ZUMA Wire)

Giovedì 4 marzo, poco dopo le quattro del pomeriggio, Nicola Zingaretti ha annunciato a sorpresa che si dimetterà da segretario del PD. Zingaretti era stato eletto alle primarie del partito nel marzo del 2019 con il 66 per cento dei voti, e dal 12 marzo 2013 è anche presidente della regione Lazio. Come si è arrivati fin qui? E che cosa può succedere ora?

Cos’è successo giovedì?
Nel messaggio pubblicato su Facebook nel quale annunciava la sua intenzione di dare le dimissioni, Zingaretti ha scritto: «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel PD, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid. […] Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente. L’Assemblea Nazionale (che si terrà il prossimo 13 e 14 marzo, ndr) farà le scelte più opportune e utili».

L’annuncio di Zingaretti è arrivato a sorpresa.

Giovedì pomeriggio al Nazareno, la sede nazionale del PD a Roma, era in corso una riunione sulle prossime elezioni amministrative (tra settembre e ottobre si voterà anche in cinque grandi città: Roma, Napoli, Torino, Bologna, Milano). Daniela Preziosi ha scritto su Domani che durante la riunione non era stato fatto il «minimo accenno» alle imminenti dimissioni. Non erano stati avvisati né i dirigenti del partito vicini a Zingaretti – il suo vice Andrea Orlando e Dario Franceschini, a capo di Areadem, corrente di maggioranza del PD – né, ovviamente, i suoi oppositori interni, come Lorenzo Guerini o Matteo Orfini delle correnti di minoranza di Base Riformista e dei Giovani Turchi. Sembra che nemmeno il nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi fosse stato avvisato.

I giornali scrivono che fosse al corrente della decisione solo Goffredo Bettini, che pur non avendo alcun ruolo formale nel partito viene riconosciuto come una figura molto influente e vicina a Zingaretti.

Perché?
Dopo la caduta del secondo governo Conte e la nascita del governo Draghi, nel PD sono emerse tensioni e fronti che esistevano da tempo, e la leadership di Zingaretti ha cominciato ad essere messa esplicitamente in discussione da alcune correnti del partito.

Una delle questioni di maggior dissenso verso Zingaretti riguardava il suo rapporto con il M5S e la sua volontà, dichiarata, di concretizzare con quel partito un patto strutturale, anche in vista delle amministrative. L’accusa principale a Zingaretti era quella di aver rinunciato a una vocazione maggioritaria del suo stesso partito, e di averlo indebolito a vantaggio di un altro, il M5S, che in alcuni sondaggi recenti ha superato nettamente il PD nell’ipotesi, molto accreditata, di una leadership dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Un’altra delle più importanti critiche degli ultimi giorni riguardava l’assenza di ministre nel gruppo governativo indicato dal PD per il governo Draghi. Questa contestazione si era legata a quella sul doppio incarico di Andrea Orlando, che è vicesegretario del partito e che è appena stato nominato ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. I critici chiedevano le dimissioni di Orlando dalla segreteria, e la nomina di una vice segretaria donna con funzioni di vicaria. Zingaretti aveva fatto capire di voler lasciare Orlando al suo posto.

Sempre di recente, poi, si erano intensificate le critiche alla segreteria centrale del partito per la scarsa attenzione ai territori da parte di alcuni importanti amministratori locali del PD, come il sindaco di Bari Antonio Decaro, quello di Bergamo Giorgio Gori, e quello di Firenze Dario Nardella.

Tra le correnti che nelle ultime settimane hanno portato avanti la contestazione a Zingaretti c’è stata soprattutto Base Riformista, guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti, spesso descritta come quella degli “ex renziani”.

Nei giorni scorsi Zingaretti aveva cercato un compromesso parlando di un “Congresso tematico”: non si sarebbe dimesso, visto che la sua segreteria non sarebbe scaduta fino al 2023, ma avrebbe consultato gli iscritti e le iscritte sulla linea politica da tenere. I suoi oppositori interni, senza far riferimento esplicito alle sue dimissioni, avevano chiesto di tenere un Congresso “vero”, in cui potesse essere messa in discussione anche la leadership. Base riformista aveva minacciato anche di uscire dalla segreteria, mentre Matteo Orfini aveva detto che l’alleanza con il M5S era sbagliata e che o doveva cambiare la linea o doveva cambiare il segretario.

In tutto questo, in molti indicavano in Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna con una lunga esperienza nel partito e una certa vicinanza a Matteo Renzi, il più probabile sfidante di Zingaretti alle prossime primarie.

Ok, ma perché?
Circolano due principali interpretazioni su quanto è successo. Secondo alcuni le dimissioni si Zingaretti sarebbero reali e sincere. Zingaretti avrebbe cioè scelto di lasciare davvero e definitivamente la segreteria per dedicarsi al lavoro in Regione e, forse, per candidarsi a sindaco di Roma alle prossime amministrative.

Secondo altri la mossa di Zingaretti farebbe invece parte di una strategia per placare il dissenso interno e trasformare l’Assemblea Nazionale di metà marzo in una sua riconferma e un suo rafforzamento senza passare per un Congresso anticipato. All’Assemblea Nazionale, ad oggi, Zingaretti ha infatti una larga maggioranza.

L’annuncio delle dimissioni ha inoltre “costretto” tutti a chiedergli di restare: lo hanno fatto sia gli avversari interni che i suoi alleati che fino ad ora e durante le tensioni di questi ultimi giorni erano rimasti in silenzio. Ieri, anche Dario Franceschini, ministro della Cultura e a capo di una delle più importanti correnti di maggioranza, ha invitato tutto il partito a sostenere Zingaretti.

Cosa hanno detto nel partito?
La richiesta a Zingaretti di ritirare le dimissioni è arrivata non solo dagli esponenti della maggioranza interna che giovedì hanno parlato per primi, ma anche dalle correnti di minoranza.

Dopo qualche ora dall’annuncio di dimissioni, Lorenzo Guerini, ministro della Difesa e a capo di Base Riformista, ha detto: «Mi auguro davvero che Zingaretti ci ripensi. In un grande partito come il nostro è normale e legittimo che convivano posizioni diverse. Tutti abbiamo a cuore il PD e ci sentiamo responsabili verso l’Italia e gli italiani». E Andrea Marcucci, capogruppo del PD al Senato: «Spero che Zingaretti ritiri le dimissioni. In un partito democratico e libero come il nostro, è salutare avere anche idee diverse».

Una richiesta simile è stata fatta da Matteo Orfini, che però ha precisato: «Se lo riconfermano non si chiude nulla, puoi eludere i problemi politici per qualche settimana ma poi tornano sul tavolo».

Non ci sono state invece prese di posizione da parte dei sindaci che nelle ultime settimane avevano avanzato delle critiche: per ora non hanno fatto dichiarazioni il sindaco di Firenze Dario Nardella o quello di Bergamo Giorgio Gori. E non ha commentato nemmeno il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini.

Cosa succede ora?
Sul Corriere della Sera di oggi, Massimo Franco ha scritto che ora «il trauma delle dimissioni può sia ricomporre, sia accentuare lo strappo a sinistra; oppure, e non si sa se sia meglio, congelarlo». Questo dal punto di vista politico. Dal punto di vista delle procedure, ci sono invece varie possibilità.

Per Statuto, dopo le dimissioni del segretario va convocata un’Assemblea Nazionale, cioè una specie di parlamento interno al PD che conta circa mille componenti e che è eletta direttamente attraverso il voto alle primarie, con le liste collegate ai diversi candidati alla segreteria. La composizione dell’attuale Assemblea – che è già stata convocata per metà marzo – risale quindi al 2019, quando Zingaretti diventò segretario.

Zingaretti potrebbe cambiare idea e non dare seguito alle dimissioni, oppure potrebbe decidere effettivamente di dimettersi: a quel punto l’Assemblea si scioglierebbe e si aprirebbe la fase congressuale. Nel frattempo, verrebbe nominato un reggente per portare il partito fino al Congresso. Repubblica scrive che il nome che circola in queste ore è quello dell’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti, vicina alla corrente di Franceschini.