L’invenzione dei Pokémon

A Satoshi Tajiri piaceva guardare e catturare gli insetti: trasformò la sua passione nel più grande media franchise del mondo, cominciato 25 anni fa

Da ormai diversi anni quello dei Pokémon è il più grande media franchise al mondo: un vastissimo insieme di prodotti, contenuti e proprietà intellettuali i cui ricavi complessivi sono arrivati quasi a 100 miliardi di euro. In termini economici, l’intero mondo dei Pokémon vale più di quelli di Harry Potter e Star Wars messi insieme. Grazie ai Pokémon sono state vendute centinaia di milioni di copie di videogiochi, il primo dei quali uscì il 27 febbraio del 1996, venticinque anni fa. E poi sono state pubblicate decine di libri e film, sono stati fatti oltre mille episodi di un anime e, tra le tantissime altre cose, sono state vendute oltre 30 miliardi di carte da gioco, una delle quali per un costo di circa 330mila euro.

Partì tutto nei primi anni Novanta, dall’idea di un programmatore di videogiochi non ancora trentenne. Il quale, vedendo che due Game Boy diversi potevano essere collegati via cavo e scambiarsi in quel modo informazioni e contenuti, decise di trasformare in un videogioco – anzi: in due videogiochi – la grande passione che da ragazzo aveva avuto per gli insetti.

Il creatore dei Pokémon si chiama Satoshi Tajiri, nato nel 1965 a Machida: una città che quando lui era bambino e ragazzo era piuttosto rurale e circondata da un po’ di verde, ma che in anni più recenti è stata praticamente inglobata dalla vicina Tokyo. Negli anni Settanta Tajiri si mise a cercare e collezionare insetti, al punto da guadagnarsi il soprannome “Dottor Insetto”. Intervistato a fine anni Novanta da Time, Tajiri disse:

«Gli insetti mi affascinavano. Per prima cosa, mi faceva ridere come si muovevano. E poi erano strani. Ogni nuovo insetto che trovavo, per me era un mistero. E più ne cercavo e più ne trovavo […]. In genere me li portavo a casa e intanto imparavo cose, anche che alcuni se ne mangiavano altri. A un certo punto smisi di portarli a casa, ma sviluppai una serie di modi per catturarli».

Tajiri spiegò di essere il miglior cacciatore e il maggior conoscitore di insetti del suo giro di amici e che sebbene lui non facesse niente per far sì che succedesse, a volte certi insetti «si mettevano a combattere tra loro». La passione di Tajiri e di alcuni altri suoi coetanei con i quali si scambiava tecniche, informazioni e insetti fu però messa a dura prova dall’urbanizzazione, che ridusse le possibilità di ricerca di quei giovani entomologi amatoriali.

Crescendo, Tajiri iniziò ad appassionarsi ai manga, agli anime, alla serie tv Ultraman, e ai videogiochi arcade di fine anni Settanta e dei primi anni Ottanta. Come raccontò, in seguito la sua prima vera grande passione videoludica fu per Space Invaders. Dopo aver terminato un po’ a fatica le superiori, fece un corso di due anni di elettronica e informatica e dal 1981 al 1986 curò e pubblicò Game Freak, una fanzine dedicata ai videogiochi arcade: quelli cabinati, da sala giochi, in genere a gettoni. Era scritta a mano, con le pagine pinzate tra loro, ma si fece conoscere perché, tra le altre cose, analizzava e spiegava nel dettaglio certe strategie di gioco, svelando anche eventuali easter egg (parti nascoste, spesso inutili ma comunque buffe, di certi videogiochi). A Time disse:

«Il numero di maggior successo ebbe una tiratura di 10mila copie, e ognuna costava 300 yen. A 18 anni, quindi, avevo già una mia attività ben avviata. All’inizio facevo fotocopie, ma poi con il crescere delle copie vendute smisi di scrivere a mano e mi presi una stampante».

Game Freak arrivò ad avere anche dei collaboratori e uno di loro era l’illustratore Ken Sugimori, che in seguito sarebbe diventato l’illustratore dei primi 151 Pokémon. Alla fine degli anni Ottanta però Tajiri non si accontentò di commentare e – dopo essersi studiato e procurato l’occorrente – trasformò Game Freak in una piccola e artigianale casa di produzione di videogiochi.  Il primo prodotto sviluppato, nel 1989 fu Mendel Palace, un videogioco d’azione con 100 livelli, in cui il protagonista doveva liberare la fidanzata che era stata rapita.

E già nei primi anni Novanta Tajiri iniziò a pensare che il cavo Game Link con il quale due Game Boy potevano essere collegati offrisse grandi e interessantissime possibilità per sviluppare videogiochi che favorissero lo scambio e l’interazione competitiva tra più giocatori. «Quel cavo mi attraeva davvero molto» spiegò a Time «e mi immaginai dei veri organismi che ci si potessero muovere davvero dentro, avanti e indietro».

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Ripensando alla sua passione per gli insetti si mise quindi a progettare un gioco il cui obiettivo fosse cercare e collezionare dei piccoli “mostri tascabili”. Il primo nome a cui pensò fu proprio Capsule Monsters, al quale seguirono le abbreviazioni CapuMon e KapuMon. Alla fine, però, la scelta cadde su Pocket Monsters e sull’abbreviazione Pokémon (l’accento sulla “e” fu messo per evitare che gli anglosassoni finissero per non pronunciarla).

Tajiri dedicò anni di lavoro a quella sua idea, mettendo a rischio gli affari di Game Freak, dalla quale nella prima metà degli anni Novanta se ne andarono cinque dipendenti. Pare che a quelli che sarebbero diventati i primi giochi dei Pokémon non lavorarono più di nove persone in tutto.

A un certo punto della fase di sviluppo, Tajiri andò da Nintendo – che dal 1989 produceva e vendeva i Game Boy, la più famosa console di videogiochi portatile della storia – per proporre la sua idea. Dopo qualche iniziale titubanza, Nintendo decise di dargli una possibilità e credere in quel progetto, nonostante nel frattempo i giochi per Game Boy iniziassero a sembrare il passato e quelli per computer o PlayStation il futuro.

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Secondo Tajiri, la vera innovazione dei suoi giochi stava nel fatto che il cavo – che già diversi altri giochi usavano per far competere i giocatori – potesse servire soprattutto per scambiarsi quelli che oggi, secondo il sito ufficiale dei Pokémon, sono «creature di varie forme e dimensioni che vivono nella natura insieme agli esseri umani. La maggior parte dei Pokémon non parla ed è in grado di pronunciare solo il proprio nome».

Ispirandosi anche a una serie di animali reali e immaginari che non erano insetti, Tajiri pensò quindi a decine di «creature», dando a ognuna di esse un nome che oltre ad avere un bel suono avesse anche un significato. Il nome Pikachu – un Pokémon “elettrico”che per certi versi ricorda un topo –  nacque per esempio dall’unione di un suono che secondo i giapponesi è quello di una scossa elettrica, e dalla parola con cui si indica lo squittio di un roditore.

Mentre creava i suoi primi Pokémon, Tajiri sviluppò anche le regole del mondo in cui si immaginò di farli vivere e, di conseguenza, le regole dei giochi che stava progettando. Decise, tra le altre cose, che i Pokémon sarebbero stati cercati e catturati così come lui faceva con gli insetti e che il peggior esito possibile di uno scontro tra Pokémon sarebbe stato lo svenimento. Spiegò infatti di non voler vedere né morte né sangue, per non aggiungere al mondo «inutile violenza». (C’è invece, da anni, tutta una grande questione che gira attorno alla domanda: nel mondo dei Pokémon, le persone mangiano i Pokémon?)

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A quanto pare, fu invece uno dei collaboratori di Tajiri ad avere l’idea di far uscire in contemporanea due giochi molto simili che però avevano al loro interno alcuni Pokemon tra loro diversi. Così che chi avesse uno dei due giochi dovesse, per arrivare ad avere tutti i Pokémon, collegarsi via cavo con qualcuno in possesso dell’altro. I due giochi, Pokémon Rosso e Pokémon Verde, uscirono in Giappone il 27 febbraio 1996 ed ebbero subito un grande successo.

I giocatori si accorsero piuttosto rapidamente dell’esistenza un misterioso Pokémon chiamato Mew, che a quanto pare fu creato di nascosto dagli sviluppatori del gioco all’insaputa di Nintendo: secondo quanto si dice sfruttando un piccolo spazio di memoria ricavato nelle ultime fasi di sviluppo del gioco nelle cartucce che lo contenevano. Tajiri ne parlò così:

«Mew all’inizio non era incluso nei giochi, e non era possibile trovarne uno giocando. Per averlo dovevi interagire con Game Freak o con Nintendo. C’erano 150 Pokémon, e Mew era il numero 151. L’unico modo per averne uno era scambiandolo con altri. La cosa creò un mito attorno al gioco, tenne vivo l’interesse».


C’è anche chi ritiene che oltre a questioni tecniche, estetiche e narrative legate a quelle strane creature di fantasia, i Pokémon ebbero così tanto successo perché furono il miglior prodotto di quello che in Giappone è noto come “il decennio perduto”. Cioè quel particolare periodo, successivo alla grande crisi finanziaria che colpì il paese nel 1991, in cui si persero molte certezze e, tra le altre cose, ci si rifugiò in quello che è noto come iyashi: un particolare tipo di escapismo che, tra le altre cose, portò a un interesse sempre maggiore verso prodotti commerciali come i “robot da compagnia” Paro e AIBO, come il Tamagotchi e, per certi versi, come i Pokémon. Anche loro, infatti, erano dei «compagni virtuali».


Nell’ottobre 1996 arrivarono in Giappone le prime carte dei Pokémon e nel 1997 arrivarono i primi episodi dell’anime che – per una decisione in cui Tajiri non fu coinvolto – scelse di puntare molto su Pikachu, che nei giochi era solo un Pokémon come gli altri. In un paio di anni dal Giappone i due giochi arrivarono nel resto del mondo e con loro quella che qualcuno prese a chiamare Pokémania. Anni dopo, poi, sarebbe arrivato quel gioco per smartphone a cui qualche estate fa sembravano giocare tutti, vagando per i parchi con il braccio proteso in cerca di Pokémon da catturare in una semplice ma efficacissima realtà aumentata.

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A Time Tajiri – un tipo descritto come «eccentrico e solitario» – disse nel 1999: «Oggigiorno i ragazzi non hanno molto tempo per rilassarsi. Ho pensato quindi a un gioco che potesse aiutarli a pensare ad altro durante quelle pause da cinque o dieci minuti».