Non abbiamo abbastanza microchip

La produzione non riesce a stare dietro alla domanda: per ora ci sono problemi nel settore automobilistico, ma potrebbero espandersi

Un microchip visto al microscopio a una fiera di tecnologia a Pechino, nel 2018 (AP Photo/Ng Han Guan)
Un microchip visto al microscopio a una fiera di tecnologia a Pechino, nel 2018 (AP Photo/Ng Han Guan)

Da dicembre dell’anno scorso in alcuni settori produttivi scarseggiano i microchip, i componenti necessari per il funzionamento di computer, smartphone e praticamente ogni apparecchio elettronico: i principali produttori globali faticano a stare al passo con la domanda del mercato, che è aumentata a causa di vari fenomeni tra cui la pandemia da coronavirus e la guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti.

Per ora questa carenza globale di microchip (o soltanto chip) ha colpito quasi esclusivamente il settore automobilistico, dove sono essenziali per il funzionamento di moltissimi elementi non meccanici di un’automobile, dal computer di bordo ai sensori di parcheggio. Ma pochi giorni fa Samsung, l’azienda tecnologica sudcoreana che tra le altre cose è uno dei più grandi produttori di microchip del mondo, ha fatto sapere che i problemi di fornitura potrebbero interessare la produzione di altri apparecchi, come per esempio computer e console. Lo stesso hanno fatto Qualcomm, un’azienda americana che progetta microchip per smartphone e vari device, e altri.

La carenza di microchip nel settore automobilistico è cominciata alla fine di dicembre dell’anno scorso, quando Volkswagen aveva fatto sapere che avrebbe prodotto 100 mila automobili in meno nelle sue fabbriche in Europa, Cina e Stati Uniti perché due dei suoi principali fornitori, Bosch e Continental, non stavano riuscendo a trovare abbastanza microchip per rifornire di componenti l’azienda tedesca.

Nel giro di poche settimane, praticamente tutte le altre importanti case automobilistiche avevano annunciato ritardi e rallentamenti nella produzione a causa della carenza di chip, come ha raccontato Bloomberg: Nissan aveva fatto sapere che avrebbe rallentato la produzione della Note, uno dei suoi modelli più noti; Fiat Chrysler aveva sospeso la produzione in alcune fabbriche in Canada e Messico; Honda aveva tagliato la produzione di 4.000 autovetture in una fabbrica in Giappone; Ford aveva sospeso per una settimana la produzione in una fabbrica di SUV in Kentucky, negli Stati Uniti, e per un mese in un’altra in Germania; General Motors aveva annunciato che a partire dall’8 febbraio avrebbe fermato la produzione in tre fabbriche tra Stati Uniti e Messico e avrebbe dimezzato quella in Corea del Sud.

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La società di analisi IHS Markit ha stimato che nel primo trimestre dell’anno la produzione globale di automobili sarà ridotta del tre per cento, ma altre stime sono più gravi, come quelle di fonti interne al settore che hanno detto al Financial Times che a febbraio il calo della produzione potrebbe essere del 10-20 per cento. Anche le perdite economiche sono molto forti: Ford, per esempio, ha stimato che potrebbe perdere 2,5 miliardi di dollari a causa del rallentamento della produzione e delle vendite.

Le ragioni della carenza di microchip nel settore automobilistico sono in parte legate alle caratteristiche di quest’industria e in parte più generali. Nella prima metà del 2020, a causa della pandemia da coronavirus, il ritmo della produzione di vetture è rallentato fin quasi a fermarsi un po’ in tutto il mondo. Nella seconda metà dell’anno, la produzione è ripresa a un ritmo molto forte, e in gran parte inatteso, che ha messo in difficoltà i produttori di automobili. La maggior parte delle case automobilistiche, per tenere i costi bassi, di solito mantiene un inventario molto ridotto di componenti: il modello di business (che si chiama “just in time supply chain”) prevede che si acquisti quasi esclusivamente ciò che serve per la produzione già programmata, con margini molto ristretti.

Per questo, quando la domanda è molto aumentata nella seconda metà dell’anno scorso, le case automobilistiche che venivano da un periodo di produzione quasi ferma si sono trovate con un inventario insufficiente, e sono corse a fare ordini massicci di microchip, tra le altre cose. A quel punto, però, le aziende che li producono si trovavano già al limite della loro capacità produttiva, perché molti altri settori (per esempio i produttori di computer, o di server per i servizi cloud) avevano avuto simili aumenti della domanda, e avevano fatto moltissimi nuovi ordini.

Le aziende che producono microchip, trovandosi con un’enorme quantità di ordini da vari settori produttivi, hanno generalmente snobbato quelli delle case automobilistiche, per ragioni economiche. L’elettronica, che è gestita dai microchip, ha un ruolo sempre più importante nella produzione delle automobili: in media, il 40 per cento del valore di un’auto nuova è composto da componenti elettronici. Nonostante questo, il settore automobilistico utilizza soltanto il 10 per cento della produzione globale di microchip, e questo dà alle case automobilistiche scarso potere negoziale.

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Inoltre le case automobilistiche comprano chip meno avanzati e costosi (i chip che servono per i sensori di parcheggio di un’auto sono più a buon mercato e facili da realizzare di quelli che servono per far funzionare uno smartphone, per esempio) e sono disposte a pagare meno, perché il loro business ha margini molto meno ampi di quello di un produttore di smartphone, che può pagare di più pur di ottenere i componenti in tempo.

Le difficoltà delle aziende produttrici di microchip nel soddisfare la domanda globale hanno anche ragioni strutturali, e non riguardano soltanto il settore automobilistico.

Anzitutto, queste aziende sono relativamente poche. Costruire un microchip è un’operazione complessa e dispendiosa che richiede l’utilizzo di strutture di precisione e ad alta tecnologia, e sono poche le aziende disposte a fare investimenti ingenti in questo processo di produzione. Per esempio, le aziende in grado di produrre i microchip più avanzati e di ultima generazione, quelli a 7 e 5 nanometri, sono soltanto tre in tutto il mondo: Intel negli Stati Uniti, Samsung in Corea del Sud e TSMC a Taiwan (tra queste Intel è un po’ in difficoltà: sta ancora lavorando alla tecnologia a 7 nanometri, e soltanto le ultime due hanno già messo sul mercato processori a 5 nanometri, nel corso del 2020).

Quando si parla di microchip a 5 nanometri si intende il grande livello di miniaturizzazione dei componenti interni di un chip (un nanometro corrisponde a un milionesimo di millimetro), che consentono di avere maggiore potenza a parità di dimensioni.

Oltre a Intel, Samsung e TSMC ci sono molte altre aziende negli Stati Uniti, in Europa e in Asia che producono microchip meno avanzati, ma negli ultimi anni la produzione si è concentrata su sempre meno fabbriche: aziende famose come Apple, Arm, Nvidia e Qualcomm, che sono spesso indicate come produttrici di microchip, in realtà si limitano a progettarli, e poi delegano la produzione ad aziende come la taiwanese TSMC. Quest’ultima in particolare negli anni più recenti ha conquistato enormi quote di mercato: secondo una ricerca della società di analisi Trendforce citata da Bloomberg, il 56 per cento di tutte le entrate generate dalla produzione di microchip nell’ultimo trimestre del 2020 è andato a TSMC.

Una delle ragioni di questa forte concentrazione del mercato è stata la guerra commerciale che l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha condotto contro la Cina. Per evitare dazi e sanzioni, le aziende di tutto il mondo hanno cancellato gli ordini di microchip fatti ai produttori cinesi (come per esempio SMIC, che non è in grado di creare chip di ultima generazione ma che ha comunque ampie capacità produttive), aumentando così il carico di lavoro degli altri produttori.

Inoltre Trump, nel corso del 2020, ha impedito all’azienda di tecnologica cinese Huawei di comprare componenti che contenessero tecnologia americana, e visto che un po’ tutti i microchip la contengono, Huawei si è accaparrata moltissimi chip prima che il divieto entrasse in vigore, riducendo le scorte dei produttori.

TSMC ha annunciato nel corso delle ultime settimane di aver aumentato la sua capacità produttiva, e ha anche detto che avrà più riguardi nei confronti dell’industria automobilistica, soprattutto dopo che Peter Altmaier, il ministro dell’Economia tedesco, ha contattato il governo di Taiwan per lamentarsi dei rallentamenti della produzione causati a Volkswagen e ad altre case automobilistiche.

Nonostante questo, la carenza di microchip si è già estesa ad altri settori oltre quello automobilistico. Lisa Su, amministratrice delegata di AMD, un’azienda statunitense che progetta microchip, ha detto che la carenza globale di microchip proseguirà probabilmente fino a metà di quest’anno, e che creerà problemi alla produzione di computer di fascia bassa e di console per i videogiochi.

Sony, l’azienda che produce la console PlayStation, ha fatto sapere che effettivamente la produzione è rallentata a causa della carenza di chip. Anche Microsoft, che produce la console Xbox, ha detto che dall’inizio dell’anno ci sono stati rallentamenti nelle sue fabbriche, ma ha parlato in maniera più generica di problemi con le forniture, senza citare i microchip (bisogna ricordare però che il fatto che gli ultimi modelli di PlayStation e Xbox siano ancora difficili da trovare nei negozi dipende da molti fattori oltre ai microchip).

Se si escludono dunque le console, è difficile per ora dire quanto la carenza di microchip potrebbe danneggiare i consumatori: molto dipenderà probabilmente da quanto dureranno i rallentamenti di produzione.

Non è la prima volta che nel mondo ci sono carenze di microchip, anche se l’ultima davvero grave fu alla fine degli anni Ottanta. In seguito, le crisi sono state provocate da eventi catastrofici, come il terremoto in Giappone del 2011, che danneggiò gravemente alcune fabbriche. Dopo quell’evento, la casa automobilistica giapponese Toyota decise di espandere il suo inventario di componenti, e grazie a quella decisione oggi è una delle case automobilistiche che hanno avuto meno rallentamenti nella produzione.