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  • Lunedì 23 novembre 2020

A che punto è la guerra in Etiopia

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha dato 72 ore di tempo per arrendersi al Fronte di liberazione del Tigrè

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali durante la cerimonia di premiazione dei premi Nobel, a Oslo, in Norvegia, il 10 dicembre 2019 (Erik Valestrand/Getty Images)
Il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali durante la cerimonia di premiazione dei premi Nobel, a Oslo, in Norvegia, il 10 dicembre 2019 (Erik Valestrand/Getty Images)

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha dato 72 ore di tempo per arrendersi al Fronte di liberazione del Tigrè (TPLF), il partito che controlla la regione del Tigrè e che è in guerra da più di tre settimane con il governo centrale. Aby ha scritto su Twitter che le forze governative sono nella loro «terza e ultima fase delle operazioni militari» nel Tigrè e ha invitato i ribelli ad arrendersi visto che si trovano «a un punto di non ritorno».

Il 20 novembre il governo dell’Etiopia aveva detto che le sue forze armate si stanno avvicinando alla capitale della regione del Tigrè, Macallè, una città sull’altipiano di circa 500mila abitanti. Durante il conflitto fra il TPLF e il governo centrale sarebbero morte centinaia di persone e 30mila rifugiati sarebbero stati costretti a fuggire nel vicino Sudan. Entrambe le parti in conflitto accusano l’altra di atrocità e di aver bloccato l’accesso agli aiuti umanitari. L’ONU aveva già parlato del rischio di un disastro umanitario, con milioni di persone che potrebbero presto rimanere senza cibo e carburante.

Gli scontri armati tra i due schieramenti sono iniziati nella prima settimana di novembre, e si sono via via intensificati. Il 15 novembre le forze locali del Tigrè avevano lanciato alcuni razzi contro Asmara, la capitale della vicina Eritrea, probabilmente per cercare di “internazionalizzare” il conflitto: il TPLF, infatti, aveva sostenuto che i soldati eritrei stessero combattendo a fianco dell’esercito etiope – affermazione che però non aveva trovato riscontri – nel tentativo di far sembrare il governo federale debole e in difficoltà, così in difficoltà da chiedere aiuto ai suoi nemici storici, gli eritrei.

Non è facile ricostruire quale sia la reale situazione sul campo perché le comunicazioni nella regione sono ferme: internet, telefoni cellulari e fissi non funzionano. La guerra in Etiopia sta attirando l’attenzione non solo perché è il secondo stato più popoloso del continente africano e il più potente nella regione del Corno d’Africa, ma anche perché il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, nel 2019 aveva vinto il premio Nobel per la Pace per avere fatto la pace con la vicina Eritrea e per avere avviato un processo storico di riforme e democratizzazione. L’entusiasmo però non era durato a lungo, e nel corso dell’ultimo anno Abiy era stato accusato più volte di essere scivolato di nuovo nell’autoritarismo violento dei suoi predecessori.

– Leggi anche: Abiy Ahmed si è meritato il Nobel per la Pace?

La questione è piuttosto complicata, e non si limita solo alle presunte pratiche autoritarie di Abiy. Le tensioni con il governo regionale del Tigrè arrivano da lontano e sono legate per lo più all’esclusione del partito dominante della regione, il Fronte di liberazione del Tigrè (TPLF), dal governo federale. Il TPLF era stato escluso con l’arrivo al potere di Abiy, dopo che per decenni era stato la più influente forza di tutta la politica etiope, nonostante rappresentasse un’etnia, quella tigrina, che corrispondeva solo al 6 per cento dell’intera popolazione nazionale.

I tigrini hanno un’importante storia di successi militari: nel 1991 guidarono fino ad Addis Abeba, la capitale etiope, una marcia dei ribelli che riuscì a rovesciare l’allora dittatura marxista, e nel biennio del massimo conflitto con l’Eritrea, tra il 1998 e il 2000, sostennero buona parte del peso delle operazioni militari. Ancora oggi il TPLF può contare su militari competenti e con esperienza, e su armi sofisticate.