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  • Domenica 30 agosto 2020

I paesi che offrono un visto per lavorare da remoto

Alcuni lo facevano anche prima della pandemia da coronavirus, altri hanno iniziato a farlo per rilanciare l'economia

(Andrey Nekrasov/ ZUMA Wire / ANSA)
(Andrey Nekrasov/ ZUMA Wire / ANSA)

Negli ultimi mesi alcuni paesi hanno iniziato a offrire visti lavorativi temporanei alle persone straniere che possono lavorare da remoto. In genere sono paesi poco popolati e la cui economia si basa per lo più sul turismo, uno dei settori più danneggiati dalla pandemia da coronavirus. Da un lato, questi governi sperano di attirare le persone con la promessa di uno stile di vita alternativo, più rilassato, e che consenta di mantenere più facilmente il distanziamento fisico; dall’altro, sperano di risollevare il turismo e far crescere l’economia. Ci sono però alcuni importanti limiti.

Negli ultimi anni si è diffusa la definizione di “nomadi digitali”, che descrive quelle persone che possono svolgere il proprio lavoro semplicemente utilizzando computer, tablet o smartphone e che possono farlo ovunque si trovino, purché ci sia una connessione a internet.

Come aveva spiegato la giornalista Arianna Dagnino, che fa proprio questa vita, sono persone che hanno creato un rapporto nuovo con il lavoro e spesso sono «sradicate», e che hanno «sviluppato una rara abilità transculturale». Ora che si prevede che lo smart working andrà avanti per parecchio tempo, i governi di alcuni paesi hanno studiato appositi programmi per proporre degli speciali visti lavorativi che durino di più dei normali permessi turistici e siano destinati a chi è disposto a trasferirsi pur continuando a lavorare da remoto.

Uno di questi paesi è Bermuda, l’isola che si trova nell’oceano Atlantico settentrionale, circa 1.450 chilometri a est degli Stati Uniti. Bermuda ha messo a punto il programma “Work from Bermuda Certificate”, che è stato avviato lo scorso 1 agosto ed è destinato sia a chi lavora da remoto sia agli studenti universitari. E. David Burt, primo ministro di Bermuda, ha invitato gli stranieri a prendere in considerazione la possibilità di trasferirsi a lavorare sull’isola perché «Bermuda è sicura, ospitale, vicina e bellissima».

Fare la domanda per il programma di Bermuda costa 263 dollari statunitensi (circa 220 euro) e, se approvata, dà diritto alla permanenza per un anno con possibilità di rinnovo. Oltre a spiegare che Bermuda curerebbe la «malinconia da coronavirus», Burt ha sottolineato che il governo ha messo in atto «il regime di test anti COVID-19 più rigido del mondo»: secondo i dati ufficiali, a Bermuda, che ha 64mila abitanti, fino a oggi sono stati registrati solo 168 casi di contagio e 9 morti per cause legate al coronavirus.

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Tra gli altri vantaggi di questi programmi, secondo i paesi che li propongono, ci sono i diversi benefici che porterebbe un cambio di stile di vita a chi decidesse di trasferirsi.

Anche Barbados, l’isola dei Caraibi che fa parte delle Piccole Antille e si trova a nord del Venezuela, ha avviato il programma “12 month Barbados welcome stamp” sottolineando diversi vantaggi. Come ha detto la prima ministra di Barbados, Mia Amor Mottley, la pandemia ha aperto nuove opportunità per chi deve lavorare da casa e spesso lo fa in «condizioni molto stressanti»: secondo Mottley, chi si trasferisce a Barbados per «lavorare dal paradiso», non solo potrebbe mantenere il proprio reddito, ma anche vivere in una delle località turistiche «più amate» in sicurezza. A Barbados, uno stato di 285mila abitanti, finora sono stati registrati 161 casi di contagio da coronavirus e 7 morti.

Rispetto al programma di Bermuda, quello di Barbados è più costoso (il costo della domanda è di 2.000 dollari statunitensi, pari a circa 1.700 euro); inoltre, come ha spiegato BBC, chi fa domanda deve avere un salario minimo annuale di 50mila dollari (circa 42mila euro) e un’assicurazione sanitaria. Sia col visto di Bermuda sia con quello di Barbados non è necessario pagare le tasse, che vanno invece versate nel paese di residenza.

Oltre a queste isole prettamente turistiche, anche altri paesi hanno studiato visti dedicati appositamente ai “nomadi digitali”.

Per esempio, il programma della Georgia, stato del Caucaso, ha ricevuto 2.700 domande di adesione nel giro di pochi giorni. Il nuovo visto dedicato a freelance e liberi professionisti era stato annunciato a metà luglio dalla ministra dell’Economia georgiana, Natia Turnava, e le richieste sono arrivate sia da persone residenti nei paesi confinanti con la Georgia, sia da paesi europei. Secondo Turnava, la Georgia ha «la reputazione di paese sicuro a livello epidemiologico»: su 3 milioni e 700mila abitanti sono stati registrati 1.429 casi di infezione e 19 morti. Pertanto, per continuare a garantire la sicurezza, chi otterrà il visto dovrà sottoporsi a una quarantena di 14 giorni dopo l’arrivo nel paese.

In Europa il visto più ampio dedicato ai lavoratori da remoto è quello che ha presentato lo scorso 1 agosto l’Estonia e che ha l’obiettivo di raccogliere almeno 1.800 domande.

Tallinn, la capitale dell’Estonia. (Monika Skolimowska/ dpa-Zentralbild/ ZB / ANSA)

Il “Digital Nomad Visa” consente di lavorare da remoto in Estonia sia a freelance stranieri, sia a persone impiegate da aziende straniere. Fare la domanda costa 100 euro; in più è necessario avere un’assicurazione sanitaria e dimostrare di aver guadagnato più di 3.504 euro lordi mensili nei sei mesi precedenti alla domanda.

Delle tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), l’Estonia è quella che si trova più a nord, e con 1 milione e 300mila abitanti è anche quella meno abitata. Dal momento che il 60 per cento del territorio estone è occupato da foreste, ha spiegato Ott Vatter, direttore del programma per ottenere il visto, per chi si trasferisce sarebbe piuttosto semplice mantenere il distanziamento fisico.

Inoltre, ha chiarito Vatter, con il lancio del “Digital Nomad Visa” l’Estonia sta affrontando un’altra importante questione: quella delle persone che lavorano illegalmente nel paese utilizzando un visto turistico. Oltre ad attirare «le migliori persone di talento» per far crescere l’economia nazionale, il governo ha anche l’obiettivo di regolarizzare la posizione dei lavoratori che al momento sono irregolari.

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BBC ha intervistato Dave Cook, un antropologo dello University College di Londra specializzato in nomadismo digitale. Secondo Cook, questi programmi sono invitanti, ma hanno anche grossi limiti: prima di tutto, i paesi che hanno proposto i visti per il lavoro da remoto stanno cercando un modo di incuriosire i turisti ma spesso «non hanno ben chiara la prospettiva del nomade digitale»; inoltre, in questi paesi, mancherebbero le occasioni di socialità che i “nomadi digitali” invece ricercano, come anche le reti di contatti e gli spazi di coworking, ovvero «strutture che non spuntano da un giorno all’altro».

Oltretutto, va tenuto in considerazione che il costo della vita in paesi come Bermuda e Barbados è particolarmente alto (nella classifica di Forbes del 2020, Barbados è il dodicesimo paese per costo della vita).

Per il momento non sono ancora stati realizzati studi per analizzare quale sarà l’impatto economico dei visti dedicati ai “nomadi digitali”. Tuttavia, secondo Cook, sarà interessante osservare come «si combineranno la sottocultura dei nomadi digitali e la discussione globale sul lavoro da remoto».

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