Nostalgia, utopia e nomadi digitali

Da tempo porto avanti un canale Telegram di notizie e segnalazioni: Mostly, I Write. Non pago, ho deciso di far partire una newsletter omonima: [Mostly, I Write ~ Digest]. Ho scritto un paio di numeri zero, sono pronto per partire, ma ho deciso di provare a fare anche un altro esperimento. Voglio pubblicare qui sul Post, con alcuni giorni di ritardo, alcuni dei contenuti della newsletter, per cercare di farli circolare ulteriormente. Quindi: proviamo, perché no? Questa volta si parla di nostalgia, di utopia e di nomadi digitali.

 

Un tuffo all’indietro. Prendo le mosse da una newsletter storica, TidBITS, che questa settimana (nel numero 1454…) ha un lungo articolo del suo fondatore, Adam Engst, dedicato a chi viaggiava con la tecnologia nel 1999. Stiamo parlando dei primi “nomadi digitali”, per intenderci. Un argomento sul quale mi sono dilungato in passato.

La prima cosa da capire è semplice: i nomadi digitali vogliono reinventare il modo in cui si fanno i lavori “creativi” e da impiegato di concetto. Le loro caratteristiche principali sono due: gli strumenti di lavoro che usano per fare quel che serve, la tastiera del computer e gli altri gadget digitali (tablet, smartphone), e il modo con cui entrano in relazione con il loro lavoro, tramite connessione a internet.

Bene, Engst prende le cose da un altro punto di vista: niente teoria o analisi (come ho fatto io) e invece tanto racconto. In particolare, memorie del tempo che fu. Sono passati vent’anni e qualcosa vuol dire. In due articoli per TidBITS, cioè “Working Off the Beaten Track” parte prima e parte seconda rispettivamente del 6 dicembre 1999 e del 28 febbraio 2000, il prode Gideon Greenspan, imprenditore ancora in circolazione (all’epoca abitava a Londra, oggi a Tel Aviv), ha deciso di gestire la sua software house tramite il suo portatile:

between 18-Oct-99 and 08-Dec-99 I’m roaming the Far East with my company, Sig Software, literally strapped to my back

Il portatile in questione era un PowerBook G3, con un drive Zip e qualche cartuccia per fare backup, software vari intelligentemente (e artigianalmente) intrecciati tra loro su System 8, nonché un modem e un abbonamento che permetteva di connettersi da ovunque nel mondo tramite connessione telefonica. Più o meno.

Costo del setup dell’epoca: 3.500 dollari, cioè circa 5.100 dollari di oggi. Per noi adesso sono 4.460 euro. Questo mi ha fatto tra le altre cose ricordare perché ho comprato il mio primo portatile solo nel 2001: un iBook 500 GHz bianco che ancora mi guarda sospettoso ogni volta che apro l’armadio della cameretta e che all’epoca era costato 1200 euro o giù di lì.

Il nomadismo digitale era un sogno, un desiderio, una aspirazione. Praticarlo non era facile, almeno se si vuole fare un paragone con l’attuale generazione Starbucks: in questo momento ad esempio sono in un bar di Milano che sto scrivendo collegato in WiFi. Fantascienza. All’epoca si viaggiava con una decina di chili sulla schiena, adattatori e trasformatori pesantissimi oltre al computer – che aveva al massimo tre ore di autonomia – mentre il sogno era la leggerezza, che sarebbe arrivata dopo con nuovi smartphone, tablet e ultrabook (nel mio caso: iPhone, iPad mini e MacBook Air 11). E connessione ubiqua: quando penso alla eSim dei nuovi iPhone X/XS e degli ultimi iPad e Pixel 3, mi rendo conto che stiamo per fare finalmente il salto della connettività totale, o almeno spero.

Il personaggio del mio articolo per Link – Idee per la televisione, cioè Steve Roberts, aveva anticipato decisamente i tempi e, in qualche modo, lo aveva fatto sotto gli occhi di tutti, almeno negli Stati Uniti:

“È nei volti degli uomini d’affari che sudano nei loro completi. È nel volto dei giornalisti che si accorgono, dopo pochi minuti che mi stanno intervistando, che io vivo il loro sogno. È nelle facce dei giovani e dei vecchi che si girano per dare un’occhiata mentre io sfreccio sotto le finestre dei loro uffici. È ovunque, perché è un desiderio universale. È il desiderio della libertà”.

Ma ricordo che anche in Italia, a cavallo del nuovo millennio, avevamo vissuto con più o meno l’intensità del nomadismo digitale. A Milano c’era il POC. PowerBook Owner Club, una associazione che faceva dei portatili di Apple il suo punto di forza (di cui sono stato membro anche io). Mentre alcune famiglie hanno deciso di utilizzare la rete e l’informatica da passeggio come strumento abilitante per vivere in un altro modo: la mia collega Arianna Dagnino, ad esempio, che con il marito e figli ha vissuto tra Australia e Canada, scrivendo libri e una abbondanza di saggi (qui bello lungo in PDF) che parlano dei “grandi attraversatori di frontiere” (multimediali, multietniche e multiculturali):

Si sentono a casa a New York come a Bombay, sono “sradicati” ma hanno famiglia, passano dal sushi al chicken tandoori con la stessa facilità con cui passano dal “Washington Post” a “Le Monde”. Parlano più di una lingua straniera, utilizzano quotidianamente le tecnologie più avanzate (dalla posta elettronica alle videoconferenze) e sono, generalmente, liberi professionisti. Parliamo di individui che hanno sviluppato una rara abilità transculturale, capaci di nuotare agilmente fra le acque delle differenze etniche, sociali e linguistiche. Per loro instaurare rapporti d’affari a Parigi o a Tokyo, con un tycoon della finanza locale o con un hacker dell’underground informatico non fa alcuna differenza; e questo non perché sono maghi del business ma perché, nella maggior parte dei casi, conoscono e comprendono entrambe le culture (francese e giapponese, istituzionalizzata o alternativa) dall’interno. Veloci e flessibili di pensiero, hanno come unica fede terrena il cosmopolitismo. Grandi esperti in fatto di repentine metamorfosi, sanno calarsi in qualsiasi habitat reale o virtuale mantenendo intatta la loro intrinseca e complessa identità. Di fronte alla più banale delle domande, “Da dove vieni?”, ammutoliscono e, dopo un breve silenzio impacciato, rispondono con un’altra domanda, questa volta sconcertante: “In quale anno?”. Questo è il profilo sintetico in cui si riconoscono i “nomadi globali”, i nuovi cavalieri erranti della civiltà digitale. Rappresentano, per il momento, una fetta esigua e poco appariscente della forza lavoro mondiale ma sono destinati a diventare l’élite, influente quanto indispensabile, di una nuova era.

Utopia, direte voi. In parte è così. Oggi è stata sostituita da tanto precariato e da una serie di relazioni definite “liquide” perché instabili, prive di certezze. Arianna comunque non è stata l’unica. Su Twitter da anni seguo le tracce di una coppia di designer digitali (Rekkaquesto è il suo sito – e Devine) molto più giovani di me che hanno deciso di vivere in barca, navigando attraverso il Pacifico – attualmente. Cosa conta la loro nazionalità d’origine? Niente.

Ci sono chiavi di lettura più sofisticate, ovviamente. La prospettiva sui nomadi digitali è solo una tessera del mosaico della società in cui viviamo. La cui complessità è difficile da percepire ma che, come sistema, ovviamente coesiste tutto insieme e interagisce per quanto fenomenologicamente possibile. Voglio dire: lo sguardo tecno-ottimista di chi vuole cogliere le opportunità della rete per disancorarsi dalla coincidenza di luogo di lavoro, di relazione e di vita.

Alan Kay: Dynabook

Dynabook di Alan Kay

Concludo ricordando un vecchio libro del 1974 di Stewart Brand, II Cybernetic Frontiers, al cui interno c’è un bozzetto di un computer immaginato nel 1972 da Alan Kay (scienziato informatico di notevole spessore e vincitore del premio Turing) chiamato Dynabook.

La sua idea (qui il Pdf) di computer per i bambini, per quanto ancora basata su tastiera e stilo, è di una modernità impressionante. I due bambini che giocano sull’erba, disegnati dallo stesso Kay, sono i ragazzi di oggi con i tablet che siamo riusciti a realizzare dopo quasi quarant’anni. Tecnologie che liberano qualcosa di più che non semplicemente il gusto ottocentesco per l’esotismo da nomadi-borghesi dei paesi ricchi dell’Occidente bianco. È uno spirito diverso, una forma pervasiva di informatica, non più personale in senso tecnico ma nuovamente centralizzata nella nuvola digitale della rete.

Una informatica che pone, come sappiamo, problemi molto più complessi che non trovare casa per le vacanze su AirBnB: pervasività dei social media come strumento primario di relazione, liquefazione dei legami forti ed emergenza dei legami sociali deboli, disintegrazione della privacy, perdita del senso e dei legami tradizionali, rischi di derive demagogiche e di super-controllo automatico. Ma anche, telelavoro, tipi completamente nuovi di alienazione, frantumazione delle forme tradizionali di occupazione. Tuttavia, questi sono argomenti per altre newsletter.

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Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio