Le domande senza risposta sul coronavirus

In sei mesi di pandemia ricercatori e medici hanno scoperto molte cose sulla COVID-19, scrive Nature, ma ci sono almeno cinque cose che ancora non sappiamo

Coronavirus, in rosso, tra i tessuti cellulari, osservati al microscopio elettronico (NIAID)
Coronavirus, in rosso, tra i tessuti cellulari, osservati al microscopio elettronico (NIAID)

La pandemia da coronavirus in corso è una delle peggiori crisi sanitarie dell’ultimo secolo: da gennaio ha causato oltre 11,6 milioni di casi rilevati e la morte di oltre mezzo milione di persone. In più di sei mesi, medici e ricercatori hanno scoperto molte cose sulle caratteristiche del coronavirus, dal modo in cui attacca le cellule alla risposta sproporzionata del nostro sistema immunitario, che talvolta porta a sintomi gravi e che rendono necessario il ricorso alla terapia intensiva.

Molti altri aspetti del virus e della COVID-19 sfuggono ancora o non sono completamente chiari ai ricercatori. Il sito di Nature, una delle riviste scientifiche più importanti al mondo, ha messo insieme un elenco di cinque domande sul coronavirus per le quali non ci sono ancora risposte convincenti.

Perché le persone reagiscono in modi così diversi?
In alcune persone infette, il coronavirus (SARS-CoV-2) non sembra causare alcun tipo di problemi e non porta alla manifestazione di sintomi, mentre in altri individui può comportare gravi complicazioni, con serie difficoltà respiratorie che in alcuni casi possono rivelarsi letali.

Una ricerca condotta su circa 4mila persone in Italia e Spagna ha permesso di identificare alcune caratteristiche genetiche che, secondo gli autori, potrebbero fornire una risposta alla varietà con cui si presenta la COVID-19. I pazienti che hanno sviluppato gravi sintomi respiratori avevano con maggiore probabilità due varianti genetiche, assenti nelle persone che non avevano sviluppato sintomi. Una variante riguarda i meccanismi che determinano il proprio gruppo sanguigno, mentre un’altra riguarda una proteina nelle membrane cellulari, che viene sfruttata dal coronavirus per eludere le difese della cellula, iniettare al suo interno il proprio materiale genetico e avviare poi i processi con cui si moltiplica.

Il reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Bassini di Cinisello Balsamo, Milano (Claudio Furlan/LaPresse)

Queste varianti non sembrano però avere le potenzialità per determinare da sole la gravità della COVID-19. Per questo altri ricercatori sono al lavoro per studiare le caratteristiche genetiche di individui che si sono ammalati, ma che hanno meno di 50 anni di età e dovrebbero quindi essere meno a rischio rispetto alle persone più anziane.

Si diventa immuni al coronavirus?
A oggi non sappiamo se il nostro sistema immunitario sia in grado di mantenere una memoria del SARS-CoV-2, dopo la guarigione, né per quanto possa durare questa eventuale immunità. Finora è stata rilevata la presenza di anticorpi neutralizzanti – che hanno un ruolo centrale nell’impedire una nuova infezione bloccando alcune proteine del virus – ma si è osservato che i loro livelli tendono a diminuire sensibilmente dopo poche settimane da quando si è diventati infetti.

C’è però la possibilità che questi anticorpi rimangano presenti in quantità più significative nelle persone in cui il coronavirus era riuscito a replicarsi abbondantemente, causando un’infezione più grave. Si era osservato qualcosa di analogo con il SARS-CoV-1, il coronavirus che causa la SARS e che ha diverse cose in comune con l’attuale: gli anticorpi neutralizzanti nei guariti dalla SARS tendevano a scomparire dopo pochi anni, ma nei pazienti che avevano subìto un’infezione più consistente duravano molto più a lungo, con la possibilità di riscontrarne la presenza anche a oltre 10 anni dal primo contatto con il virus.

Attualmente non è chiaro però quale sia il livello minimo di anticorpi neutralizzanti necessario per impedire che il SARS-CoV-2 causi una nuova infezione, o comunque per fare in modo che la COVID-19 si presenti con sintomi meno significativi in una persona che era già stata malata. Anche per questo motivo diversi ricercatori stanno orientando i loro studi verso altri meccanismi del sistema immunitario che comprendono altre cellule, rispetto ai soli anticorpi.

Dalle conoscenze attuali sembra comunque che i sistemi per prevenire una nuova infezione durino pochi mesi, dopo che si è avuto il coronavirus. Il sistema immunitario dovrebbe comunque sviluppare una protezione per ridurre l’entità dei sintomi della malattia, nel caso di una seconda infezione.

Test per accertare la positività al coronavirus a Broadmeadows, Melbourne, in Australia, l’1 luglio 2020 (Daniel Pockett/Getty Images)

Il virus è mutato in modo preoccupante?
I virus mutano di continuo nel loro processo di replicazione, a causa degli errori che si possono verificare nei processi di trascrizione del loro materiale genetico. Anche se tendiamo a immaginare una mutazione come qualcosa di negativo, in realtà nella maggior parte dei casi le mutazioni non portano a cambiamenti significativi o tali da rendere più pericoloso un virus: anzi, spesso è vero il contrario.

I ricercatori da mesi stanno tenendo sotto controllo il modo in cui varia ed evolve il coronavirus, man mano che si diffonde nel mondo, tra popolazioni diverse e luoghi con condizioni ambientali e igieniche differenti. Diversi studi hanno segnalato la presenza di una variante europea del coronavirus, derivata da quella originaria della Cina, che si è progressivamente diffusa in altre aree del mondo diventando la più ricorrente.

La variante è stata studiata in laboratorio, dove ha mostrato una maggiore capacità di causare un’infezione rispetto ad altre versioni del coronavirus. A oggi non è però chiaro se questa caratteristica, riscontrata in vitro su colture cellulari, si applichi anche agli esseri umani.

Operatori sanitari spostano bombole dell’ossigeno a Quezon, nei pressi di Manila, nelle Filippine (Ezra Acayan/Getty Images)

Quanto sarà utile un vaccino?
Secondo diversi ricercatori, un vaccino potrebbe essere l’unica risposta davvero efficace per fermare la pandemia. Attualmente ci sono almeno 200 vaccini in fase di sviluppo e una ventina di questi ha già raggiunto la fase dei test clinici, che comunque richiede svariati mesi per essere completata. Entro la fine dell’estate saranno inoltre avviati i primi test su larga scala per verificare sicurezza ed efficacia dei vaccini più promettenti, mettendo a confronto i tassi di infezione tra chi riceve il vaccino e chi riceve un placebo (una sostanza che non fa nulla).

Intanto i primi test svolti su cavie di laboratorio hanno indicato che potremmo disporre di un vaccino parzialmente funzionante, per esempio utile per ridurre il rischio di sviluppare sintomi gravi a livello polmonare, senza escludere però la possibilità di ammalarsi. Un vaccino sviluppato presso l’Università di Oxford e sperimentato su alcuni macachi, per esempio, ha fatto riscontrare la medesima concentrazione di coronavirus nelle cellule che rivestono le mucose del naso tra animali che avevano ricevuto una dose e altri che non ne avevano ricevuta nessuna. Questa condizione sembra suggerire che il vaccino possa essere efficace nel proteggere alcuni tessuti cellulari e non altri.

Secondo i più ottimisti un vaccino potrebbe essere pronto entro la prossima primavera, ma non è noto con quali livelli di efficacia. Molto dipenderà inoltre dalla capacità o meno del nostro sistema immunitario di sviluppare e mantenere difese nel tempo contro il coronavirus, circostanza che come abbiamo visto non è ancora completamente chiara.

Gravatai, Brasile

Padre e figlio si abbracciano attraverso una tenda di plastica dotata di apposite maniche, in una clinica per anziani in Brasile. La tenda, chiamata Tunnel degli abbracci, è stata pensata per permettere agli anziani di riabbracciare i propri familiari in sicurezza, dopo più di due mesi di separazione per le restrizioni per il coronavirus (Lucas Uebel/Getty Images)

Da dove viene il coronavirus?
Dopo mesi di studi e analisi, buona parte dei ricercatori concorda sul fatto che il SARS-CoV-2 abbia avuto origine nei pipistrelli “ferri di cavallo” (genere Rhinolophus), in una regione della Cina, forse lo Yunnan, o di un altro paese asiatico come Myanmar, Laos o Vietnam.

Sulla base delle caratteristiche genetiche dell’attuale coronavirus e di altri virus simili, i ricercatori sospettano che il SARS-CoV-2 possa essersi trasmesso a noi dopo un passaggio intermedio in un’altra specie. Nei mesi scorsi si era parlato molto dei pangolini, animali le cui scaglie sono impiegate per alcuni preparati in Cina e che si trovano spesso nei mercati di specie selvatiche, nonostante sia una specie protetta. Alcuni studi hanno rilevato la presenza di coronavirus che condividono un antenato con il SARS-CoV-2, ma questo non implica che ci sia stato un passaggio del virus dai pangolini agli esseri umani.