I gruppi sanguigni influenzano la gravità della COVID-19?

Ricercatori europei hanno notato sintomi più lievi nei pazienti con gruppo sanguigno 0 rispetto a quelli di gruppo A, ma servono ulteriori approfondimenti

(Simon Dawson - Pool/Getty Images)
(Simon Dawson - Pool/Getty Images)

Un gruppo di ricercatori europei ha pubblicato uno studio scientifico sul presunto rapporto tra l’appartenenza ai vari gruppi sanguigni e il rischio di sviluppare sintomi gravi di COVID-19. La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine (NEJM), si aggiunge ad altri studi diffusi nelle ultime settimane sui diversi livelli di gravità della malattia causata dal coronavirus riscontrati nei pazienti, a seconda del loro gruppo sanguigno. Queste ricerche sono molto discusse nella comunità scientifica e devono essere prese ancora con cautela, in attesa di ulteriori approfondimenti.

Lo studio ha coinvolto centri di ricerca in Germania, Italia, Norvegia e Spagna e si è concentrato soprattutto sui dati provenienti dagli ospedali italiani e spagnoli, tra i più interessati dall’epidemia nei mesi scorsi. Analizzando le informazioni cliniche di circa 1.600 pazienti, i ricercatori hanno notato una minore incidenza di casi gravi di COVID-19 negli individui con gruppo sanguigno 0.

Nella ricerca si spiega che invece nei pazienti con gruppo sanguigno A sono stati riscontrati sintomi più gravi, con un maggior rischio di danni al loro apparato respiratorio, messo sotto forte stress dall’infezione virale e dalla risposta immunitaria che talvolta può finire fuori controllo, aggravando la situazione.

La nuova analisi riprende i sospetti sul presunto rapporto tra gruppo sanguigno e gravità dei sintomi sollevati in una ricerca svolta in Cina, che si era però fermata all’incidenza statistica senza effettuare ulteriori approfondimenti. Lo studio europeo, invece, ha anche analizzato il materiale genetico (genoma) dei pazienti rilevando che il gruppo sanguigno può essere utilizzato per prevedere con un buon grado di approssimazione la gravità dei sintomi comportati dalla COVID-19. I ricercatori hanno anche identificato una porzione del DNA nel cromosoma 3 che sembra essere coinvolta nelle modalità in cui si sviluppa la malattia.

Luca Valenti del Centro Trasfusionale del Policlinico di Milano, il medico che ha coordinato la parte italiana dello studio, ha spiegato: “Per ora abbiamo due marcatori genetici che indicano un aumento del rischio di gravità della patologia: uno è il gruppo sanguigno, che conosciamo meglio, e l’altro è una regione del cromosoma 3 che comprende alcuni co-recettori del virus e fattori infiammatori, ma è ancora in corso di definizione”.

Gli autori dello studio ritengono che le conoscenze su questi due fattori possano rendere prevedibile, con un certo grado di approssimazione, quali individui possano essere più suscettibili alle complicazioni che la COVID-19 comporta in un numero limitato di infetti. Queste previsioni potrebbero rendersi utili per organizzare campagne mirate di prevenzione, per esempio decidendo di somministrare il vaccino ai più suscettibili, non appena (e se) questo sarà pronto. Le stesse informazioni potrebbero rivelarsi utili per i ricercatori che sono al lavoro per lo sviluppo di un vaccino contro il coronavirus.

La ricerca pubblicata su NEJM non spiega quindi quali siano i meccanismi per cui l’appartenenza a un determinato gruppo sanguigno possa portare a sintomi più gravi, rispetto a un altro. Scoprendone le cause con ulteriori ricerche, si potrebbero ottenere dati preziosi per nuovi protocolli di prevenzione e per i trattamenti contro la COVID-19.

Come era avvenuto con la ricerca cinese, anche lo studio europeo è stato accolto con interesse, ma con diversi esperti che hanno invitato a non arrivare a conclusioni troppo affrettate, soprattutto fino a quando non saranno effettuati ulteriori approfondimenti. È inoltre importante ricordare che la nuova ricerca non ha riscontrato elementi tali per sostenere che l’appartenenza a un gruppo sanguigno influenzi il rischio di contrarre il coronavirus: lo studio dice solamente che quando vengono infettati individui di gruppo A ci sono maggiori probabilità che sviluppino una forma più grave di COVID-19.