• Martedì 30 giugno 2020

A Milano il contagio è arrivato dopo

Dopo rispetto ad altre province della Lombardia, ed è per questo che i nuovi positivi hanno cominciato a ridursi più tardi che altrove

di Marco Minoggio

(ANSA/Mourad Balti Touati)
(ANSA/Mourad Balti Touati)

A Milano l’epidemia da coronavirus è arrivata dopo rispetto ad altre province della Lombardia, come Lodi, Bergamo, Cremona e Brescia. Alla fine di febbraio, quando in diverse città lombarde si cominciavano a convertire interi reparti ospedalieri per accogliere pazienti affetti da COVID-19, si parlava di istituire zone rosse e si vedevano i numeri dei nuovi contagi aumentare vertiginosamente, a Milano la situazione sembrava ancora sotto controllo. Giuseppe Sala, il sindaco della città, sosteneva la campagna #milanononsiferma, condividendo sui social alcuni post fiduciosi di una rapida conclusione dell’emergenza.

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In termini assoluti, oggi Milano è la provincia italiana più colpita dall’epidemia, anche se non ha mai vissuto una situazione sanitaria grave come quella delle province di Bergamo, Lodi o Cremona. A quattro mesi di distanza, superata la fase emergenziale, i casi totali di contagio nella provincia di Milano sono più di 24 mila, e più di 10 mila sono stati rilevati all’interno del comune: qui come altrove, inoltre, i numeri ufficiali rispecchiano solo una piccola parte del contagio, cioè quella rilevata dai tamponi.

La storia del contagio a Milano
Il 29 febbraio, quando in provincia di Lodi erano stati rilevati 237 casi e in quella di Cremona 136, in provincia di Milano i casi di contagio da coronavirus erano solo 30: pochissimi, se si considera che la popolazione della provincia di Milano è molto superiore rispetto a quella di Cremona e Lodi. Uno studio svolto dalla task force della regione Lombardia ha mostrato però come a Milano circolassero persone contagiate molto prima che la curva dei contagi cominciasse a salire bruscamente. Secondo il Corriere della Sera, che ha riportato alcuni dati dello studio, a fine gennaio a Milano 46 persone avevano già contratto il virus.

In provincia di Lodi, a inizio marzo, venivano registrati ogni giorno più del doppio dei casi rilevati a Milano. Negli stessi giorni in provincia di Bergamo, una delle aree in Italia dove il coronavirus ha avuto ripercussioni più drammatiche, i contagi iniziavano a crescere sempre più rapidamente: più che a Lodi e Milano, più rapidamente di qualsiasi altra provincia italiana.

Ma tra la fine di marzo e l’inizio di aprile la situazione è cambiata. L’1 aprile in provincia di Milano si contavano 9.522 casi, contro i 9.039 rilevati in provincia di Bergamo. Da quel momento la forbice tra le due città ha iniziato ad allargarsi sempre di più e Milano è diventata la città italiana con più casi rilevati di coronavirus.

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Anche la situazione negli ospedali ha seguito la curva dell’epidemia. Nelle città lombarde più colpite dall’emergenza sanitaria, a Lodi, Cremona, Crema, Brescia e Bergamo, gli ospedali sono stati investiti dalla prima ondata di contagi da coronavirus già tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo. Da un giorno all’altro interi reparti — in alcuni casi interi piani degli ospedali — sono stati riconvertiti in modo da accogliere i pazienti affetti da COVID-19. A metà marzo, mentre nell’ospedale di Bergamo i pazienti ricoverati in terapia intensiva erano quasi 80, in molti ospedali di Milano la situazione era ancora sotto controllo: si allestivano nuovi posti letto di terapia intensiva e si convertivano spazi da destinare ai pazienti affetti da coronavirus trasferiti da altre strutture ospedaliere più in difficoltà.

Poi, rapidamente, le cose si sono messe male anche negli ospedali milanesi. Il 15 marzo il Policlinico di Milano ospitava 62 pazienti con COVID-19 in terapia intensiva. Quattro giorni dopo, il 19 marzo, i pazienti erano saliti a 100, e il 2 aprile a 139. Oggi, a quasi tre mesi di distanza dal momento più critico, al Policlinico la terapia intensiva si è svuotata: il 24 giugno solo 6 persone erano ricoverate nei reparti di terapia intensiva e subintensiva per il coronavirus.

Anche l’ospedale Niguarda alla fine di marzo ha raggiunto il picco di ricoveri per coronavirus. Nei momenti più difficili, la struttura si è trovata ad accogliere fino a 350 pazienti affetti dal virus, di cui 74 ricoverati in terapia intensiva. Dall’inizio dell’epidemia, l’ospedale Niguarda ha trattato complessivamente 1.100 pazienti affetti da COVID-19, trovandosi a dover ampliare i posti letto in terapia intensiva, passati gradualmente dai 33 della situazione pre-emergenza ai 120 raggiunti per far fronte ai picchi dei giorni più critici.

La preparazione della sala operatoria del pronto soccorso dell’ospedale Niguarda, Milano, 28 maggio 2020 (ANSA/Filippo Venezia)

Col passare delle settimane, a Milano è cambiato molto anche l’approccio dell’amministrazione comunale nei confronti dell’emergenza.

Il 29 febbraio il sindaco Sala aveva appoggiato apertamente la campagna #milanononsiferma pubblicando su Instagram una foto in cui indossava una maglietta sulla quale veniva riportato l’hashtag. A fine marzo si era però scusato in diretta alla trasmissione Che tempo che fa: aveva anche cercato di ridimensionare la vicenda dicendo che «nessuno aveva capito la virulenza del virus, e d’altro canto in quel momento quello era lo spirito».

https://twitter.com/chetempochefa/status/1241861330224795650?

Da quel momento, l’approccio “rilassato” di Sala è stato sostituito da un inasprimento dei toni. Lo scorso 8 maggio, per esempio, Sala se l’è presa con le decine di persone che il giorno prima avevano passeggiato sui Navigli, una zona di Milano solitamente molto frequentata, le quali secondo il sindaco avevano creato assembramenti pericolosi. Sala ha detto che non avrebbe permesso «che quattro scalmanati senza mascherina mettano in discussione» tutto quello che il comune aveva fatto in quei mesi per rallentare la diffusione del virus e aveva dato «un ultimatum»: «O le cose cambiano oggi, o io domani come al solito sarò qui a Palazzo Marino e prenderò provvedimenti, chiudo i Navigli e chiudo l’asporto».

Nelle ultime settimane la situazione a Milano, sia in città che in provincia, è molto migliorata. Da inizio maggio, con l’inizio della fase 2, hanno cominciato gradualmente a riaprire i ristoranti, i musei e parte delle attività commerciali che erano ancora chiuse. A metà maggio la curva dei contagi a Milano ha iniziato ad appiattirsi molto. Oggi i casi registrati ogni giorno sono pochi — il 29 giugno venivano contati nella provincia solo 36 nuovi casi rispetto al giorno precedente — e si è molto lontani dalle settimane di marzo e aprile, quando ogni giorno si contavano centinaia di nuovi contagiati.

Ad oggi in provincia di Milano si registrano più di 24 mila casi totali, contro i quasi 16 mila della provincia di Torino, la seconda provincia italiana per contagi rilevati. Sono numeri rilevanti, che però riflettono una situazione meno grave rispetto ad altre province lombarde. Se si guarda alla percentuale della popolazione risultata positiva a un tampone, infatti, si vede che il contagio a Milano non solo è arrivato dopo, ma è arrivato anche con meno intensità: dall’inizio dell’epidemia, a Cremona l’1,84 per cento della popolazione è stata ufficialmente contagiata dal coronavirus, a Lodi l’1,55 per cento, mentre a Milano questa percentuale è stata dello 0,75 per cento.

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Questo e gli altri articoli della sezione Il coronavirus a Milano sono un progetto del corso di giornalismo 2020 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso. Il prossimo corso di giornalismo del Post inizierà a settembre, per info qui.