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  • Lunedì 20 aprile 2020

Cosa ha sbagliato il Regno Unito

Un lungo articolo del Times racconta i problemi causati da Brexit, dall'austerità e dall'iniziale disinteresse del primo ministro Boris Johnson per l'epidemia da coronavirus

(Andrew Parsons-WPA Pool/Getty Images)
(Andrew Parsons-WPA Pool/Getty Images)

Un dettagliato articolo del Times ha raccontato tutti i ritardi e gli errori commessi dal governo del Regno Unito nel prepararsi ad affrontare la pandemia da coronavirus. Il giornale ha parlato con diversi funzionari e consiglieri di governo, che hanno spiegato come il primo ministro Boris Johnson abbia sottovalutato il pericolo, addirittura trascorrendo diverse giorni in vacanza durante le settimane più importanti.

Johnson non partecipò alle prime cinque riunioni di coordinamento sulla pandemia, e non si informò adeguatamente su cosa stesse accadendo anche a causa di una serie di impegni personali. La necessità di prepararsi alla Brexit e i tagli al sistema sanitario, spiega il Times, hanno reso questa mancanza di preparazione ancora più grave. Con 121mila casi registrati e 16 mila morti, oggi il Regno Unito risulta il quarto paese più colpito al mondo dall’epidemia.

Il Times inizia il suo racconto con la prima riunione del cosiddetto Cobra, il gabinetto ristretto del governo britannico incaricato di occuparsi delle emergenze, che si tenne il 24 gennaio. Normalmente il Cobra, che riunisce i ministri più importanti, i capi dell’intelligence e dell’esercito, viene presieduto dal primo ministro, ma quel giorno Johnson era assente. Al suo posto, durante la prima discussione di alto livello sul possibile impatto del coronavirus nel paese, sedeva il ministro della Salute Matt Hancock, che dopo circa un’ora di riunione annunciò ai giornalisti che l’epidemia scoppiata in quei giorni in Cina rappresentava un rischio “ridotto” per la salute del paese.

Curiosamente, proprio quel giorno Johnson partecipò nei suoi uffici a una celebrazione per il capodanno cinese, insieme all’ambasciatore cinese e ai rappresentanti della comunità cinese nel Regno Unito. Quel giorno Johnson aveva anche altre preoccupazioni. Nel pomeriggio venne firmato il “withdrawal treaty”, il documento che sanciva l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, che sarebbe avvenuta ufficialmente una settimana dopo. Interrogato sui potenziali rischi costituiti dal coronavirus per il paese, il portavoce di Johnson disse che il Regno Unito era «adeguatamente preparato per fronteggiare l’insorgere di qualsiasi nuova malattia».

Secondo diversi funzionari interpellati dal Times, la riunione del 24 gennaio non era la prima volta in cui la gestione delle conseguenze di Brexit (o le sue celebrazioni) ostacolava la preparazione delle difese contro il nuovo virus. Negli ultimi anni la necessità di prepararsi per un eventuale “no deal“, l’uscita senza accordo dall’Unione Europea con le sue gravi e imprevedibili conseguenze, aveva ulteriormente ridotto l’interesse del governo per le difese anti-pandemia, considerata un evento remoto e improbabile rispetto a un guaio potenzialmente molto più vicino e probabile.

Ma non era sempre stato così. Nel corso del primo decennio degli anni Duemila, i governi britannici (insieme a quelli di gran parte dei paesi industrializzati) avevano accumulato grandi scorte di materiali sanitari, in particolare di disinfettanti e dispositivi di protezione personale, in previsione di una futura pandemia. Ma l’inizio della crisi economica nel 2008 e i conseguenti tagli al bilancio pubblico hanno sconvolto i piani accuratamente preparati. «Eravamo l’invidia del mondo», ha detto al Times una delle fonti interpellate: «Ma il piano anti-pandemia ha finito con il diventare una vittima dell’austerità».

Col passare degli anni le scorte di materiale si sono esaurite, i piani sono invecchiati e la capacità di risposta del sistema sanitario nazionale è divenuta sempre più debole. Nel 2016 un’esercitazione anti-pandemia mise in luce molte delle difficoltà e dei problemi nei quali si dibatteva il sistema, come la mancanza di dispositivi di protezione e di ventilatori per la terapia intensiva, ma nessuna misura venne presa per risolverli. «L’austerità», ha detto al Times un’altra fonte, «ha succhiato via tutto il sangue dai piani di preparazione anti-pandemia».

Tra la fine di gennaio, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità proclamò lo stato di emergenza internazionale per il coronavirus, e i primi casi di trasmissione del virus nel Regno Unito ai primi di marzo, il governo britannico, scrive il Times, perse l’ultima occasione di prepararsi al disastro incombente. Johnson non partecipò a un totale di cinque meeting del comitato Cobra sul coronavirus. A metà febbraio, dopo aver concluso un rimpasto del governo sostituendo cinque ministri, Johnson andò in vacanza per due settimane insieme alla sua compagna, Carrie Symonds.

In questo periodo, racconta il Times, Johnson fu molto impegnato dalle sue vicende personali: stava terminando il divorzio dalla sua prima moglie, mentre si preparava ad annunciare che la sua nuova compagna era incinta. Secondo un consigliere del governo, in quei giorni lo staff del primo ministro venne avvertito di essere il più conciso possibile nei rapporti, così da essere sicuri che Johnson li avrebbe letti.

Nel frattempo, nelle riunioni a cui Johnson non partecipava, medici ed esperti continuavano a mettere in guardia sul pericolo costituito dal coronavirus e in particolare sulla necessità di accumulare scorte di dispositivi di protezione, di tamponi e di ventilatori. I dati in arrivo dalla Cina mostravano sempre più chiaramente la capacità del virus di diffondersi rapidamente e la necessità, per contenerlo, di adottare severe misure di quarantena.

– Leggi anche: Nel Regno Unito non si fanno abbastanza tamponi

In queste settimane avrebbero potuto essere intraprese altre misure, scrive il Times. Per esempio, l’estesa rete di oltre 110 laboratori privati in grado di effettuare analisi dei tamponi avrebbe potuto essere contattata e messa in allerta. Ma nessuna azione è stata intrapresa fino a poche settimane fa, sostiene il Times.

All’interno del governo, intanto, si faceva strada l’idea che il modo migliore di affrontare l’epidemia fosse utilizzare la strategia della cosiddetta “immunità di gregge”: in sostanza cercare di moderare il picco dell’epidemia, ma senza contenere del tutto l’infezione, lasciando quindi che gradualmente l’intera popolazione venisse contagiata. L’idea dietro questo piano, per certi versi opposto al tentativo di contenimento tramite misure di quarantena al momento utilizzato in gran parte del mondo, derivava dal fatto che i precedenti piani pandemici si basavano tutti sull’ipotesi che il nuovo virus sarebbe stato di tipo influenzale, una famiglia di virus che si diffonde molto rapidamente e che è impossibile da contenere.

Per cambiare orientamento e dare ascolto agli avvertimenti degli esperti, sempre più preoccupati, in quei giorni sarebbe servito un primo ministro molto deciso su queste questioni, ma così non è stato. «Non è possibile entrare in modalità di guerra se il primo ministro non è presente», ha spiegato al Times una fonte del governo: «Quello che abbiamo imparato su Boris in quei giorni è che non presiedeva alcuna riunione. Gli piaceva prendersi qualche pausa per andare in campagna. Non lavorava nei fine settimana. Avere a che fare con lui era come lavorare per il capo di una piccola amministrazione locale di vent’anni fa. La sensazione è che Boris non facesse alcun piano per situazioni di emergenza: esattamente come la gente temeva che si comportasse».

Tra la fine di febbraio e i primi di marzo iniziarono ad arrivare notizie sulla larga diffusione del contagio in Italia, il primo paese europeo a essere investito massicciamente dal virus. Erano dati particolarmente inquietanti: mostravano che circa il 10 per cento degli infetti aveva bisogno di ricorrere alla terapia intensiva, il doppio di quanto stimato in precedenza dagli esperti britannici e abbastanza da rischiare di mandare al collasso l’intero sistema sanitario del paese. In quei giorni, il capo del servizio sanitario nazionale disse che la mancanza di materiale sanitario rischiava di trasformare la gestione della pandemia in un «incubo».

Il 28 febbraio, appena tornato dalle vacanze, Johnson disse che il coronavirus era divenuto «la priorità numero uno del governo». Tre giorni dopo, il 2 marzo, partecipò al suo primo meeting Cobra sull’emergenza, il sesto dalla fine di gennaio (ma prima si concesse un altro fine settimana di vacanza in campagna, durante il quale venne data ufficialmente la notizia che Symmons e lui aspettavano un bambino).

Dopo quella riunione trascorsero altri 9 giorni prima che il governo si decidesse a intraprendere le prime azioni di contenimento. L’11 marzo, quando nel paese c’erano oramai circa 600 casi confermati, Johnson e i suoi consiglieri scientifici tennero una conferenza stampa in cui parlarono per la prima volta della gravità dell’epidemia e del fatto che molti avrebbero perso «i propri cari» a causa della malattia (ma senza quell’accezione “Rassegnatevi” poi tracimata in molte traduzioni italiane di quelle dichiarazioni).

Il racconto del Times si ferma qui, con l’annuncio delle prime misure intraprese dal governo britannico. Ma non sono pochi quelli che dentro e fuori dal Regno Unito hanno criticato anche le azioni tardivamente intraprese dal governo guidato da Boris Johnson. L’11 marzo, quando l’epidemia era già diffusa nel paese, il governo adottò in sostanza un unico provvedimento per contare il contagio: il divieto di gite scolastiche all’estero. Per il resto non venne deciso quasi nessun cambiamento. Scuole e locali pubblici rimasero aperti, mentre gli eventi sportivi si disputarono regolarmente.

Johnson non prese mai esplicitamente posizione in tal senso ma i consiglieri scientifici del governo spiegarono ai giornali che cercare di contenere l’epidemia era inutile e invece bisognava lasciare che, gradualmente, l’intera popolazione venisse contagiata, così da produrre la famosa “immunità di gregge”. La strategia seguita dall’Italia, che in quei giorni stava iniziando ad adottare misure di isolamento e quarantena sempre più decise, venne descritta nei briefing del governo come inefficace e “populista”. Soltanto il 23 marzo, a quasi due mesi dal primo caso di trasmissione del virus all’interno del paese, il governo ha deciso di limitare la possibilità delle persone di spostarsi e di chiudere le attività economiche non essenziali.

L’opinione pubblica britannica e gran parte dei quotidiani fino a oggi hanno sempre sostenuto le scelte di Johnson e del suo governo. I tecnici e i consiglieri interpellati dal Times la pensano diversamente. «Avremmo potuto essere la Germania», ha detto uno di loro, riferendosi a uno dei paesi che hanno risposto con maggior efficacia e rapidità all’epidemia: «Ma invece siamo stati condannati dalla nostra incompetenza, dalla nostra arroganza e della nostra austerità».