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  • Giovedì 5 settembre 2019

Ma quindi cosa vuole il Parlamento britannico su Brexit?

Ha bocciato l'accordo, il "no deal", le elezioni anticipate e il secondo referendum, non riuscendo a mettersi d'accordo su niente

La Camera dei Comuni britannica (Jessica Taylor/House of Commons via AP)
La Camera dei Comuni britannica (Jessica Taylor/House of Commons via AP)

Dall’inizio del 2019 il Parlamento britannico ha cominciato a votare con grande frequenza su Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Il Parlamento ha bocciato tre volte l’accordo trovato dal governo di Theresa May e l’Unione Europea, ha votato contro proposte alternative di Brexit, non ha accettato né di tenere un secondo referendum né di appoggiare il ritiro dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona (quello che ha innescato Brexit), ha bocciato il “no deal”, l’uscita senza accordo, e si è espresso contro eventuali elezioni anticipate. Nel frattempo è cambiato il governo – May è stata sostituita da Boris Johnson – e la scadenza di Brexit è stata rimandata due volte. In tutto questo c’è stata sempre una costante: l’incapacità del Parlamento britannico di mettersi d’accordo su qualsiasi cosa.

Ci sono diverse ragioni che spiegano lo stallo che si è creato nel Parlamento britannico negli ultimi mesi, a partire dalla prima bocciatura dell’accordo tra May e l’Unione Europea, a gennaio. Per esempio si è parlato più volte del problema di non avere una Costituzione scritta, cosa che lascia ampi margini agli attori istituzionali britannici per interpretare e forzare le regole costituzionali al fine di raggiungere obiettivi politici (come nel caso della sospensione del Parlamento decisa da Johnson).

La ragione più importante però è la estrema divisione su Brexit, anche all’interno dei due principali partiti britannici.

Nel Partito Conservatore, per esempio, sono emerse tre grandi posizioni, molto distanti tra loro: ci sono i sostenitori di una “hard Brexit”, cioè l’abbandono del Regno Unito di tutte le istituzioni e di tutti i trattati dell’Unione Europea (e all’interno di questo gruppo ci sono quelli che appoggiano il “no deal”, i più euroscettici); ci sono i sostenitori di una “soft Brexit”, cioè l’opzione che prevede l’uscita dalle istituzioni europee ma la permanenza in qualche misura all’interno del “mercato unico” (a un certo punto l’Unione Europea offrì la “soluzione norvegese” al governo britannico, che però rifiutò sostenendo che se il paese fosse rimasto nel mercato unico sarebbe stata una presa in giro per il referendum); e poi ci sono i sostenitori dell’accordo tra May e Unione Europea, gruppo che ha riunito nei mesi passati i parlamentari a favore del “remain”, quindi contrari a Brexit, e quelli a favore del “leave” che ritengono l’accordo di May il migliore e unico possibile.

Nel Partito Laburista le cose non sono andate molto meglio. Negli ultimi mesi si sono scontrati i favorevoli a rimanere nell’Unione Europea, appartenenti soprattutto all’ala più moderata del partito e promotrice di un secondo referendum; e gli euroscettici favorevoli a Brexit, che vorrebbero continuare a essere parte dell’unione doganale e avere stretti legami con il mercato unico senza farne parte, e che sono i più fedeli al leader del partito, Jeremy Corbyn.

Le divisioni interne ai partiti, unite al fatto che la scelta su Brexit viene considerata dal Regno Unito la più importante e decisiva per il paese degli ultimi decenni, hanno provocato l’attuale situazione di stallo in Parlamento.

Finora i parlamentari dei diversi partiti si sono mossi più per difendere i loro seggi e la volontà degli elettori nei rispettivi collegi che per provare a trovare un accordo su Brexit. Le uniche due maggioranze rilevanti emerse nel Parlamento da gennaio a oggi hanno riguardato entrambe l’opposizione a qualcosa: opposizione al “backstop“, il meccanismo inserito nell’accordo tra May e Unione Europea per evitare la creazione di un confine rigido tra Irlanda e Irlanda del Nord, e opposizione al “no deal”, l’uscita senza accordo. La via che ha raccolto finora più sostegno è stata quella di una “soft Brexit” negoziata, che però può voler dire moltissime cose diverse. Questo significa che il Parlamento britannico ha detto no all’accordo di May, e ha detto no all’opzione di “nessun accordo”, ma in mezzo non ha saputo esprimersi a maggioranza su alcuna alternativa percorribile.

Un’altra cosa su cui il Parlamento sembra essere d’accordo, anche se mercoledì la proposta non ha ottenuto la maggioranza richiesta dei due terzi dei parlamentari, è quella di andare a elezioni anticipate.

Il governo britannico ha proposto il 15 ottobre, ma le opposizioni hanno rifiutato temendo che in campagna elettorale Johnson possa decidere di spostare il voto oltre il 31 ottobre, data di Brexit, lasciando succedere il “no deal”. Nella votazione di mercoledì sera sulle elezioni anticipate i Laburisti si sono astenuti e Jeremy Corbyn ha detto che il suo partito appoggerà la proposta del governo ma solo dopo che la legge che impedisce il “no deal” – approvata ieri dalla Camera dei Comuni – avrà terminato il suo iter e sarà firmata dalla Regina, presumibilmente entro la fine della settimana. Anche su questo punto, comunque, ci sono disaccordi: diversi parlamentari laburisti vorrebbero infatti rimandare le elezioni a dopo il 31 ottobre, per sapere cosa ne sarà di Brexit.

C’è poi un’ultima cosa da considerare. Il Parlamento britannico non solo non è riuscito negli ultimi otto mesi a mettersi d’accordo su una soluzione su Brexit, ma sembra avere progressivamente dimenticato che la soluzione su Brexit va trovata in due: Regno Unito da una parte e Unione Europea dall’altra. Opporsi ripetutamente al meccanismo del “backstop” senza proporre niente di alternativo lascia il tempo che trova, visto che impedire la creazione di un confine rigido tra Irlanda e Irlanda del Nord – obiettivo primario del “backstop” – è un punto non negoziabile per l’Unione Europea. Votare una legge per impedire il “no deal” – che nella pratica significa obbligare il governo Johnson a chiedere all’Unione Europea di rimandare nuovamente la data di Brexit – non assicura in nessun modo l’uscita senza accordo, perché l’Unione Europea potrebbe rifiutare, soprattutto per la mancanza di proposte alternative.

Questo Parlamento non sembra quindi in grado di venire a capo di Brexit. Il mese di settembre potrebbe già essere fondamentale per capire cosa succederà: la prossima settimana, se venisse nel frattempo approvata la legge per impedire il “no deal”, il Parlamento potrebbe votare a favore di elezioni anticipate, che potrebbero già tenersi a ottobre. Per avere qualche certezza su Brexit bisognerà probabilmente aspettare il 17 ottobre, quando si riunirà il Consiglio europeo, organo che riunisce tutti i capi di stato e di governo dell’Unione Europea, che potrebbe decidere se concedere o no la proroga su Brexit voluta dal Regno Unito.