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  • Lunedì 29 luglio 2019

Le confessioni degli autori dell’11 settembre furono estorte con la tortura?

Lo sostengono gli avvocati dei cinque imputati, secondo cui quelle confessioni non hanno valore

Khalid Sheikh Mohammed, uno dei cinque imputati per l'attentato dell'11 settembre 2001, fotografato al momento del suo arresto, nel marzo 2003 (AP Photo)
Khalid Sheikh Mohammed, uno dei cinque imputati per l'attentato dell'11 settembre 2001, fotografato al momento del suo arresto, nel marzo 2003 (AP Photo)

Gli avvocati dei cinque uomini accusati di aver pianificato e organizzato gli attentati dell’11 settembre del 2001 sostengono che le confessioni dei loro clienti – le prove principali che l’accusa ha contro di loro – furono estorte con l’uso di tortura e di altri metodi violenti e degradanti. Gli avvocati hanno formulato per la prima volta questo argomento nel 2017, ma un numero crescente di documenti e testimonianze sta dando sempre maggiore sostanza alle loro accuse, ha scritto il New York Times in un recente articolo. Il processo contro i cinque uomini deve ancora iniziare, ma il prossimo settembre ricominceranno le udienze preliminari.

Non ci sono dubbi sul fatto che i cinque uomini furono torturati per anni dalla CIA – la tortura è stata a lungo prevista ufficialmente dal governo statunitense, prima che intervenisse l’amministrazione Obama – ma secondo la versione ufficiale quando successivamente i sospettati furono interrogati dall’FBI i colloqui si svolsero entro i normali limiti di legge. Le confessioni che furono raccolte, sostiene l’accusa, possono quindi essere utilizzate in tribunale. Gli avvocati della difesa sostengono invece che non è possibile separare in maniera netta il momento delle torture da quello degli interrogatori dell’FBI: le confessioni furono estorte con abusi e violenza durati per anni, e quindi non dovrebbero essere considerate prove utilizzabili in tribunale.

La nuova difesa utilizzata dagli avvocati degli imputati rischia di danneggiare un processo già in difficoltà. Iniziato nel febbraio del 2008, quando vennero annunciati i capi di accusa nei confronti di cinque sospetti leader di al Qaida, il principale processo nei confronti dei responsabili dell’attacco dell’11 settembre deve ancora partire formalmente e da oltre 11 anni è bloccato nella fase di udienze preliminari, il cosiddetto “pretrial” (il processo vero e proprio dovrebbe cominciare nella primavera del 2020).

La storia del processo è estremamente complicata, con udienze, rinvii, sospensioni e trasferimenti di competenze (da una corte militare a una civile per poi tornare di nuovo al tribunale militare). In parte la causa di queste difficoltà risiede nell’oggetto del processo, il più grave attacco terroristico mai avvenuto sul suolo statunitense, ma sono diventate importanti anche le modalità quantomeno peculiari con le quali sono stati arrestati, detenuti e interrogati i cinque sospettati.

Gli arresti sono avvenuti tutti in Pakistan tra il 2002 e 2003, in uno status legale poco chiaro. Il problema di come classificare i cinque uomini, se prigionieri di guerra o criminali comuni, però, non si è posto subito. Dopo la cattura, infatti, dei cinque imputati non si è infatti più saputo niente per anni. Secondo una serie di documenti desecretati negli anni successivi, furono immediatamente trasportati in cosiddetti “black site”, prigioni segrete sparse tra i paesi alleati degli Stati Uniti (in genere quelli con una bassa considerazione per i diritti umani).

In queste prigioni segrete i cinque arrestati sono stati torturati e interrogati per tre anni e mezzo. Il più importante tra loro – Khalid Shaikh Mohammed, la presunta “mente” del gruppo – fu sottoposto a simulazioni di annegamento (waterboarding), privazione del sonno e altre forme di tortura, tra cui anche abusi sessuali (un tipo di violenza che anche altri tra i cinque imputati hanno denunciato). Nel loro periodo di detenzione e tortura tutti e cinque gli imputati avrebbero confessato la loro appartenenza ad al Qaida e il loro ruolo nell’attacco.

Queste confessioni, però, estorte in condizioni di totale illegalità, non avrebbero avuto alcun valore per la giustizia americana. Quando a partire dal 2006 il presidente americano George W. Bush ordinò il trasferimento dei detenuti nei “black site” nella prigione militare di Guantanamo, a Cuba, l’FBI iniziò a effettuare una serie di interrogatori formali e rispettosi della legge, almeno in teoria. Le squadre che si occuparono degli interrogatori erano chiamate “clean team”, “squadre pulite”. Secondo la versione ufficiale, questa seconda serie di interrogatori fu svolta a norma di legge e produsse una serie di confessioni in teoria utilizzabili in tribunale. Oggi queste confessioni rappresentano l’elemento principale nelle mani dell’accusa.

Inizialmente, la linea di difesa degli avvocati contro queste confessioni era che oltre tre anni di abusi e torture da parte della CIA avevano impiantato nella testa dei cinque imputati una sorta di risposta automatica e pavloviana. Interrogati dall’FBI, i cinque non avrebbero fatto altro che rispondere con quello che i loro torturatori gli avevano suggerito. Ma a partire dal 2017 una serie sempre più estesa di indizi e prove ha mostrato che in realtà non esisterebbe una vera e propria linea di demarcazione tra il momento delle torture compiute dalla CIA e quello delle confessioni “legali” fatte all’FBI. Nuovi documenti e testimonianze hanno dimostrato che gli agenti delle due agenzie hanno collaborato in tutte le fasi ed erano a conoscenza gli uni del lavoro degli altri. Per esempio, si è scoperto che l’FBI inviava liste di domande per gli interrogatori agli agenti della CIA che operavano nelle prigioni segrete, e che alcuni agenti dell’FBI si recarono sul posto per condurre personalmente gli interrogatori (senza rivelare ai prigionieri di essere agenti dell’FBI).

Si è scoperto anche che dopo il trasferimento a Guantanamo, i “clean team” incaricati di condurre gli interrogatori legali nella base utilizzavano computer della CIA per scrivere i loro rapporti e avevano ricevuto istruzioni di non riportare alcun cenno a maltrattamenti o abusi nei memorandum in cui riferivano le confessioni dei prigionieri.

Secondo gli avvocati dei cinque imputati è insomma impossibile tracciare una linea netta tra le torture subite e gli interrogatori a cui sono stati sottoposti i loro clienti: tutto quello che gli imputati hanno detto può essere stato condizionato dalle torture e dagli abusi, e le confessioni estorte con la forza. James G. Connell III, l’avvocato che difende Ammar al Baluchi, uno dei cinque imputati, ha spiegato di non credere che CIA e FBI si siano comportate in maniera differente in questa vicenda, ma che invece «il governo degli Stati Uniti, nel suo insieme, abbia messo in pratica un disegno, un piano, un progetto – comunque lo vogliate chiamare – per estorcere una confessione con l’uso della tortura e di altri metodi disumani e degradanti al signor al Baluchi».