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  • Sabato 29 giugno 2019

Che ne è stato dei gilet gialli?

Le manifestazioni stanno continuando ma attirano sempre meno persone, e si parla già di cosa hanno lasciato alla politica francese e al presidente Macron

(Kiran Ridley/Getty Images)
(Kiran Ridley/Getty Images)

Da diversi mesi i quotidiani e i telegiornali europei hanno smesso di occuparsi delle proteste del sabato dei cosiddetti “gilet gialli“, l’eterogeneo movimento di protesta che lo scorso autunno in Francia aveva attirato in piazza decine di migliaia di persone. La sensazione è che il movimento abbia perso la spinta iniziale: lo testimoniano le dichiarazioni di diversi leader e partecipanti ai cortei, e soprattutto i numeri della protesta.

Sabato 22 giugno, a otto mesi di distanza dalle prime proteste, sono andate in piazza a protestare circa 11.800 persone in tutta la Francia. Sono numeri esigui, se paragonati ai circa 250mila che parteciparono ai cortei nelle prime settimane della protesta, scatenata da un aumento delle imposte sul carburante nell’ambito del programma del governo per ridurre l’inquinamento. A essere sbiadito sembra proprio il brand dei gilet gialli: alle recenti elezioni europee le tre liste che si ispiravano dichiaratamente al movimento hanno ottenuto rispettivamente lo 0,54, lo 0,03 e lo 0,01 per cento (è andato malissimo anche La France Insoumise, il partito di sinistra radicale che aveva cercato di intestarsi le proteste).

Non è facile dare una spiegazione della crisi che sta attraversando il movimento, come non è facile descrivere adeguatamente il fenomeno dei gilet gialli. Sin dall’inizio sono stati descritti come un movimento popolare forte soprattutto nelle aree rurali, quelle in cui per capirci avere un’automobile è essenziale per mantenere un lavoro e relazioni stabili, fatto di persone «che hanno un lavoro ma faticano ad arrivare alla fine del mese, di mezza età», ha scritto su Open Democracy Philippe Marlière, che insegna politiche europee allo University College di Londra: «le donne sono ben rappresentate, ma il movimento è composto a stragrande maggioranza da bianchi», che protestavano contro la presunta indifferenza del governo centrale.

È indubbio che in un secondo momento la forte carica anti-sistema abbia attratto persone molto diverse, finendo probabilmente per frammentare le istanze del movimento. Marlière sostiene per esempio che il nucleo originario dei gilet gialli, da cui per esempio arrivavano i primi portavoce del movimento, fosse in sostanza «progressista dal punto di vista economico e culturalmente piuttosto tollerante». Una fascia più ampia di manifestanti, invece, «è motivata soprattutto dalla difesa di specifici interessi materiali, come la tassa sul carburante, la legge sui limiti di velocità e il controllo dell’immigrazione», e tende naturalmente più a destra, scrive Marlière.

L’eterogeneità del movimento viene citata spesso fra le cause della sua progressiva disgregazione. Si nota anche dalle ragioni con cui gli stessi leader delle varie fazioni stanno spiegando questa crisi. Ingrid Levavasseur, che proveniva dall’ala più progressista e che si era candidata alle elezioni europee, ha lasciato intendere al Wall Street Journal di aver lasciato il movimento per via della complicità che aveva assunto con le sue frange estremiste (durante il picco delle proteste, le manifestazioni più violente hanno causato danni per milioni di euro).

Per Jean-François Barnaba, uno dei leader più vicini alla destra radicale, la colpa è invece dei media francesi che hanno «sovramediatizzato» le proteste «in rapporto ai francesi che mobilitavano», ha raccontato al settimanale francese Le Point. Un altro dei leader più riconoscibili del movimento, Éric Drouet, arrestato più volte nei primi mesi delle proteste, ha detto a BFMTV che il movimento è «alla deriva» e che non si riconosce più nello spirito dei cortei più recenti, che in sostanza vengono concordati a tavolino con le autorità locali.

Altri guardano soprattutto alla scarsa organizzazione del movimento, che non è mai riuscito a strutturarsi con organi centrali e locali, e all’assenza di un unico leader riconosciuto, che potesse parlare a nome di tutti; ma è ancora presto per capire se queste lacune siano la causa o la conseguenza della eterogeneità del movimento.

Qualcun altro si spiega il calo delle ultime settimane con le contromisure adottate dal presidente francese Emmanuel Macron, che all’inizio delle proteste veniva considerato come il simbolo delle élite francesi insensibili alle istanze delle classi medio-basse. Già a dicembre Macron pronunciò un discorso in cui ammise di avere compiuto degli errori, aggiungendo che a partire dal 2019 avrebbe aumentato di 100 euro al mese il salario minimo e tagliato le tasse ai pensionati. Poco dopo avviò un tour nazionale di dibattiti con i cittadini francesi, considerato un successo da giornalisti e osservatori.

Ci vorrà parecchio tempo per realizzare le riforme istituzionali per una maggiore democratizzazione del potere di cui si è parlato durante i vari dibattiti, se mai Macron deciderà di andare avanti, ma gli effetti delle prime misure economiche entrate in vigore nel 2019 si stanno vedendo: a maggio il tasso di disoccupazione è sceso all’8,7 per cento, il dato più basso degli ultimi dieci anni, e la fiducia dei consumatori è tornata a crescere significativamente, insieme all’indice di attrattività per le aziende straniere. Già a febbraio la popolarità di Macron era tornata ai livelli precedenti le proteste dei gilet gialli, e alle ultime elezioni europee il suo partito En Marche ha tenuto botta arrivando a meno di un punto percentuale di distanza dal partito più votato, il Rassemblement National (che secondo alcune analisi ha attratto parecchi voti fra i manifestanti).

Oggi siamo nella fase in cui si discute di cosa resterà del movimento. In una lunga intervista data al New Yorker, Macron ne ha parlato al passato e ha spiegato che la crisi lo ha aiutato a modificare l’approccio nei confronti dell’elettorato, che «probabilmente era troppo astratto». Parlando col Foglio, il politologo francese Jean-Yves Camus concorda sul fatto che le proteste «hanno spinto il governo a mettersi in discussione, ad accelerare il lancio del secondo atto del quinquennio», ma che «a livello psicologico c’è un senso di incomprensione che perdura tra i gilet gialli e potrebbe pesare nelle future scadenze elettorali».