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  • Giovedì 2 maggio 2019

Lo scontro sul “rapporto Mueller” è tutt’altro che finito

I Democratici hanno interrogato il procuratore generale William Barr sulla sua gestione delle conclusioni dell'indagine su Trump e la Russia, mettendolo in grossa difficoltà

Il procuratore generale William Barr durante l'audizione al Senato. (Win McNamee/Getty Images)
Il procuratore generale William Barr durante l'audizione al Senato. (Win McNamee/Getty Images)

Al Congresso degli Stati Uniti è in corso un acceso scontro tra i Democratici e la Casa Bianca, ancora una volta incentrato sull’indagine del procuratore speciale Robert Mueller sul presidente Donald Trump e la Russia. In particolare, il tema è come il procuratore generale William Barr, cioè il capo di Mueller, abbia gestito la divulgazione al pubblico e allo stesso Congresso delle conclusioni dell’indagine, che sono state formalmente presentate nelle scorse settimane, e che nella loro versione integrale sono state per ora viste soltanto da Barr e dal suo staff al Dipartimento di Giustizia.

Secondo i Democratici, e secondo molto commentatori e opinionisti, Barr ha dato un’interpretazione parziale e disonesta delle conclusioni del rapporto, in modo da farle sembrare molto più assolutorie nei confronti di Trump di quanto non fossero in realtà, permettendo al presidente di intestarsi una piena assoluzione, che non trova conferma nelle reali conclusioni dell’inchiesta di Mueller.

La situazione attualmente è questa: mercoledì Barr ha partecipato a una tesa audizione alla Commissione giustizia del Senato, in cui è stato messo in diverse occasioni in grande difficoltà dai senatori Democratici. Barr si è poi rifiutato di testimoniare di fronte alla Commissione giustizia della Camera, che a differenza di quella del Senato è controllata dai Democratici e che avrebbe dovuto prevedere le domande di alcuni avvocati, e non solo quelle dei deputati. È quindi in corso uno stallo, che i Democratici potrebbero decidere di risolvere inviando a Barr un mandato di comparizione, cosa che alzerebbe ulteriormente il livello dello scontro.

Il procuratore generale William Barr durante l’audizione al Senato. (Win McNamee/Getty Images)

In tutto questo, i Democratici stanno cercando di ottenere la versione completa e non censurata del rapporto dal Dipartimento di Giustizia, per ora senza successo. E non è ancora chiaro se Mueller testimonierà davanti alla Commissione: se succederà, come i Democratici hanno chiesto, sarà con ogni probabilità un’occasione in cui si scopriranno diverse cose grosse.

Per farsi un’idea del livello dello scontro, durante l’udienza di Barr di mercoledì la senatrice Democratica delle Hawaii Mazie K. Hirono gli si è rivolta dicendo: «Signor Barr, gli americani ormai sanno che non è differente da Rudy Giuliani o da Kellyanne Conway o da chiunque altro abbia sacrificato la propria buona reputazione per l’imbroglione e bugiardo che siede nello Studio Ovale. Lei subordina il potere e l’autorità del procuratore generale e del Dipartimento di Giustizia al tentativo comunicativo di aiutare Donald Trump a proteggersi. E infine, ha mentito al Congresso».

Facendo un rapido riassunto delle puntate precedenti: quando Mueller consegnò al Dipartimento di Giustizia le conclusioni della sua lunga indagine, a fine marzo, Barr ne riassunse il contenuto in un documento diffuso pubblicamente. La sua versione però fu da subito accusata di aver presentato in maniera scorretta le reali conclusioni del rapporto, dicendo falsamente che l’indagine scagionava Trump dalle accuse di collusione e di ostruzione alla giustizia. Quasi un mese dopo fu diffusa una versione più completa del rapporto che, seppur con ampie parti censurate, era piena di informazioni compromettenti e preoccupanti riguardo a Trump, ai rapporti del suo comitato elettorale con la Russia e soprattutto ai tentativi che fece per intervenire sull’indagine. In quell’occasione, Barr tenne una conferenza subito prima della diffusione del rapporto, per provare a indirizzarne la ricezione pubblica.

Dall’udienza di ieri è emerso un quadro più completo di cosa successe nei giorni successivi alla diffusione del riassunto di Barr del rapporto. Mueller, che è uno storico amico di Barr, non gradì il modo in cui aveva sintetizzato le sue conclusioni, e glielo fece presente in alcune lettere e in una telefonata dai toni apparentemente accesi. Barr infatti non aveva usato quasi niente dei testi riassuntivi che la squadra di Mueller aveva appositamente preparato, scegliendo formulazioni più assolutorie, e in alcuni casi usò le parole di Mueller fuori contesto per presentare Trump in modo migliore. Mueller reagì con una prima lettera in cui comunicò le sue preoccupazioni e scrisse chiaramente che le conclusioni erano state travisate.

La senatrice Kamala Harris e il senatore Cory Booker durante l’audizione del procuratore generale William Barr. (Alex Wong/Getty Images)

Due giorni dopo, Mueller gli scrisse di nuovo, esponendo in toni un po’ “legalesi” la frustrazione e l’irritazione della sua squadra: «Questo rischia di minare un obiettivo centrale per cui il Dipartimento di Giustizia aveva nominato la squadra speciale: assicurarsi la fiducia del pubblico sui risultati delle indagini». A quel punto, Barr chiamò Mueller e gli chiese di smetterla con le lettere.

Ma durante l’audizione al Senato, Barr ha difeso il modo in cui ha gestito la diffusione del rapporto Mueller. La sua versione, però, è sembrata spesso incerta e confusa, e soprattutto a molti è sembrato che si stesse comportando più come un avvocato difensore che come un procuratore generale, che è sì una nomina presidenziale ma che dovrebbe poi avere come priorità l’applicazione delle leggi. A un certo punto, rispondendo alla senatrice Democratica Amy Klobuchar, Barr ha espresso un’argomentazione presentandola come «quello che direbbero gli avvocati del presidente».

Alla domanda del senatore Democratico Chris Coons sul fatto se un comitato elettorale debba rivolgersi immediatamente all’FBI se scoprisse che un funzionario di intelligence straniero possiede del materiale compromettente sull’avversario (come successe al comitato di Trump durante le presidenziali del 2016, con Hillary Clinton), Barr è sembrato esitare, e ha provato a fare una distinzione tra funzionari governativi e funzionari di intelligence.

Incalzato dal senatore Patrick Leahy sul fatto se Trump avesse o meno «collaborato pienamente» con le indagini, Barr ha palesemente evitato di rispondere, ripetendo che il comportamento del presidente non si configurava come ostruzione alla giustizia.

La senatrice Democratica e candidata alle primarie Kamala Harris, ex procuratrice e famosa per le sue domande pressanti, ha chiesto a Barr se Trump o qualcuno alla Casa Bianca avesse mai suggerito che aprisse un’indagine su qualcuno, provando a controllare il suo lavoro, Barr è sembrato voler evitare di rispondere spiegando di non capire il significato del termine “suggerire”.

Harris, insieme ad altri candidati alle primarie Democratiche come Cory Booker, Elizabeth Warren, Kirsten Gilibrand, Joe Biden e Beto O’Rourke hanno chiesto mercoledì le dimissioni di Barr, al momento piuttosto improbabili. Gli sviluppi principali della storia ora dipendono dall’eventuale mandato di comparizione a Barr e dalla possibile testimonianza di Mueller al Congresso.