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  • Venerdì 19 aprile 2019

7 cose dal “rapporto Mueller”

Scelte dal New York Times per orientarsi tra la valanga di informazioni contenute nelle 400 pagine dell'atteso e discusso documento

(AP Photo/Jon Elswick)
(AP Photo/Jon Elswick)

Ieri è stato diffuso, in una versione in parte censurata, il “rapporto Mueller”, cioè il documento conclusivo dell’indagine guidata dal procuratore speciale Robert Mueller sulle interferenze della Russia nella campagna elettorale statunitense del 2016, le presunte complicità del comitato elettorale di Donald Trump e i presunti tentativi del presidente Trump di ostacolare la giustizia. Sono circa 400 pagine, piene di nomi, date e storie spesso complicate: il New York Times ha sintetizzato sette conclusioni che se ne possono trarre, per orientarsi su quali sono le conclusioni – per ora – di una delle storie di politica americana più importanti del decennio.

1. Trump provò ad ostacolare l’indagine dell’FBI, ma il suo staff si rifiutò

Questa è una delle conclusioni più importanti di tutto il rapporto: sono elencate almeno undici occasioni in cui Trump cercò attivamente di bloccare l’indagine sui suoi rapporti con la Russia. Chiese per esempio all’avvocato della Casa Bianca, Donald F. McGahn II, di trovare il modo di licenziare Mueller, ma McGahn si rifiutò dicendo che piuttosto si sarebbe dimesso. Due giorni dopo quell’episodio, Trump chiese al suo consigliere Corey Lewandoski di chiedere al procuratore generale Jeff Sessions di chiudere l’indagine, ma Lewandoski disse di no e delegò l’ordine a un altro membro dello staff, Rick Dearborn, che a sua volta non volle eseguirlo.

Il rapporto parla di molti altri episodi simili, per esempio di quando Trump provò a convincere Sessions a non rinunciare al suo ruolo di supervisore dell’inchiesta, cosa che lui fece per evitare un conflitto di interessi, in quanto a sua volta coinvolto nell’indagine. «I tentativi del presidente di influenzare l’indagine per lo più non ebbero successo, ma in buona parte perché le persone che circondavano il presidente si rifiutarono di eseguire gli ordini o di acconsentire alle sue richieste».

2. Ci furono un sacco di bugie

Il rapporto è pieno di resoconti di cose false dette deliberatamente da Trump e dalla Casa Bianca al pubblico o ai giornalisti. Quando uscì sui giornali la notizia che Trump aveva chiesto senza successo di far licenziare Mueller, il presidente chiese a McGahn di smentirla: lui si rifiutò, dicendo che quello che scrivevano i giornali era corretto. Trump poi chiese al vice procuratore generale Rod J. Rosenstein di dire in una conferenza stampa che era stata una sua idea licenziare il direttore dell’FBI James Comey. Rosenstein disse di no, perché non voleva mentire ai giornalisti. La stessa portavoce della Casa Bianca Sarah Huckabee Sanders ha ammesso di fatto almeno una dichiarazione «presa dal momento, senza che fosse basata su niente».

3. I giornali ci hanno preso 

Da due anni sentiamo parlare a pezzetti delle scoperte dell’indagine su Trump e la Russia, e da altrettanti Trump accusa i media americani – New York Times, Washington PostCNN su tutti – di diffondere “fake news”. Il rapporto dimostra che la stragrande maggioranza delle storie uscite sui giornali autorevoli era vera, e che per giunta i membri dello staff della Casa Bianca che aiutarono Trump in questa campagna contro i giornalisti lo sapevano. A cominciare dalla volta in cui Trump negò la notizia secondo la quale avrebbe chiesto a Comey di interrompere l’indagine sul consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn.

4. L’intralcio alla giustizia non è stato escluso

La parte del rapporto che documenta i molti contatti e rapporti tra il comitato elettorale di Trump e il governo russo è molto importante, ma quella di cui si sta discutendo di più è quella che riguarda i molti tentativi di Trump di ostacolare l’indagine, perché sono – se possibile – ancora più evidenti e precisi nel delineare le colpe del presidente. I più autorevoli pareri legali a cui ha fatto ricorso Mueller sostengono che un presidente non possa essere incriminato mentre è in carica, e che al limite possa essere il Congresso a chiederne l’impeachment, per questioni di separazione dei poteri. Ma nella sua frase più citata, il rapporto dice: «Anche se questo rapporto non stabilisce che il presidente abbia commesso un crimine, non lo esonera nemmeno».

5. Trump aveva ragione a non voler essere interrogato

La versione data da Trump durante l’indagine era che lui avrebbe voluto testimoniare davanti alla squadra di Mueller, ma che i suoi avvocati glielo impedivano. Il rapporto dice in maniera chiara che i suoi avvocati erano giustamente preoccupati per le moltissime domande in sospeso, questioni irrisolte e dichiarazioni contraddittorie che sarebbero venute fuori. Mueller scrive di aver deciso di non inviare un mandato di comparizione a Trump perché la battaglia legale che ne sarebbe seguita avrebbe rallentato l’indagine.

6.  Non ci sono prove di cospirazioni, ma ci sarebbero molte cose su cui indagare

Il rapporto racconta i molti e sospetti contatti che ci furono tra il comitato di Trump e funzionari e altre personalità russe. Il punto è che, legalmente, non basta dimostrare che le due parti fossero in contatto per parlare di “cospirazione”, ma servirebbe la prova di un coordinamento che l’indagine non ha dimostrato. Sono usciti però ulteriori dettagli su questi contatti, anche riguardo ad alcuni episodi che già conoscevamo: sapevamo per esempio che George Papadopoulos, un giovane membro del comitato elettorale diventato uno dei protagonisti dell’indagine, rivelò che la sua squadra era a conoscenza del fatto che la Russia avesse sottratto migliaia di email che potevano compromettere Hillary Clinton. Ma secondo il rapporto, Papadopoulos parlò esplicitamente di un’offerta da parte del governo russo per lavorare insieme a Trump per sabotare Clinton. Il rapporto rivela, del resto, che quando Trump seppe che sarebbe stato Mueller a occuparsi dell’indagine disse: «Oh mio Dio. È terribile. Questa è la fine della mia presidenza. Sono fottuto».

7. In un certo senso Trump è stato aiutato dalla copertura riservata all’inchiesta dai giornali

Secondo il New York Times, se le storie contenute nel rapporto fossero state rivelate tutte di colpo all’opinione pubblica americana, le conseguenze per Trump sarebbero state “devastanti”. Invece, visto che la maggior parte erano già note perché raccontate da un gran lavoro dei media americani in questi due anni, la reazione non è stata di vera sorpresa. Non sappiamo ancora che conseguenze ci saranno, ma non è implausibile – anzi – pensare che Trump resista al colpo e che superi anche questa.