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  • Martedì 12 marzo 2019

È il momento dell’Africa?

Potrebbe essere arrivato, dice l'Economist, ma solo se ci saranno alcuni cambiamenti: più trasparenza e più unione, per esempio

Una protesta di studenti a Città del Capo, Sudafrica (AP Photo/Schalk van Zuydam)
Una protesta di studenti a Città del Capo, Sudafrica (AP Photo/Schalk van Zuydam)

Negli ultimi anni l’interesse dell’Europa, delle Americhe e dell’Asia verso i paesi africani è diventato sempre più forte, e si sono moltiplicati gli investimenti, i rapporti diplomatici e gli accordi commerciali. È un momento particolare per l’Africa, ha scritto l’Economist in un articolo pubblicato nel suo ultimo numero, che potrebbe portare grandi benefici alla popolazione del continente, per decenni penalizzata prima dal colonialismo e poi da governi poco trasparenti e molto corrotti.

L’attuale interesse per l’Africa da parte di molti paesi stranieri è dovuto a diversi fattori: non solo a economie in espansione e importanti opportunità di investire in settori considerati strategici, ma anche a una popolazione in costante aumento che col passare degli anni diventerà sempre più numerosa (l’ONU stima che entro il 2025 nel mondo ci saranno più africani che cinesi, per esempio). Il coinvolgimento di paesi stranieri nel continente è senza precedenti, ha scritto l’Economist.

Dal 2010 al 2016 sono state aperte in tutta l’Africa più di 320 ambasciate, soprattutto di paesi che volevano aumentare la propria presenza diplomatica in continenti diversi dal proprio, come India e Turchia. Il volume del commercio dell’Africa con l’esterno è cresciuto notevolmente, grazie all’interesse di alcune grandi economie asiatiche (Cina, India, Russia e Indonesia, tra le altre), e sono cresciuti anche gli investimenti diretti esteri, che continuano ad arrivare soprattutto da società statunitensi, britanniche e francesi. Negli ultimi anni si è poi rafforzata la cooperazione militare, che ha visto in particolare il coinvolgimento di Stati Uniti e Francia in diverse operazioni antiterrorismo nella regione del Sahel, dove sono presenti molti gruppi estremisti e jihadisti. Diversi paesi, inoltre, hanno firmato trattati di tipo militare con stati africani (è il caso della Russia) e hanno costruito basi militari nel Corno d’Africa (come la Cina e diverse ricche monarchie arabe). La Cina, di cui da tempo si parla molto per i suoi programmi di investimento nel continente, è infine diventato il principale venditore di armi ai paesi dell’Africa subsahariana.

I sempre maggiori investimenti provenienti dall’esterno sono stati oggetto di dibattito tra analisti, e non tutti sono d’accordo che gli effetti siano stati sempre positivi. Oltre alle critiche di “neocolonialismo” che vengono rivolte alle grandi aziende straniere che sfruttano le risorse naturali africane, c’è sempre stato il grosso problema della corruzione diffusa a qualsiasi livello di governo, nei governi della maggior parte dei paesi del continente, che le imprese occidentali in molti casi finiscono per assecondare.

L’Economist, tuttavia, ritiene che in generale gli effetti di questo processo siano stati per lo più positivi per la popolazione africana. I governi e le imprese straniere hanno costruito porti e altre infrastrutture, hanno contribuito all’aumento del PIL di diversi stati del continente e alla diffusione della tecnologia e degli smartphone, tra le altre cose. Ci sono tuttavia quattro cose che dovrebbero cambiare, affinché la popolazione dell’Africa possa beneficiare davvero dei nuovi ingenti investimenti provenienti dall’esterno.

Primo, dice l’Economist, gli elettori e gli attivisti dovrebbero continuare a chiedere maggiore trasparenza. In alcuni paesi qualcosa si sta facendo: in Sudafrica lo scorso anno è stato incriminato per corruzione l’ex presidente Jacob Zuma, mentre in Kenya diverse inchieste giornalistiche hanno fatto emergere uno scandalo relativo a un progetto ferroviario cinese. In molti altri paesi, però, la mancanza di trasparenza continua a essere uno strumento usato da governi corrotti per alimentare le proprie ricchezze a discapito della popolazione.

Secondo, l’Africa dovrebbe cominciare a ragionare in termini strategicamente più efficienti, in maniera più unita: negoziare un accordo commerciale con un paese solo è un conto, ed è una situazione che spesso premia le potenze straniere; ben diverso sarebbe però concludere accordi ragionando come un’organizzazione di stati, quindi da una posizione di maggiore forza.

Terzo, i leader africani non dovrebbero sentire pressione per scegliere da che parte stare, come succedeva durante la Guerra fredda, quando di fatto Stati Uniti e Unione Sovietica entrarono in competizione per esercitare la propria influenza su grandi pezzi del continente: dovrebbero poter sfruttare tutte le opportunità che ha da offrire il mercato, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti nei settori strategici.

Quarto, le popolazioni dei paesi africani dovrebbero chiedere più democrazia, perché secondo diversi studi solo aumentando la democrazia, la trasparenza e l’alternanza di governo è possibile consolidare strutture politiche ed economiche in grado di funzionare in maniera efficiente. Non è un percorso semplice: in molti paesi africani i partiti politici che sono al governo da decenni continuano a ottenere larghissime maggioranze alle elezioni, spesso a causa del controllo che il governo esercita sulla stampa e sui media in generale. Negli ultimi vent’anni, però, la situazione a livello di continente è migliorata e la politica è diventata sempre più competitiva.

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