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  • Lunedì 26 novembre 2018

La riforma del lavoro di Emmanuel Macron forse sta funzionando

Forse, dice l'Economist: dopo un anno ci sono stati dei cambiamenti, ma per vedere dei veri risultati bisognerà aspettare molto di più

Il presidente della Francia Emmanuel Macron (THIBAULT CAMUS/AFP/Getty Images)
Il presidente della Francia Emmanuel Macron (THIBAULT CAMUS/AFP/Getty Images)

È passato poco più di un anno da quando la contestata riforma del lavoro del presidente francese Emmanuel Macron è diventata legge e l’Economist ha provato a fare un po’ di conti per capire come sta andando. La risposta veloce è che ci sono alcuni segnali positivi, e altri no.

La riforma, in breve
Lo scopo della riforma di Macron era indebolire il potere contrattuale dei sindacati, rendere più semplici i licenziamenti e quindi, in teoria, anche le assunzioni: il principio di base era insomma che rendere più flessibile il mercato del lavoro avrebbe permesso alle imprese di licenziare con maggior facilità i lavoratori ma anche di assumerli senza la preoccupazione di non potersene liberare se non con grande difficoltà.

A questo scopo, la riforma ha introdotto una serie di ampie modifiche al codice del lavoro francese, un documento lungo circa 3.400 pagine in cui alcuni articoli erano vecchi di oltre un secolo. Tra i punti principali della riforma c’era per esempio la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato: prima la loro durata e la possibilità di rinnovarli (un massimo di due volte) erano stabilite da una legge dello Stato; con la riforma, allungare o accorciare la durata del contratto e il numero di volte in cui può essere rinnovato sono aspetti che possono essere decisi a livello di settore.

I sostenitori di Macron dicevano che con la riforma sarebbero stati modificati equilibri consolidati, obsoleti e corporativi, e che le modifiche avrebbero reso il paese più competitivo e flessibile. I critici sostenevano invece che i lavoratori avrebbero avuto meno potere contrattuale e che quindi avrebbero lavorato in condizioni peggiori.

Chi aveva ragione?
I dati dell’Istituto francese di statistica (INSEE) dicono che nel secondo e nel terzo trimestre del 2018 il numero di persone che cercano lavoro in Francia è cresciuto (più 0,5 per cento nel terzo trimestre), e c’è stato anche un notevole aumento (più 8 per cento) delle persone che risultano disoccupate da uno o due anni. In Francia il tasso di disoccupazione è ancora fermo al 9,1 per cento, non troppo distante dal tasso ereditato da Macron quando è diventato presidente nella primavera dello scorso anno (9,4) e ancora lontano dal 7 per cento che la riforma promette di raggiungere entro il 2022.

È vero però, dice l’Economist, che per vedere gli effetti di una riforma sul lavoro occorre del tempo: la grande riforma tedesca del 2003 voluta dall’ex cancelliere Gerhard Schröder ha dato dei risultati solamente nel 2008, quando la cancelliera era già Angela Merkel. Ed è vero che delle tre parti in cui è articolata la riforma di Macron, solo le prime due sono entrate a tutti gli effetti in vigore. La seconda, approvata da poco, prevede una spesa di 32 miliardi di euro all’anno (pari all’1,4 per cento del PIL) per migliorare i programmi di formazione professionale. Non è dunque ancora possibile capire se gli investimenti hanno funzionato e migliorato effettivamente le competenze e le prospettive concrete di impiego.

La terza e ultima parte della riforma sarà infine presentata il prossimo anno e riguarderà welfare e protezione sociale. Durante la campagna elettorale, Macron aveva puntato molto su questo punto, promettendo per esempio di estendere il sussidio di disoccupazione a tutti e non solo ad alcune categorie per adattare la protezione sociale alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro che aveva proposto e che poi la sua riforma ha effettivamente promosso.

Se, dunque, non è possibile stabilire definitivamente se la riforma di Macron abbia funzionato oppure no, e nonostante i dati generali sui tassi di occupazione e disoccupazione non diano segnali favorevoli, ci sono comunque altre indicazioni sulla risposta positiva dei datori di lavoro alle riforme. Sembra esserci un miglioramento, per esempio, della qualità dei posti di lavoro: nel terzo trimestre del 2018 il numero di aziende che hanno dichiarato di voler assumere nuovi dipendenti con un contratto a tempo indeterminato è aumentato del 10 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (i dati sono dell’Agenzia di previdenza sociale francese). L’INSEE ha poi calcolato che nel terzo trimestre del 2018 il tasso di occupazione con contratti a tempo indeterminato (CDI) è stato del 49,4 per cento, leggermente superiore al trimestre precedente (più 0,1 punti) e superiore rispetto a un anno fa (più 0,6 punti).

Un’altra misura introdotta dalla riforma Macron e molto apprezzata dai datori di lavoro è stata il tetto alle compensazioni monetarie in caso di licenziamento scorretto, riducendo così al minimo il rischio finanziario dei licenziamenti (e quindi delle assunzioni) per le imprese. E sembra funzionare: le cause ai tribunali del lavoro sono diminuite del 15 per cento rispetto al 2017. Il direttore di una società di servizi che impiega in un call center 40 persone ha spiegato all’Economist che di solito assume circa cinque persone al mese, tutte con contratti a breve termine. Ora ad almeno due persone al mese offre contratti più stabili: «È meglio avere dipendenti motivati, ma in passato era un rischio. Ora sento che è una scommessa che posso fare».

Queste tendenze positive restano comunque indicative e ancora da confermare sul lungo periodo: molto dipenderà da come andrà l’economia a livello generale, anche fuori dalla Francia. Secondo Ludovic Subran, capo di Euler Hermes, un’importante compagnia di assicurazioni con sede a Parigi, «la traiettoria è quella giusta e dobbiamo aspettare di vedere i risultati entro il 2020». Macron ha chiesto più volte pazienza ai cittadini e alle cittadine francesi, ma in generale sembra che le aspettative nei suoi confronti non siano state finora soddisfatte. I sondaggi sulla sua popolarità e sul suo gradimento sono in costante calo (meno 26 punti percentuali dalla sua nomina a oggi, meno 17 punti dall’inizio dell’anno), anche perché – nonostante alcuni segnali positivi sulla riforma del lavoro e il fatto che altre riforme siano state avviate – la disoccupazione non è sostanzialmente diminuita e i segnali di miglioramento sono ancora troppo deboli.