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  • Domenica 18 novembre 2018

Perché i rifiuti in Italia sono ancora un problema

Con pochi impianti adeguati e proteste che bloccano quelli nuovi, anche l'aumento della raccolta differenziata finisce per produrre guai: il risultato sono i roghi nei capannoni

L'incendio scoppiato in un deposito di rifiuti a Milano, vicino a Quarto Oggiaro, il 14 ottobre (ANSA/ DANIELE BENNATI)
L'incendio scoppiato in un deposito di rifiuti a Milano, vicino a Quarto Oggiaro, il 14 ottobre (ANSA/ DANIELE BENNATI)

Da un paio di settimane si è tornati a discutere della difficile situazione in cui si trova la gestione dei rifiuti in Italia. Il problema è che ci sono pochi impianti adeguati e c’è troppo materiale da smaltire, e la combinazione di questi due fattori – che ha varie cause – sta portando tutto il sistema in una situazione di stallo, non riuscendo più a sostenere lo smaltimento di tutti i rifiuti prodotti in Italia. Non si parla soltanto dei cassonetti stracolmi di alcune città che tante volte hanno fatto parlare di “emergenza rifiuti”, ma di un problema a monte che riguarda tutto il sistema nazionale della gestione dei rifiuti e che ha come conseguenza i sempre più frequenti incendi dolosi nei capannoni, le discariche abusive e gli impianti sovraccarichi di materiale, insieme alle nuove discussioni sugli inceneritori e sui termovalorizzatori.

Dove finiscono i rifiuti in Italia
Per capire da dove arrivino tutti i problemi bisogna prima spiegare rapidamente come funziona la gestione dei rifiuti in Italia. In generale la gestione dei rifiuti si può suddividere in due grandi blocchi distinti: operazioni di recupero e operazioni di trattamento-smaltimento. Delle prime si occupano principalmente gli impianti che gestiscono i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata, mentre delle seconde si occupano discariche, inceneritori, impianti di trattamento meccanico-biologico: lo smaltimento viene definito tale anche se successivamente può avere come come risultato secondario il recupero di sostanze o di energia.

Per quanto riguarda il recupero dei rifiuti, l’Italia è un paese piuttosto virtuoso: eppure non basta a tenere in piedi tutto il sistema di smaltimento. Ogni anno più del 50 per cento dei rifiuti urbani – quelli prodotti dai singoli cittadini, e non dalle industrie – viene riciclato: un dato sopra la media dell’Unione Europea, dove viene sottoposto a riciclo il 47 per cento dei rifiuti urbani. Il 25 per cento dei rifiuti finisce ancora in discarica, un valore che il Parlamento Europeo ha stabilito debba essere limitato al 10 per cento entro il 2035.

Nel 2016, secondo il rapporto del 2017 dell’ISPRA sui rifiuti urbani (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), in Italia sono stati prodotti 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbanimentre sono state 135 milioni le tonnellate di rifiuti speciali (cioè i rifiuti industriali), a loro volta divisi in pericolosi e non pericolosiA occuparsi del riciclo dei rifiuti urbani frutto della raccolta differenziata sono gli impianti di recupero, mentre per i rifiuti indifferenziati ci sono gli impianti di smaltimento. Tra quelli più utilizzati ci sono gli inceneritori (chiamati anche termovalorizzatori quando il calore prodotto dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per produrre energia) dove finiscono anche diverse tipologie di rifiuti speciali, come quelli ospedalieri e industriali.

La raccolta differenziata è un mercato chiuso
La raccolta differenziata è, paradossalmente, uno dei fattori principali che stanno causando questa situazione di stallo nella gestione dei rifiuti. In Italia se ne fa sempre di più – nel giro dieci anni si è passati dal 28,5 per cento del 2006 al 52,5 per cento del 2016 – ma succede che spesso venga fatta male, mischiando rifiuti che non andrebbero messi insieme. Gli impianti di riciclo che ricevono questi rifiuti dividono quelli riciclabili da quelli non riciclabili, e finiscono per riempirsi di materiale di scarto da avviare a smaltimento.

C’è poi un altro problema che riguarda la raccolta differenziata, e cioè che se ne fa troppa rispetto alla domanda del mercato. I materiali derivati dal riciclo hanno sempre meno spazio sul mercato, e quello che non si riesce a vendere si prova a mandarlo in discariche o inceneritori. Quando questi ultimi sono pieni, però, può succedere quello che racconta Jacopo Giliberto sul Sole 24 Ore a proposito della plastica: «La plastica che non riesce a finire negli inceneritori viene accumulata dai riciclatori che non trovano acquirenti del prodotto finito, con un rischio grande di incidenti. Oppure finisce in mano alla malavita, che riempie di plastica di capannoni che bruciano».

La questione cinese
Non è l’unica, ma una delle cause principali del sovraccarico degli impianti è la decisione presa dal governo cinese l’estate scorsa di diminuire le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei: una scelta che ha messo in crisi non solo l’Italia ma tutta l’Europa, che vendeva alla Cina gran parte dei suoi rifiuti differenziati.

In Italia questa decisione ha riguardato soprattutto il settore della carta e in particolare quella da macero, cioè i residui impuri della carta riciclata: il blocco delle importazioni da parte della Cina infatti non ha riguardato tutti i materiali plastici e cartacei, ma solo quelli con impurità superiori allo 0,5 per cento. Nel 2016 l’Italia esportava 1,9 milioni di tonnellate di carta e più della metà finiva in Cina, che poi la riconvertiva in carta da imballaggio; ora che le nostre esportazioni di rifiuti sono in calo, il ciclo dei rifiuti ha avuto un improvviso rallentamento e gli impianti italiani si sono trovati con un surplus di carta da macero da smaltire.

“Not in my backyard”
A complicare questa situazione c’è lo stato attuale degli impianti italiani, sia di riciclo che di smaltimento. Per quanto riguarda i primi, alla buona notizia dell’aumento progressivo dei materiali da riciclare non è seguito nel corso degli anni un aumento del numero degli impianti, costringendo l’Italia a esportare sempre più rifiuti all’estero, in particolare verso Austria e Ungheria. Nel rapporto dell’ISPRA si nota infatti come nel 2016 i rifiuti esportati siano stati il doppio di quelli importati: 433mila tonnellate contro 208mila.

La soluzione sarebbe la costruzione di più impianti, ma negli anni amministrazioni locali e proteste dei cittadini hanno rallentato l’espansione, chiedendo in molti casi la chiusura degli impianti esistenti. Si tratta del cosiddetto fattore nimby – acronimo per not in my backyard (“non nel mio cortile”) – ovvero l’ostilità della popolazione alla presenza nel proprio territorio di opere pubbliche, come appunto gli impianti di recupero o smaltimento, per la preoccupazione dei loro effetti negativi sulla salute o sul territorio.

Questa ostilità ha riguardato trasversalmente tutta l’Italia e amministrazioni di tutti gli schieramenti politici, seppure con intensità e frequenze diverse. Possono succedere quindi cose bizzarre come le proteste per la presenza di un impianto di riciclo TMB (trattamento meccanico-biologico) nel quartiere Salario a Roma, di cui un comitato cittadino appoggiato dal PD chiede la chiusura a causa delle emissioni maleodoranti, e che è invece difeso dal Movimento 5 Stelle; lo stesso Movimento 5 Stelle che ne chiedeva la chiusura prima di governare la Capitale. Quelle per gli impianti di riciclo, però, sono solo una piccola parte delle proteste dei nimby.

A creare più divisioni e scontri negli anni sono stati gli inceneritori/termovalorizzatori, le cui emissioni sono state il principale motivo di preoccupazione. Il dibattito sull’utilità o pericolosità degli inceneritori va avanti da anni, e anche in questo caso i partiti politici si sono dichiarati favorevoli o contrari, a seconda della situazione.

Lo scontro più recente è avvenuto nei giorni scorsi all’interno del governo, in seguito a una visita del ministro dell’Interno Matteo Salvini in Campania. Salvini ha parlato della necessità di avere più inceneritori per lo smaltimento, sostenendo che «occorre il coraggio di dire che serve un termovalorizzatore per ogni provincia, perché se produci rifiuti li devi smaltire». A Salvini ha risposto il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, secondo cui in Campania «gli inceneritori non c’entrano una beneamata ceppa e tra l’altro non sono nel contratto di governo». Ai due si è aggiunto poi il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, anche lui contrario a nuovi inceneritori, con una risposta piuttosto semplificatoria: «Quando arriva l’inceneritore, o termovalorizzatore, il ciclo dei rifiuti è fallito». Il “contratto di governo” parla di rifiuti solo in modo molto vago, con i soliti richiami a “incentivare la raccolta differenziata”, ma senza essere più precisi: lo ha ricordato ieri Di Maio, aggiungendo che in Campania «non bisogna fare il business degli inceneritori ma bisogna fermare il business dei rifiuti».

A proposito degli inceneritori, nel 2014 il governo Renzi inserì nel cosiddetto decreto “Sblocca Italia” un articolo, il 35, che prevedeva la costruzione di 12 nuovi impianti – da aggiungere ai 42 attualmente attivi – e la decisione fu molto contestata dalle opposizioni e dalle associazioni ambientaliste. Lo scorso aprile un ricorso presentato da alcuni comitati è stato accolto dal TAR del Lazio, che ha bloccato l’attuazione del decreto rinviandone la valutazione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea; alcuni giorni fa il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha fatto sapere che ne proporrà la modifica in Parlamento. La proposta di Renzi, però, già all’epoca aveva trovato l’opposizione del suo stesso partito a livello regionale. È il caso del Lazio, dove nel 2016 l’allora ministro dell’Ambiente Galletti chiedeva la costruzione di un nuovo inceneritore per migliorare la gestione dei rifiuti, e a cui si oppose il suo collega di partito, il presidente della regione Nicola Zingaretti, oggi candidato alla segreteria del PD. Non solo alla fine il nuovo inceneritore non si è fatto, ma il 16 ottobre per decisione di Zingaretti è stato chiuso l’inceneritore di Colleferro, che era rimasto fermo per oltre un anno a causa delle proteste dei cittadini.

I roghi nel Nord Italia
E arriviamo così ai molti roghi di rifiuti avvenuti negli ultimi mesi nel Nord Italia, una delle conseguenze più tangibili della grave situazione in cui versa il sistema della gestione dei rifiuti. Per capire la causa di così tanti roghi bisogna fare un passo indietro: con l’articolo 35 del decreto “Sblocca Italia” non si è solo proposta la costruzione di nuovi inceneritori, ma si è anche introdotta una nuova norma sulla gestione dei rifiuti urbani tra le varie regioni.

Se prima dello “Sblocca Italia” i rifiuti urbani indifferenziati potevano essere smaltiti solo nelle zone in cui venivano prodotti, ora è possibile portarli in altre regioni. Questo ha aiutato le regioni del Centro e del Sud – con impianti e discariche spesso piccoli e tecnologicamente arretrati, e che rifiutano più delle altre di costruirne di nuovi – a portare i loro rifiuti nei più grandi impianti del Nord, ovviamente pagando, ma ha avuto diverse altre conseguenze. La prima è che gli impianti che si occupano di smaltimento al Nord si sono ritrovati saturi di materiale da gestire, e per poter continuare a ricevere rifiuti hanno dovuto alzare le tariffe; la seconda è che, con gli impianti pieni e i costi aumentati, sono diventati sempre più frequenti, specialmente in Lombardia,  i casi di roghi in discariche abusive e capannoni abbandonati.

Quello che succede è che alcuni imprenditori, piuttosto che cercare di portare i rifiuti in un impianto di smaltimento a prezzi elevati, preferiscono pagare qualcuno perché stipi i rifiuti in uno dei tanti capannoni vuoti del Nord Italia, a cui poi viene dato fuoco per liberarsi del problema. Ovviamente quello dei roghi non è un fenomeno che riguarda solo il Nord, visto che dal 2014 si sono contati più di 300 casi in tutta Italia, ma – come dice il ministro dell’Ambiente Sergio Costa – sarebbe ormai «qualcosa di strutturale».