I roghi di rifiuti nel nord Italia

Sono diventati sempre più frequenti negli ultimi anni e sappiamo bene perché accadono: ma risolvere il problema è tutta un'altra storia

(LaPresse - Stefano Porta)
(LaPresse - Stefano Porta)

Da qualche anno a questa parte, in una zona precisa dell’Italia, sono iniziati frequenti incendi sospetti a discariche e impianti di smaltimento dei rifiuti. Non stiamo parlando della cosiddetta Terra dei Fuochi, in Campania, ma di una zona intorno a Pavia, in Lombardia, in cui nel 2017 sono andate a fuoco sei aziende che smaltiscono i rifiuti, una ogni due mesi. Non è un fenomeno che si limita a Pavia: fra il 2014 e l’estate del 2017 il 47,5 per cento degli impianti di smaltimento e delle discariche che hanno subito un incendio segnalato alle autorità si trovava nel nord Italia (124 su 261). Nessuno ci ha ancora capito molto, ma nell’ultimo periodo si sono occupate dell’argomento alcune inchieste giornalistiche e un’apposita commissione parlamentare d’inchiesta, che ha concluso i suoi lavori a gennaio.

L’Italia è considerata un paese virtuoso dal punto di vista del riciclo dei rifiuti, soprattutto di vetro e plastica. Negli ultimi tempi però sono successe due cose che hanno inceppato il meccanismo. La prima è che gli inceneritori italiani, che trattano i materiali di scarto dei processi di riciclo, hanno iniziato a ricevere materiali dagli stati limitrofi che non riescono a disfarsene, come la Germania. L’estate scorsa, inoltre, la Cina ha annunciato che avrebbe progressivamente diminuito le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei, che fino a quel momento aveva richiesto da tutto il mondo per produrre materiale da imballaggio (si parla di un giro d’affari da 17 miliardi di dollari all’anno).

Dall’anno scorso, quindi, gli impianti italiani di incenerimento dei materiali di scarto e le discariche fanno affari sempre migliori, ma hanno sempre più difficoltà a occuparsi del materiale disponibile. Nell’ottobre del 2017 Andrea Fluttero, presidente di un conglomerato di aziende che si occupano di riciclo (FISE Unire), aveva detto al Sole 24 Ore che «sta diventando sempre più difficile la gestione degli scarti da processi di riciclo dei rifiuti provenienti da attività produttive e da alcuni flussi della raccolta differenziata degli urbani, in particolare quelli degli imballaggi in plastica post-consumo».

Il timore delle autorità italiane è che gli imprenditori e i gestori di rifiuti, viste le difficoltà degli ultimi tempi, ricorrano sempre più spesso a metodi illegali per disfarsene. «Da quando c’è stato il blocco dell’esportazione di rifiuti di plastica verso la Cina», ha raccontato ad Avvenire il coordinatore del gruppo della Procura nazionale antimafia sui crimini ambientali, Roberto Pennisi, «i nostri trafficanti hanno cominciato ad avere problemi. E così hanno trasformato l’Italia in Cina. Soprattutto le regioni del Nord».

Il metodo ipotizzato è piuttosto lineare. Anziché pagare un inceneritore o un’altra azienda che si offra di smaltire materiali difficilmente riciclabili oppure residui di riciclo, l’imprenditore preferisce pagare qualcuno che stipi i rifiuti in uno dei tanti capannoni vuoti del nord Italia. Questo qualcuno smaltisce davvero una piccola parte dei rifiuti, magari con la copertura di una azienda vera, ma si disfa della maggior parte di quei rifiuti stoccandoli nei capannoni e poi di tanto in tanto dando fuoco a quegli stessi capannoni. Gli incendi dolosi sono – oltre che illegali – anche dannosi per la salute della popolazione locale. In questo modo ci guadagnano entrambi: l’imprenditore che ha pagato a prezzo concorrenziale lo smaltimento dei rifiuti, e il trafficante che li ha eliminati a un costo risibile (i materiali necessari per l’incendio, e i danni subiti dal capannone).

Così facendo si esclude dal giro anche la criminalità organizzata, che nel sud Italia aveva creato un business notevole intorno allo smaltimento dei rifiuti. Lo ha spiegato in un’audizione alla commissione parlamentare d’inchiesta Sandro Raimondi, ex procuratore aggiunto di Brescia e uno dei magistrati più impegnati nelle inchieste sui roghi in Lombardia: «Ormai si può fare a meno, per certi aspetti, di rivolgersi obbligatoriamente alla criminalità organizzata. È diventato un modo callido e intelligente di fare impresa da parte di alcuni operanti del settore. Io lo definisco un reato di impresa dove l’imprenditore ha imparato come fare da solo, in modo autarchico».

Lo stesso metodo viene utilizzato anche da imprese legittime per «cancellare le prove di una gestione illegale», ha spiegato al Giorno Legambiente Lombardia. Sei mesi fa, per esempio, si era sviluppato un incendio alla ditta Eredi Bertè di Mortara, una cittadina a ovest di Pavia. I vigili del fuoco ci avevano messo tre settimane per spegnerlo definitivamente. Più tardi le autorità locali hanno scoperto che la ditta aveva immagazzinato circa il doppio dei rifiuti che poteva ospitare secondo i permessi – 12mila metri cubi contro 6,5mila – oltre a scorie speciali che non avrebbe nemmeno dovuto accettare.

Il principale problema identificato dalla commissione parlamentare che si è occupata di questi roghi – e una delle ragioni della diffusione di questa pratica, secondo il giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli – è che al momento rimane molto difficile individuare i colpevoli. Scrive Galli:

Se le pozze di liquido infiammabile eventualmente utilizzate lasciano tracce definite «inconfondibili» sulle pavimentazioni degli impianti andati a fuoco, subentrano numerose variabili che alzano le difficoltà. Alcuni materiali più impermeabili (cemento e tessuti che possono benissimo comparire nelle ditte bruciate poiché queste «ospitano» ogni tipo di scarti) «assorbono» i liquidi infiammabili e conservano a lungo le tracce. Altri materiali (cellulosa e schiume sintetiche) possono invece determinare un incendio covante, ovvero a combustione lenta, senza fiamma e di solito a bassa temperatura. I trafficanti hanno tutto il tempo per nascondere gli indizi, scappare e magari costruirsi un alibi.

Sui 261 casi giudiziari esaminati dalla commissione parlamentare fra il 2014 e l’estate del 2017, solo il 13 per cento ha superato la fase delle indagini, conservando la possibilità di individuare i colpevoli.